Diffamazione e social network: l’attribuzione del post all’imputato tra prova logica e prova diretta

Corte di Cassazione, sez. V penale, 14 luglio 2023, n. 38755

L’attribuzione di un post pubblicato su un social network non richiede una specifica indagine sulla titolarità dell’indirizzo IP o dell’account, qualora vi sia una pluralità di indizi gravi, precisi e concordanti, che, nel rispetto della regola di giudizio di cui all’art. 192 c. 2 c.p.p., consentano di attribuire all’imputato i contenuti diffamatori diffusi in rete.

 

Sommario: 1. La questione in esame. – 2. La decisione della Corte di Cassazione. – 3. I precedenti giurisