Responsabilità del politico per commenti altrui su Facebook: conforme alla Convenzione europea la “tolleranza zero” nei casi di messaggi d’odio

Corte europea dei diritti dell’uomo, 2 settembre 2021, Sanchez c. Francia, ric. 45581/15

Il politico che non rimuove tempestivamente commenti di incitamento all’odio o alla violenza dalla sa bacheca su Facebook, utilizzata durante una campagna elettorale, può essere considerato responsabile di hate speech in modo analogo all’autore del commento, se non adotta alcuna misura per impedire la diffusione dei messaggi posti da terzi. In questi casi l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione è considerata necessaria in una società democratica e la condanna del politico non comporta una violazione dell’art. 10 della Convenzione europea.

 

Sommario:  1. Premessa. – 2. La ricostruzione del caso all’attenzione di Strasburgo. – 3. La libertà di espressione nel sistema convenzionale, i limiti previsti dall’art. 10 e l’estensione del perimetro di applicazione dei limiti ai casi di incitamento all’odio. – 4. I limiti alla libertà di espressione e l’estensione a Internet: la prevedibilità della decisione giudiziale. – 5. I parametri per classificare uno scritto o una dichiarazione come hate speech e gli obblighi del titolare di un account su Facebook. – 6. Osservazioni conclusive: nuovi limiti o applicazione della sentenza Delfi per analogia?

 

  1. Premessa

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Sanchez c. Francia, depositata il 2 settembre 2021[1], è tornata sul rapporto tra diritto alla libertà di espressione, realizzato attraverso un social media come Facebook e i limiti posti dagli Stati, anche con sanzioni penali, necessari per impedire la diffusione di messaggi che incitano all’odio o alla violenza[2]. La particolarità del caso è data dalla circostanza che il ricorrente a Strasburgo era un politico in campagna elettorale e che, malgrado non avesse pubblicato sulla sua pagina su Facebook un’opinione apertamente in grado di configurare un incitamento alla violenza, è stato ritenuto colpevole di incitamento all’odio per aver lasciato visibili a tutti commenti di “amici” che incitavano alla discriminazione verso un determinato gruppo. Si tratta della prima volta in cui la Corte europea interviene per chiarire la compatibilità con la Convenzione di limiti alla libertà di espressione nel caso di incitamento all’odio o alla violenza imposti non solo sull’autore del commento, identificabile e non anonimo, o sul social network, ma sul politico titolare di un account che sembra così avere una responsabilità analoga a quelli di imprese che si occupano di reti sociali che non rimuovono un commento.

La Corte europea ha analizzato l’applicazione dell’art. 10 della Convenzione che assicura a ogni individuo il diritto alla libertà di espressione, ammettendo talune limitazioni a condizione che siano previste dalla legge e siano necessarie in una società democratica, e ha ritenuto che i tribunali francesi, nei diversi gradi del giudizio, si fossero attenuti all’interpretazione dell’art. 10 effettuata nel corso degli anni da Strasburgo, applicandola a un caso nuovo quale la responsabilità nell’incitamento all’odio dovuta a una sorta di negligenza consapevole o responsabilità per comportamento omissivo per i rischi della diffusone dell’hate speech.

Tale vicenda, quindi, ha permesso alla Corte di chiarire entro quali limiti va salvaguardato il dibattito politico e sulla base di quali criteri le autorità giurisdizionali nazionali possono intervenire e infliggere una sanzione penale per impedire l’incitamento alla violenza e atti di discriminazione, nei casi in cui sia in corso una campagna elettorale in vista delle elezioni e nei casi in cui non vi sia un’espressa previsione normativa interna che ponga limiti alla libertà di espressione con riguardo alle nuove tecnologie[3].

Pertanto, la sentenza, sulla quale si pronuncerà la Grande Camera tenendo conto che, il 17 gennaio 2022, il panel di 5 giudici ha accolto la richiesta del ricorrente di rinvio del caso al massimo organo giurisdizionale della Corte[4], permette di individuare, in positivo, anche taluni parametri di comportamento indirizzati proprio a politici che, in quanto personaggi pubblici, hanno responsabilità particolari e dovrebbero avere un ruolo attivo nel contrastare la diffusione di messaggi d’odio, non solo rimuovendo i commenti, ma prestando una particolare diligenza nei casi in cui non adottino la misura di “sicurezza” di non rendere la pagina attivata con il proprio account su Facebook aperta ad ogni commento. Dalla lettura della sentenza, sembra, a nostro avviso, che la Corte, rispetto ai precedenti in cui ha allargato la libertà di espressione dei politici, nei casi di istigazione all’odio individui una “responsabilità speciale” proprio degli uomini politici, soprattutto durante il periodo elettorale. E, in aggiunta, a nostro avviso, seppure indirettamente, la Corte ha inteso porre un freno a quei comportamenti di uomini politici che pubblicano post all’apparenza non di incitamento all’odio, salvando così le apparenze, ma lasciano la pagina del proprio account aperta al pubblico, favorendo così commenti dei propri “amici”, prevedendo che arriveranno messaggi di odio. Inoltre, la Corte sembra, con questa sentenza, equiparare la responsabilità di editori, di portali, dei social network, a quella di coloro che sono i titolari di un account su Facebook e non operano con la diligenza richiesta e con gli strumenti messi a disposizione dagli stessi social, per bloccare o rimuovere commenti, senza, quindi, che, in questi casi, la responsabilità per i messaggi d’odio e di discriminazione venga addossata alle aziende. Con un obiettivo, a nostro avviso, legittimo e necessario ossia fronteggiare il fenomeno dell’hate speech che, come risulta dall’ultima relazione presentata dalla Commissione europea il 7 ottobre 2021 sull’attuazione del codice di condotta per contrastare l’incitamento all’odio online adottato nel 2016 dalla Commissione europea e da Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube, a cui hanno poi aderito altri colossi dell’informatica, è ancora in crescita[5].  Tra l’altro, il codice di condotta richiede la valutazione dei contenuti entro 24 ore dalla segnalazione, con ciò assicurando una tempestiva eliminazione dei messaggi considerati illeciti. Ora, se agli obblighi posti a carico delle aziende non si affiancasse una responsabilizzazione degli utenti la lotta diventerebbe inutile.

 

  1. La ricostruzione del caso all’attenzione di Strasburgo

La vicenda che ha poi condotto alla pronuncia della Corte riguardava il sindaco di una cittadina francese e leader locale del Rassemblement national (prima Front National), per il quale si era candidato alle elezioni legislative nella circoscrizione di Nîmes. Durante la campagna elettorale, il ricorrente aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook, da lui gestita personalmente, un post nei confronti di un suo avversario politico, a quel tempo parlamentare europeo e vicesindaco della cittadina, ridicolizzandolo per i ritardi nella pubblicazione online del suo sito. Il post, anche tenendo conto che la pagina Facebook era pubblica, aveva causato le reazioni di numerose persone, con taluni commenti discriminatori nei confronti dei musulmani, ritenuti responsabili del degrado della cittadina e della mancata sicurezza nel contesto urbano. Per un utente, il politico al centro del messaggio iniziale del ricorrente, aveva trasformato “Nîmes in Algeri”. La compagna del parlamentare europeo aveva presentato una denuncia, ma l’autore del post iniziale si era limitato a chiedere ai suoi followers di moderare i commenti, lasciando, però, visibili per almeno sei settimane quelli già esistenti per i quali la donna aveva presentato la denuncia non solo nei confronti dell’avversario politico, ma anche degli autori di due commenti. Il vicesindaco e i due “amici” erano stati condannati, in base agli artt. 23 e 24 della legge 29 luglio 1881 e all’art. 93-3 della legge n. 82-652 del 29 luglio 1982, al pagamento di una multa di 4.000 euro dal Tribunale penale di Nîmes per incitamento all’odio o alla violenza nei confronti di un gruppo di persone, in particolare di religione islamica. La Corte di appello, che aveva confermato il verdetto riducendo però la multa a 3.000 euro, riteneva che il ricorrente avesse consapevolmente reso pubblica la sua pagina Facebook, autorizzando gli utenti “amici” a “postare” commenti. Il ricorrente aveva impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione invocando proprio l’art. 10 della Convenzione europea che garantisce il diritto alla libertà di espressione, ma la Suprema Corte aveva respinto il ricorso e, quindi, il politico condannato ha seguito la strada per Strasburgo che, però, non ha accertato, rispetto alla condanna disposta dai giudici nazionali, alcuna violazione del diritto alla libertà di espressione.

 

  1. La libertà di espressione nel sistema convenzionale, i limiti previsti dall’art. 10 e l’estensione del perimetro di applicazione dei limiti ai casi di incitamento all’odio 

Nell’esaminare il caso sottoposto all’attenzione di Strasburgo, la Corte ha dovuto preliminarmente affrontare la questione se l’applicazione di un limite alla libertà di espressione non espressamente inglobato nell’art. 10, come è il caso dell’incitamento all’odio, possa essere implicitamente incluso in tale norma. L’art. 10, infatti, stabilisce la «libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera», prevedendo, però, poiché tale attività comporta doveri e responsabilità, alcune restrizioni a condizione che siano previste dalla legge e siano necessarie in una società democratica per la salvaguardia di un bisogno sociale imperativo, come la protezione della reputazione o l’ordine pubblico, senza indicare in modo esplicito l’incitamento all’odio o alla violenza.

Se è vero che l’assenza di un limite espresso potrebbe fare ritenere che non sia possibile aggiungerne altri alle restrizioni espressamente indicate al par. 2 dell’art. 10, è anche vero che la Corte, proprio perché le norme convenzionali sono uno strumento vivente, ha precisato, sin dalla sentenza del 23 settembre 1994 Jersild c. Danimarca[6], che le comunicazioni le quali comportano un incitamento alla violenza e all’odio rientrano tra quelle che gli Stati possono restringere in base all’art. 10, par. 2. L’hate speech non solo non è protetto dalla Convenzione e non può essere incluso nell’art. 10, ma la Corte si è spinta ad affermare che gli Stati hanno un diritto/obbligo di vietare e di punire gli autori di incitamento all’odio, anche con una misura privativa della libertà personale[7].

La giurisprudenza sul punto è molto vasta e ha riguardato inizialmente la diffusione attraverso stampa o televisione e radio e, in epoca più recente, i social network, in modo analogo a quanto avvenuto sul piano internazionale. La Corte ha evidenziato, anche nella sentenza Sanchez, che diversi organi internazionali hanno rilevato la necessità che gli Stati puniscano gli autori di hate speech e che in diversi testi, in epoca più recente, è stata esclusa la possibilità che dichiarazioni o scritti che incitano all’odio possano trovare spazio in atti a tutela dei diritti dell’uomo. Già poco dopo l’adozione della Convenzione europea, nel Patto sui diritti civili e politici del 1966 è stata inclusa una norma espressa, l’art. 20, che impone agli Stati di vietare nell’ordinamento interno «qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza». Proprio nella sentenza Sanchez, Strasburgo ha sottolineato che questo limite è stato affermato anche nel sistema convenzionale, tenendo conto che la stessa Convenzione deve essere letta alla luce degli altri atti internazionali, valutando altresì il consenso, verificabile attraverso le legislazioni statali, verso determinate interpretazioni[8]. Con riguardo poi all’apparizione di nuovi strumenti per la diffusione di opinioni e scritti, le novità nell’impiego di nuove tecniche e strumenti non costituisce un impedimento all’estensione delle limitazioni anche in settori che vedono l’impiego di nuove tecnologie. D’altra parte, è evidente che è il comportamento in sé che deve essere punito, senza che abbia importanza lo strumento utilizzato. In questo senso, il Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, istituito nel contesto della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, adottata a New York il 21 dicembre 1965, secondo la quale gli Stati devono condannare «ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e discriminazione razziale» (art. 4), che conduce a un obbligo di adozione di misure positive, nella raccomandazione generale n. 35 del 26 settembre 2013 relativa alla lotta contro i discorsi di odio razziale, ha sottolineato che tali discorsi possono assumere diverse forme e, dal punto di vista contenutistico, non sono limitate alle dichiarazioni direttamente legate alla razza. Pertanto, secondo il Comitato, «States parties should give due attention to all manifestations of racist hate speech and take effective measures to combat them. The principles articulated in the present recommendation apply to racist hate speech, whether emanating from individuals or groups, in whatever forms it manifests itself, orally or in print, or disseminated through electronic media, including the Internet and social networking sites, as well as non-verbal forms of expression» (§ 7). Così, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il 6 luglio 2012, nella risoluzione sulla promozione, la protezione e l’esercizio dei diritti dell’uomo su internet, inserito per la prima volta l’accesso al web tra i diritti dell’uomo, ha sottolineato che gli stessi diritti attribuiti offline devono essere attribuiti online. Ci sembra che la previsione dell’estensione dei diritti prescindendo dal mezzo utilizzato debba valere anche per i doveri[9].

Anche nel contesto del Consiglio d’Europa possiamo individuare numerosi atti nei quali si chiede agli Stati di sanzionare gli autori di discorsi d’odio, qualunque strumento essi utilizzino. Tra gli altri, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, con la raccomandazione n. R(97)20 del 30 ottobre 1997, dopo aver fornito una nozione di “discorsi d’odio” che include anche la discriminazione e l’intolleranza verso gli immigrati, ha evidenziato la particolare responsabilità di istituzioni pubbliche. Nella stessa direzione, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, nella raccomandazione n. 15 dell’8 dicembre 2015, ha sottolineato che l’utilizzo di tali discorsi è in aumento soprattutto a causa di internet e che è necessario che gli Stati adottino misure appropriate ed efficaci in ambito penale per punire gli autori di discorsi d’odio o che incitano all’odio. È così evidente che le legislazioni interne che puniscono gli autori di discorsi d’odio o altre persone che siano complici in questa diffusione sono in linea con il quadro esistente sul piano internazionale.

La necessità di sanzionare coloro che commettono hate speech trova conferma nella giurisprudenza della Corte che ha respinto i ricorsi di alcune persone condannate dai giudici nazionali per hate speech richiamando, accanto ai limiti di cui possono avvalersi gli Stati ai sensi dell’art. 10, par. 2, anche l’art. 17 della Convenzione in base al quale nessuna disposizione convenzionale «può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, gruppo o individuo di esercitare un’attività o compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella Convenzione…»[10]. Allorquando l’azione a Strasburgo è stata avviata da individui che, ad esempio, hanno manifestato opinioni antisemite o di incitamento all’odio, la Corte ha precisato che i ricorrenti non potevano avvalersi dell’art. 10 in ragione dell’art. 17 «in quanto le dichiarazioni erano in contrasto con valori fondamentali come la tolleranza, la pace sociale e la non discriminazione»[11]. Tenendo conto, quindi, che la Convenzione europea è uno strumento vivente, le autorità nazionali possono – e diremmo devono – restringere il perimetro di applicazione della libertà di espressione se si tratta di dichiarazioni scritte o orali che incitano all’odio sia con mezzi diretti che indiretti attraverso, ad esempio, il negazionismo[12]. La restrizione della libertà di espressione nei casi di incitamento all’odio è funzionale a garantire la dignità di ogni essere umano ed è essenziale per una società democratica e pluralista e, quindi, per la Corte «Il en résulte qu’en principe on peut juger nécessaire, dans les sociétés démocratiques, de sanctionner voire de prévenir toutes les formes d’expression qui propagent, incitent à, promeuvent ou justifient la haine fondée sur l’intolérance (y compris l’intolérance religieuse), si l’on veille à ce que les “formalités”, “conditions”, “restrictionsou “sanctions” imposées soient proportionnées au but légitime poursuivi» (così nella discutibile sentenza del 6 luglio 2006, Erbakan c. Turchia, §. 56)[13]. Inoltre, nel caso di politici «il est d’une importance cruciale que les hommes politiques, dans leurs discours publics, évitent de diffuser des propos susceptibles de nourrir l’intolérance» (§ 64).

Pertanto, malgrado l’assenza di uno specifico limite, la Corte non solo riconosce agli Stati il diritto di invocarlo con riguardo all’art.10, par. 2, ma offre una “copertura” alle azioni degli Stati anche attraverso l’art. 17 perché le autorità nazionali non devono tollerare comportamenti che conducano alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione, con ciò affermando un obbligo positivo sugli Stati. A tal proposito, è opportuno ricordare che la stessa Convenzione vieta, all’art. 14, ogni forma di discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà convenzionali e che il Protocollo n. 12 ha inserito un divieto generale di discriminazione, con un obbligo sugli Stati che devono agire in modo che nessuno sia oggetto di discriminazione.

 

  1. I limiti alla libertà di espressione e la loro estensione a Internet: la prevedibilità della decisione giudiziale

Come detto l’art. 10 della Convenzione richiede che le eventuali limitazioni al diritto alla libertà di espressione siano previste dalla legge, con l’obiettivo di assicurare il rispetto del principio nullum crimen, nulla poena sine lege (affermato dall’art. 7 della Convenzione – che non può essere oggetto di alcuna deroga ai sensi dell’art. 15 –  in base al quale «nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che al momento in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»)[14] e garantire a ogni individuo la prevedibilità circa l’illiceità di un proprio comportamento. In via generale, va ricordato che la stessa Corte ha già affermato, in più occasioni, e con riguardo a diversi contesti, che un reato può essere conseguenza di un’evoluzione giurisprudenziale e, in questi casi, ciò che è richiesto è unicamente l’esistenza di una prassi non contraddittoria per assicurare la prevedibilità da parte di un individuo che può fare così affidamento sull’interpretazione già fornita dai giudici nazionali[15].

La legge francese applicabile nel caso in esame è stata già oggetto di analisi, proprio sotto il profilo della prevedibilità, nella sentenza del 10 luglio 2008 (Soulas e altri c. Francia)[16], con la quale la Corte ha accertato che non era contraria alla Convenzione una condanna disposta dai giudici nazionali ai ricorrenti a seguito della pubblicazione di un libro con messaggi di incitamento all’odio e alla discriminazione nei confronti dei musulmani, sulla base dell’art. 24 della legge del 29 luglio 1881. Così, nella sentenza dell’11 giugno 2020, Baldassi e altri c. Francia[17],  la Corte europea, che si è trovata ad affrontare un ricorso di alcuni attivisti francesi che, per sostegno alla Palestina, avevano invocato il boicottaggio di prodotti importati da Israele ed erano stati condannati per incitamento alla discriminazione “economica” sulla base dell’art. 24 della legge del 1881, ha stabilito che non vi era stata alcuna violazione dell’art. 7 della Convenzione che richiede la previsione dei reati nella legge (pur ritenendo invece violato l’art. 10 sul fronte della necessarietà della limitazione alla libertà di espressione). Ad avviso della Corte, la tesi dei ricorrenti secondo i quali nella legge non era stato previsto espressamente il divieto di discriminazione economica era da respingere perché, anche se la citata legge non indica espressamente il divieto di incitamento a forme di discriminazione economica, in base alla giurisprudenza esistente, i ricorrenti avrebbero potuto prevedere l’applicabilità del divieto di discriminazione stabilito per questioni di genere, religione, razza, anche ad altre ipotesi. La nozione di legge, per la Corte, riguarda non solo un testo normativo, ma anche quanto si ricava dalla giurisprudenza e, all’epoca dei fatti, sulla base delle pronunce esistenti.

Nella stessa direzione, con la decisione del 7 maggio 2010[18], la Corte ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da Jean-Marie Le Pen contro la Francia, a seguito della condanna subita per decisione dei tribunali nazionali per incitamento all’odio e alla discriminazione, perché le dichiarazioni del ricorrente, in astratto, godevano della protezione di cui all’art. 10, ma nel caso di specie, proprio analizzando il contesto, dette dichiarazioni, anche se non pienamente corrispondenti alle previsioni delle leggi interne, erano in grado di suscitare un forte sentimento di ostilità nei confronti della comunità musulmana[19]. Già in quell’occasione, la Corte europea ha stabilito che la condanna in sede penale è stata basata su due leggi francesi (quella del 18 luglio 1881 e la legge n. 82-652 del 29 luglio 1982) e, quindi, il primo requisito richiesto dall’art. 10 per ammettere le limitazioni alla libertà di espressione, ossia la previsione di ogni restrizione nella legge, era presente.

La prevedibilità, inoltre, non è garantita solo in presenza di un precedente giurisprudenziale ma, in termini più ampi, a condizione che l’interpretazione risulti ragionevolmente prevedibile. Così, nella sentenza Sanchez, sulla base di questi dati, la Corte ha respinto la tesi del ricorrente sulla violazione del requisito della prevedibilità della limitazione che è rispettato nei casi in cui si tratti di fattispecie inedite e non trattate in precedenza dai giudici nazionali che, però, hanno dato un’interpretazione possibile e “ragionevolmente prevedibile”.

Un ulteriore profilo collegato alla prevedibilità riguarda la possibilità non solo di allargare il perimetro di applicazione della legge da parte della giurisprudenza, ma anche di procedere ad applicare la legge nel caso di mutamenti tecnologici che portino all’impiego di strumenti nuovi rispetto al passato. Ed invero, in presenza di cambiamenti nell’utilizzo di strumenti di diffusione delle opinioni, la Corte non richiede l’adozione di leggi ad hoc, ma si riserva di effettuare un controllo “doppio” – sulla normativa e sulla prassi interna – per individuare elementi che diano a ogni individuo la possibilità di stabilire in anticipo l’illiceità di un determinato comportamento. In quest’esame, quindi, la Corte europea, pur non sostituendosi alle valutazioni dei tribunali interni, accerta che i giudici nazionali abbiano utilizzato i criteri di prevedibilità fissati nel contesto del sistema di garanzia della Convenzione europea che, evidentemente, la Corte considera conoscibile da parte di ogni individuo.

Proprio con riferimento a internet e ai social media, già in passato, in relazione a un caso che riguardava i limiti alla libertà di espressione su Internet, la Grande Camera, nella sentenza del 17 giugno 2015, Delfi c. Estonia[20], nel primo caso su libertà di espressione ed evoluzioni nella comunicazione introdotte da internet, ha richiesto, con riguardo alla prevedibilità delle limitazioni in una situazione in cui la novità rispetto alla legge esistente era costituita dal mezzo utilizzato, che l’individuo fosse in grado di prevedere, in misura ragionevole, considerando le circostanze del caso, le conseguenze che potevano derivare da una determinata azione. Pertanto, non è necessario che le conseguenze “siano prevedibili con assoluta certezza” perché, pur essendo auspicabile che ciò si realizzi, va considerato che un’eccessiva rigidità impedirebbe alla legge di adattarsi al cambiamento delle circostanze.

A nostro avviso, questo comporta che, così come la stessa Corte considera le norme come strumento vivente ammettendo limiti non espressamente previsti ma necessari per permettere un adattamento delle norme convenzionali in linea con l’evoluzione della società, anche i giudici interni possono interpretare in modo evolutivo le proprie norme nel rispetto dei criteri previsti dalla Convenzione europea, assicurando così la prevedibilità della “legge”. Sulla questione della responsabilità di un post pubblicato su un sito internet la Corte di Cassazione francese, sin da una sentenza dell’8 dicembre 1998, aveva stabilito che tali comunicazioni rientrano nella legge del 1881 modificata nel 1982 e nel 2009 (che si occupa della comunicazione audiovisiva) e, quindi, la previsione della misura era assicurata e accessibile al ricorrente. Sia la Corte costituzionale francese, sia la Corte di cassazione, con una prassi anteriore ai fatti della causa, hanno chiarito i casi di imputabilità penale e la nozione di produttore (producteur) della pubblicazione. Strasburgo non considera rilevante che sul piano nazionale non fosse stata ancora presa in considerazione la responsabilità del titolare di un account Facebook per i commenti diffusi sulla sua pagina perché il carattere inedito, con riguardo alla giurisprudenza, della questione giuridica non costituisce in sé una violazione delle esigenze di accessibilità e di prevedibilità della legge, se la soluzione seguita è parte di una delle possibili interpretazioni ragionevolmente prevedibili.

 

  1. I parametri per classificare uno scritto o una dichiarazione come hate speech e gli obblighi del titolare di un account su Facebook

Respinto il ricorso circa la violazione della previsione per legge della limitazione alla libertà di espressione, la Corte è passata ad accertare se detta limitazione fosse necessaria in una società democratica per la tutela di un bisogno sociale imperativo. Su tale punto, la Corte ha rilevato che gli Stati hanno un “certo margine di apprezzamento”, sul quale, però, Strasburgo mantiene un controllo per accertare che le indicate limitazioni siano proporzionali rispetto al fine perseguito e che i motivi invocati dalle autorità nazionali per imporre una limitazione siano “pertinenti e sufficienti”.

La questione centrale che qui la Corte affronta per la prima volta è che la responsabilità penale accertata dai giudici francesi non ha riguardato solo l’autore del commento, ma anche di colui che, di fatto, ha tollerato la pubblicazione e ha contribuito, non rimuovendo un commento, a diffondere l’incitamento all’odio.

Si tratta di una situazione in cui le limitazioni alla libertà di espressione presentano un rischio maggiore di compressione del diritto perché si afferma una responsabilità derivata, non per fatto proprio, che potrebbe avere un effetto dissuasivo di ampia portata, soprattutto nel caso di limitazioni rivolte a un uomo politico durante la campagna elettorale, situazione che, invece, richiede un rafforzamento della libertà di espressione per favorire il dibattito politico. Certo, però, non nei casi in cui il politico, con il suo comportamento, mira a colpire un determinato gruppo, provocando manifestazioni di odio, discriminazione, d’intolleranza. L’utilizzo del mezzo di comunicazione attraverso internet ha inoltre talune peculiarità perché la capacità di divulgazione di questo strumento è sia un vantaggio in termini di diffusione nel tempo e nello spazio, sia un rischio nel caso di messaggi di odio, considerando che tali messaggi possono diventare virali o possono contribuire a creare un seguito di altri utenti sintonizzati sulla stessa pagina. È, quindi, molto importante provare a classificare i parametri individuati dalla Corte per qualificare un messaggio d’odio o di incitamento alla violenza, al fine di evitare contrasti con la Convenzione.

Nel ricostruire la giurisprudenza della Corte, si può osservare che i parametri utilizzati da Strasburgo per qualificare un’opinione o uno scritto come incitamento all’odio si sono consolidati e sono analoghi anche in altri contesti. La Corte europea ha sottolineato che rientrano nell’hate speech le espressioni che minano la dignità umana, con un carattere discriminatorio e che, però, per qualificare detto messaggio come hate speech, è necessario considerare anche il contesto nel quale i discorsi sono pronunciati[21], salvo nei casi in cui le dichiarazioni di odio siano particolarmente chiare e indirizzate contro un gruppo[22]. A ciò si aggiunga che il Comitato dei Ministri, nella raccomandazione R(97)20 del 30 ottobre 1997, ha chiesto agli Stati di combattere l’hate speech che include «all forms of expression which spread, incite, promote or justify racial hatred, xenophobia, anti-Semitism or other forms of hatred based on intolerance…».

Sul piano internazionale si può anche ricordare il rapporto presentato il 7 settembre 2012 con la risoluzione 16/4 dal Relatore speciale per la promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione secondo il quale, per stabilire se un’espressione costituisce incitamento all’odio, bisogna considerare un «…real and imminent danger of violence resulting from the expression; intent of the speaker to incite discrimination, hostility or violence; and careful consideration by the judiciary of the context in which hatred was expressed, given that international law prohibits some forms of speech for their consequences, and not for their content as such, because what is deeply offensive in one community may not be so in another» (§ 46). Così, si deve tenere conto di eventuali tensioni esistenti tra gruppi religiosi o tra comunità che vivono in determinate zone (come è stato nel caso Sanchez con riferimento alla comunità di Nîmes), nonché degli strumenti utilizzati per diffondere le dichiarazioni. Pertanto, la scelta della Corte di usare una maggiore severità nei confronti del politico che utilizza Facebook in campagna elettorale, quando è evidente che la pagina sul social media è più visitata proprio dai cittadini di una località, appare condivisibile e in linea con gli standard internazionali, che portano a una distinzione tra opinioni meritevoli di tutela e “opinioni” utilizzate solo per compiere un illecito[23]. Il giudice nazionale, infatti, ha considerato il contesto e, quindi, ha rispettato i criteri della Corte a differenza di quanto avvenuto in altre occasioni[24].

Ci pare, poi, che la conclusione della Corte europea si inserisca in una realtà più globale in cui è necessario rafforzare la lotta all’hate speech: considerare compatibile con l’art. 10 della Convenzione la condanna del politico non autore del commento è una misura di responsabilizzazione di una persona pubblica che, in teoria, dovrebbe essere un esempio di comportamento per i cittadini ed è un modo per fronteggiare comportamenti di apparente liceità, ma che in realtà nascondono una precisa finalità di incitamento alla violenza, diremmo quasi un piano strategico per fare apparire il politico stesso come non responsabile. Ed invero, proprio perché sono i politici, in quanto personaggi pubblici con una particolare responsabilità nel contrastare l’odio e l’intolleranza, coloro che possono causare consapevolmente le reazioni dei cosiddetti haters, che postano commenti discriminatori e di incitamento alla violenza, è condivisibile l’adozione di misure punitive nei loro confronti. Già in passato, con la sentenza Lingens c. Austria dell’8 giugno 1986[25], la Corte ha precisato che i politici scelgono di scendere nell’arena pubblica e hanno non solo un obbligo di maggiore tolleranza rispetto alle critiche, ma anche un dovere e una responsabilità nei confronti della collettività[26]. Sui rischi per la diffusione dell’hate speech per comportamento di politici si è pronunciata anche la missione di valutazione elettorale dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo (Office for Democratic Institutions and Human Rights, ODIHR) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) che, nel rapporto finale sulla missione in Italia durante lo svolgimento delle elezioni parlamentari del 4 marzo 2018, ha rilevato che «The tone of the campaign was antagonistic and confrontational, at times characterized by the use of discriminatory stereotypes and intolerant rhetoric targeting immigrants, especially through negative messages disseminated via social media».

La Corte europea, correttamente, dà rilievo proprio alla consapevolezza di chi struttura la pagina Facebook in modo da lasciarla senza filtri: la pagina del politico, infatti, era aperta, liberamente accessibile e con enormi capacità di diffusione, anche per lungo tempo. Già in passato, nel caso Féret c. Belgio, la Corte, con la sentenza del 16 luglio 2009, in un caso riguardante la condanna di un politico belga per incitamento all’odio, ha sottolineato che i discorsi politici esigono un particolare ed elevato livello di protezione, come attestato anche dalle legislazioni nazionali che garantiscono l’immunità parlamentare per le opinioni espresse nell’esercizio delle proprie funzioni e Strasburgo condivide, anche nel caso Sanchez, l’esigenza di proporre anche opinioni che possono colpire o scioccare una parte della popolazione, precisando che i politici possono sostenere soluzioni per risolvere problemi legati all’immigrazione, ma «Toutefois, ils doivent éviter de le faire en préconisant la discrimination raciale et en recourant à des propos ou des attitudes vexatoires ou humiliantes, car un tel comportement risque de susciter parmi le public des réactions incompatibles avec un climat social serein et de saper la confiance dans les institutions démocratiques»[27].

Internet – scrive la Corte – è «uno strumento senza precedenti per la libertà di espressione», ma anche i rischi sono enormi soprattutto nei casi di incitamento all’odio e alla violenza.

Ci sembra, quindi, che la conclusione della Corte sia in linea con i precedenti giurisprudenziali e non condividiamo le posizioni di una parte della dottrina secondo la quale la sentenza Sanchez sarebbe in contraddizione con il caso Delfi[28]: la Corte, a nostro avviso, è arrivata a ritenere compatibile con la Convenzione la condanna del politico autore di un post “neutro”, ma tollerante nei confronti di commenti di incitamento all’odio perché ha equiparato il “proprietario” della pagina al proprietario del portale: in effetti alcune analogie sussistono perché il titolare della pagina svolge un ruolo di intermediazione e ha la possibilità di prevenire o rimuovere i commenti[29]. Un’ulteriore conferma del livello di responsabilità della persona titolare dell’account arriva anche dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, nella sentenza del 5 giugno 2018, causa C-210/06, ha stabilito che l’amministratore di una pagina Facebook va considerato come «responsabile del trattamento dei dati delle persone che visitano la sua pagina»[30].

Ora, nel caso Sanchez, il politico era pienamente consapevole che la sua pagina era aperta e che il commento avrebbe causato delle reazioni. La sua consapevolezza è dimostrata anche dal fatto che gli “Standard della community di Facebook”, che ogni utente deve accettare per accedere al social, vietano i contenuti che incitano all’odio, intesi come attacchi diretti nei confronti di persone sulla base della razza, dell’etnia, della nazionalità, della disabilità, della religione, della casta, dell’orientamento sessuale, del genere e di malattie gravi e consentono all’utente di controllare la propria pagina.

Sono due, quindi, le scelte consapevoli e colpevoli del politico: la decisione di lasciare la pagina aperta a ogni tipo di commento, malgrado Facebook con l’adozione di standard di comportamento relativi all’uso della community abbia cercato di fare assumere consapevolezza agli utenti relativamente ai messaggi che non risultano accettabili proprio per impedire l’hate speech, e la negligenza nella cancellazione del messaggio.

Nella scelta di non rimuovere il commento il politico ha partecipato attivamente alla diffusione del messaggio con l’intento di incitare all’odio e alla violenza e, attraverso la propria pagina, accelerare la diffusione dell’hate speech. La pericolosità di comportamenti simili da parte di politici è stata sottolineata anche dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione che, in un rapporto del 9 ottobre 2019, ha evidenziato che «…incitement is almost certainly more harmful when uttered by leaders than other users, and that factor should be part of the evaluation of platform content»[31].

Nel caso Sanchez, inoltre, i giudici francesi non avevano punito unicamente il politico, ma anche l’autore del commento con ciò mostrando la volontà di produrre un effetto deterrente sul soggetto autore in prima persona del commento e su colui che non lo rimuove.

La Corte europea sottolinea l’importanza delle campagne elettorali che sono sempre molto accese e servono per favorire il dibattito pubblico su questioni di interesse generale. Si tratta di una libertà che, quindi, deve essere garantita in modo ampio e le restrizioni dovrebbero essere ammesse solo in via eccezionale. Allo stesso tempo, però, la diffusione di un messaggio che passa attraverso la pagina di un politico ha maggiori capacità di diffusione, fomentando l’odio, l’intolleranza e la xenofobia e, quindi, i giudici nazionali devono effettuare un bilanciamento tra le divere esigenze in gioco tenendo conto della giurisprudenza di Strasburgo. È proprio il bilanciamento ad essere la chiave di volta per il raggiungimento di un punto di equilibrio: non c’è dubbio che, soprattutto prima delle elezioni, le opinioni devono circolare liberamente, ma proprio in tale periodo va usata una particolare diligenza per impedire forme di intolleranza e di odio che sono sicuramente amplificate, soprattutto in contesti locali. La diligenza del politico era sicuramente mancata perché egli aveva comunicato agli inquirenti che la bacheca del suo account Facebook non era più pubblica solo qualche giorno prima dell’udienza penale e, in ogni caso, solo tre mesi dopo rispetto ai fatti aveva deciso di rimuovere il messaggio. Inoltre, la sanzione era stata proporzionata e, quindi, il bilanciamento effettuato dai giudici nazionali corretto e necessario in una società democratica.

Il principio del bilanciamento, come voluto dalla Corte europea, è stato seguito anche dall’Oversightboard di Facebook: il Comitato di controllo, infatti, in diverse occasioni ha adottato decisioni in cui, pur richiamando l’importanza del dibattito politico da garantire durante le campagne elettorali, ha adottato provvedimenti per bloccare post che possono incitare all’odio, raggiungendo migliaia di visualizzazioni[32]. Questo ci sembra un ulteriore elemento che dovrebbe portare gli utenti ad avere consapevolezza dell’importanza di prevenire, anche sulle proprie pagine, la diffusione di messaggi discriminatori.

 

  1. Osservazioni conclusive: nuovi limiti o applicazione della sentenza Delfi per analogia?

Se la sentenza Sanchez non sembra introdurre particolari elementi di novità rispetto ai limiti alla libertà di espressione già individuati in passato, nonché sull’inquadramento dell’hate speech, la pronuncia introduce per la prima volta una sorta di equiparazione, sotto il profilo della responsabilità, tra il titolare dell’account personale, ma pubblico su Facebook e il portale che opera per fini economici, nonché gli stessi social media che hanno, in via generale, sofisticati strumenti di controllo strutturati all’interno dell’azienda e funzionali proprio a svolgere la supervisione dei contenuti al fine di evitare la diffusione di messaggi discriminatori. C’è da chiedersi se la sostanziale equiparazione di una persona che possiede un account aperto al pubblico rispetto a enti o aziende con maggiori capacità di controllo e una maggiore disponibilità economica sia in grado di avere un effetto dissuasivo pericoloso per la libertà di espressione e se la pronuncia Sanchez sia un ribaltamento delle conclusioni raggiunte nel caso Delfi. La sentenza della Grande Camera, in effetti, aveva posto una distinzione tra gli obblighi, sicuramente più gravosi, di un portale con fini commerciali e l’utilizzo di internet senza carattere di professionalità, ad esempio nei casi di blogger o di persone che dialogano sui social media.

Talune critiche sono state avanzate dalla giudice Mourou-Vikström che ha allegato una posizione dissenziente con la quale ha sottolineato un distacco rispetto alla sentenza Delfi, in quanto l’account del politico dovrebbe rientrare nella seconda categoria ossia quella che include soggetti che non si avvalgano di internet per fini commerciali: nella scelta Sanchez, con la quale si ammette un allargamento della responsabilità anche alla persona titolare di un account per un commento di altri, poiché la Camera non si allinea alla Grande Camera, la prima avrebbe dovuto chiarire con più precise motivazioni la scelta dell’allargamento del perimetro della responsabilità, della persona fisica che ha una pagina Facebook, per commenti di altri.

In realtà, a noi non sembra che l’inquadramento della Corte nella sentenza Sanchez capovolga quanto statuito nel caso Delfi: entrambe le pronunce perseguono lo stesso obiettivo ossia chiarire i limiti alla libertà di espressione sul web in presenza di utenti (siano essere portali o altro) che hanno una forte capacità di fare diffondere il proprio messaggio e che hanno gli elementi per rimuovere un commento, scegliendo però di rimanere inerti. La Corte, infatti, ha preso atto di quanto accertato dai giudici nazionali ossia che il politico conosceva il contenuto dei commenti ma non li aveva rimossi, limitandosi a un invito diremmo bonario ad usare toni meno accessi. È su questo e sull’assenza di adozione di una “rete di protezione” nell’aprire la pagina Facebook che si è basata la valutazione della Corte europea. Non riteniamo così, condivisibile quanto sostenuto dalla giudice Mourou-Vikström secondo la quale la Corte avrebbe affermato una forma di responsabilità automatica nei casi di utilizzo di singoli individui dei social media o di commenti sui blog amatoriali. La Corte, nella sentenza Delfi, ha applicato, per stabilire la necessità dell’ingerenza, parametri come la valutazione del contesto dei commenti, delle misure predisposte dalla società per prevenire o rimuovere i commenti diffamatori, la responsabilità degli autori dei commenti come alternativa alla responsabilità della società e le conseguenze dei procedimenti interni, criteri che sono stati applicati anche in Sanchez. Il precedente esame della sentenza ha mostrato, infatti, che il contesto era altamente pericoloso perché vi era un’intolleranza nei confronti di stranieri di religione musulmana, che il titolare dell’account, che aveva nelle sue mani un potere di filtrare o controllare i commenti aveva scelto di lasciare aperta la pagina con effetti che poteva sicuramente prevedere, che nel procedimento interno era stato rispetto il principio di proporzionalità nell’applicazione delle misure sanzionatorie, limitate a una multa di importo non elevato. Un unico profilo sembra differenziarsi rispetto a Delfi: in quel caso, la Corte aveva ritenuto che la responsabilità degli autori dei commenti poteva essere un’alternativa rispetto alla responsabilità della società, mentre nel caso Sanchez la Corte ha considerato conforme ai limiti di cui all’art. 10 l’affermazione della responsabilità sia dell’autore del commento sia del politico titolare dell’account, ma sul presupposto che la legislazione interna vietava l’incitamento all’odio e alla violenza e che il titolare dell’account aveva certamente contribuito alla diffusione, agendo in modo o negligente o volendo consapevolmente aiutare i suoi potenziali elettori.

Un politico ben noto, per di più in piena campagna elettorale, in cui si manifesta un maggiore interesse della popolazione sui discorsi politici, ha una maggiore responsabilità, sapendo che i propri sostenitori potrebbero usare toni incompatibili con il rispetto della dignità umana e questo soprattutto in anni in cui la comunicazione politica è anche causa, in taluni casi, di incitamento alla discriminazione e di disinformazione soprattutto su temi come l’immigrazione. Se i giudici francesi avessero omesso di punire il titolare dell’account, avrebbero fortemente attenuato la lotta alla piaga dell’hate speech che costituisce un allarme concreto per ogni democrazia e che è in grado di minare i valori fondamentali di una società. Non solo. Affermare un’assenza di responsabilità del titolare dell’account, in particolare se politico, significherebbe, con una certa ipocrisia, ammettere forme di hate speech “mascherate”. La conclusione della Corte ci sembra anche un’applicazione dei principi stabiliti nella sentenza Jersild nella quale la Corte aveva ritenuto che il giornalista, il quale aveva invitato in un programma televisivo neonazisti che incitavano all’odio non poteva essere considerato responsabile tenendo conto del contesto: l’intervista, infatti, era stata trasmessa in un programma rivolto a un pubblico ben informato, in grado di discernere le diverse opinioni. Nel caso Sanchez, invece, la Corte ha valutato il contesto ossia la trasmissione di un commento su una piazza senza confini come il web e, proprio per questo, ha configurato la responsabilità di colui che avrebbe potuto prevenire quella diffusione (con un filtro a monte sulla sua pagina) o bloccarla successivamente. Il politico, invece, pur informato dei commenti discriminatori, era rimasto inerte, con ciò, a nostro avviso, mostrando una totale condivisione del messaggio e un comportamento attivo nella sua diffusione.

Sulla particolare questione della responsabilità per commenti altrui non resta, però, che attendere la Grande Camera.

 

[1] Ric. 45581/15.

[2] Cfr. R. Pisillo Mazzeschi, Diritto internazionale dei diritti umani. Teoria e prassi, Torino, 2020, 324 ss.; M. Bassini, Internet e libertà di espressione. Prospettive costituzionali e sovranazionali, Roma, 2019, 239 ss.; M. Castellaneta, Discriminazione razziale e propaganda, obblighi di valutazione del contesto e critica politica tra diritto interno e diritto internazionale, in questa Rivista, 2020, 245 ss.; Id., L’hate speech: da limite alla libertà di espressione a crimine contro l’umanità, in G. Venturini – S. Bariatti (a cura di), Diritti individuali e giustizia internazionale, Liber Fausto Pocar, Milano, 2009, 157 ss.; P. Lambert, Racisme et liberté d’expression dans la Convention européenne des droits de l’homme, in P. Mahoney (a cura di), Protection des droits de l’homme: la perspective européenne, Mélanges à la mémoire de Rolv Ryssdal, Köln, Berlin, Bonn, München, 2000, 735 ss.; M. Oetheimer – A. Cardone, Art. 10, in S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 397 ss.; M. Verpeaux, Freedom of expression, Strasbourg, 2010, 159 ss.; A. Strowel, F. Tulkens, Liberté d’expression et droits concurrents: du juge de l’urgence au juge européen de la proportionnalité, in Médias et droit, Louvain, 2008, 7 ss.

[3] Cfr. S. Assimakopoulos – F.H. Baider – S. Millar, Online Hate Speech in the European Union, Berlin, 2017; A. Brown, Hate Speech Law, New York – London, 2015.

[4] Per F. Kupsch, Watch Your Facebook Comment Section!, in voelkerrechtsblog.org/de, sarebbe opportuno che del caso si occupasse la Grande Camera, tenendo conto dell’estensione della responsabilità di coloro che hanno un account su un social media per commenti di altri utenti.

[5] Si veda il sito https://ec.europa.eu/info/policies/justice-and-fundamental-rights/combatting-discrimination/racism-and-xenophobia/eu-code-conduct-countering-illegal-hate-speech-online_en.

[6] Ric. 15890/89. Dopo aver affermato l’indicato principio, nel caso specifico, la Corte ha rilevato che la condanna decisa dai tribunali danesi per incitamento all’odio fosse contraria alla Convenzione, ma unicamente perché nel caso specifico il comportamento del giornalista non perseguiva quell’obiettivo. Il giornalista, infatti, aveva svolto la sua funzione intervistando alcuni giovani che avevano espresso idee neonaziste in un contesto non «rischioso» trattandosi di una trasmissione televisiva destinata a un pubblico «ben informato» che poteva ben discernere i contenuti, elemento che invece i giudici nazionali non avevano considerato ponendo attenzione unicamente alle frasi pronunciate nel servizio, ma non al contesto. Il giornalista, inoltre, aveva contestato in diretta le dichiarazioni.

[7] Sentenza del 17 dicembre 2004, caso Cumpănă e Mazăre c. Romania, ric. 33348/96.

[8] Cfr. J. Bayer, P. Bard, Hate speech and hate crime in the EU and the evaluation of online content regulation approaches, PE 655.135, 2020, Brussels, in specie 33 ss.

[9] Doc.  A/HRC/20/L.13.

[10] Si veda la decisione di irricevibilità Belkacem c. Belgio, ric. 34367/14 (2017). Sull’art. 17 cfr., tra gli altri, F. Falconi, Alcune considerazioni sull’abuso della libertà di espressione nella giurisprudenza di Strasburgo, in Studi sull’integrazione europea, 2020, 359 ss.; C. Frances Moran, Responsibility and freedom of speech under article 10, in Eur. Hum. Rights Law Rev., 1, 2020, 67 ss.; P. Tanzarella, Discriminare parlando. Il pluralismo democratico messo alla prova dai discorsi d’odio razziale, Torino, 2020; Id., Il caso Taormina e la Corte di giustizia. Dalla libera espressione alla discriminazione, in questa Rivista, 2, 2020, 289 ss.; M. Castellaneta, Il negazionismo tra abuso del diritto e limite alla libertà di espressione in una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2, 2019, 311 ss.; Id., L’hate speech: da limite alla libertà di espressione a crimine contro l’umanità, cit., 157 ss.; C. Caruso, L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale, in Quaderni costituzionali, 2017,  963 ss.; M. E. Villiger, Article 17 ECHR and freedom of speech in Strasbourg practice, in J. Casadevall – E. Myjer – M. O’Boyle – A. Austin (a cura di), Freedom of Expression, Essays in honour of Nicolas Bratza, Oisterwijk, 2012, 321 ss.; O. Pollicino, La repressione del negazionismo e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in Diritti umani e diritto internazionale, 2011, 85 ss.; I. Hare, Extreme Speech Under International and Regional Human Rights Standards, in I. Hare, J. Weinstein (a cura di),  Extreme Speech and Democracy, Oxford, 2009, 62 ss.; A. Weber, Manual on hate speech, Strasbourg, 2009.

[11] Si veda la decisione del 20 febbraio 2007, Ivanov c. Russia, ric. 35222/04, con la quale la Corte ha dichiarato irricevibile il ricorso di un giornalista che aveva scritto articoli indicando gli ebrei come fonte di pericolo in Russia.

[12] Sulla forma indiretta di incitamento alla violenza come il negazionismo si rinvia a M. Castellaneta, La repressione del negazionismo e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in DUDI, 2011, 65 ss.; G. Cohen-Jonathan, Négationnisme et droits de l’homme, in Rev. trim. dr. h., 1997, 571 ss. V. anche nt. 10.

Cfr. anche la decisione della Corte europea del 20 aprile 1999 nel caso Witzsch c. Germania, ric. 41448/98; Garaudy c. Francia, ric. 65831/01 (2003).

[13] Ric. 59405/00. Ci appare discutibile la sentenza perché la Corte, dopo avere dato l’impressione di considerare le dichiarazioni del ricorrente come rientranti nel discorso d’odio, ha accolto il ricorso del politico. Questo ci sembra in contraddizione con il § 62 della pronuncia in cui la Corte ha affermato che «On peut considérer que de tels propos – s’ils ont été réellement prononcés –  tenus par un homme politique notoire lors d’un rassemblement public révèlent davantage une vision de la société structurée exclusivement autours des valeurs religieuses et paraissent ainsi difficilement conciliables avec le pluralisme qui caractérise les sociétés actuelles où se confrontent les groupes les plus divers.  En effet, usant d’une terminologie religieuse, l’orateur réduitnotamment cette diversité, inhérente à toute société, en un simple clivage entre «croyants» et «non croyants », et il lance un appel dans le but de former une ligne politique sur la base de l’appartenance religieuse».

[14] Cfr. V. Manes, Articolo 7, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 258 ss.; Id., Il giudice nel labirinto, Roma, 2012; V. Zagrebelsky, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes – V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, 2011, Milano, 69 ss.; C. Murphy, The Principle of Legality in Criminal Law under the ECHR, in Eur. Human Rights Law Review, 2010, 192 ss.

[15] Cfr. F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. penale contemporaneo, 2016, 1 ss., spec. 41, il quale ricorda che la Corte europea «ammette reati di creazione giurisprudenziale», non ritenendoli in contrasto con l’art. 7 in presenza di alcune condizioni come la prevedibilità ragionevole». È essenziale, però, che la giurisprudenza «nella sua opera di trasformazione… della disposizione legislativa in altrettante norme costitutive del “diritto vivente” riesca, in esito all’interpretazione, e al processo di graduale consolidazione dei precedenti, nel compito di definire in termini (ragionevolmente) precisi le regole sulla cui base debba essere affermata la responsabilità penale dell’individuo, rendendo così (ragionevolmente) prevedibile loro applicazione».

[16] Ric. 15948/03. Si veda anche la citata decisione Garaudy c. Francia, ric. 65831/01 (2003).

[17] Ric. 15271/16.

[18] Ric. 18788/09.

[19] Nella sentenza del 10 luglio 2008 (Soulas e altri c. Francia, ric. 15948/03), la Corte ha ritenuto conforme all’art. 10 della Convenzione europea la condanna dei tribunali francesi nei confronti dei ricorrenti autori di un libro e di articoli contro gli immigrati musulmani in ragione del contenuto discriminatorio sotto il profilo della razza in esso contenuto che costituiva, anche in ragione del contesto nel quale essi erano stati divulgati, una forma di incitamento all’odio e alla violenza nei confronti di un gruppo in ragione della loro origine, vietato dall’art. 24, alinea 6 della legge 29 luglio 1881.

[20] Ric. 64569/09.

[21] Si veda la sentenza del 4 dicembre 2003, Gündüz c. Turchia, ric. 35071/97

[22] In questa direzione, si veda la decisione sulla ricevibilità del 20 febbraio 2007, Ivanov c. Russia, ric. 35222/04, con la quale è stato dichiarato irricevibile il ricorso perché gli articoli che incitavano all’odio contro gli ebrei erano marcatamente antisemiti, con la conseguenza che non era necessario valutare il contesto.

[23] Si veda anche, nel contesto dell’Unione europea, l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali in base al quale «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale». Il par. 2 dell’art. 21 stabilisce, inoltre, che «Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità». L’art. 20 assicura il diritto di uguaglianza di tutte le persone dinanzi alla legge. Tra gli atti di diritto comunitario derivato si può ricordare, tra i tanti, la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e la decisione quadro 2008/913/GAI del 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale (in GUUE L 328, 6 dicembre 2008, 55 ss.). Nella direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI (in GUUE L 315, 14 novembre 2012, 57 ss., recepita in Italia con decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212) le vittime di messaggi di incitamento all’odio sono incluse tra quelle particolarmente vulnerabili.

[24] A differenza di quanto avvenuto nel caso Rashkin c. Russia, ric. 69575/10, con la quale la Corte ha constatato una violazione da parte della Russia perché i giudici nazionali non avevano preso in considerazione il contesto nel quale il politico aveva reso le sue dichiarazioni. Cfr. anche la sentenza del 13 marzo 2018, Stern Tarlats e Roura Capellera c. Spagna, ricc. 51168/15 e 51186/15, § 41.

[25] Ric. 9815/82.

[26] Più in generale, sulla questione, cfr. G.E. Vigevani, Libertà di espressione e discorso politico tra Corte europea dei diritti e Corte costituzionale, in N. Zanon (a cura di), Le corti dell’integrazione europea e la corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 459 ss. Tra la numerosa giurisprudenza sul punto si veda anche la pronuncia Feldek c. Slovacchia, ric. 29032/95 (2001), nonché Cârlan c. Romania, ric. 34828/02 (2010).

[27] Ric. 15615/2007, § 77.

[28] Cfr. F. Kupsch, Watch Your Facebook Comment Section!, cit.

[29] Si veda la sentenza del 2 febbraio 2016 Magyar Tartalomszolgáltatók Egyesülete (“MTE”) and Index.hu Zrt c. Ungheria (ric. 22947/13), § 69, nonché la sentenza del 14 dicembre 2021, Mukhin c. Russia, ric. 3642/10.

[30] Nello stesso senso si veda la sentenza del 29 luglio 2019 (C-40/17). Cfr. O. Pollicino, L’autunno caldo” della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete e le sfide del costituzionalismo alle prese con i nuovi poteri privati in ambito digitale”, in Federalismi.it, 2019.

[31] Doc. A/74, 486, § 47, reperibile nel sito ohchr.org.

[32] Per la prassi si veda il sito oversightboard.com.

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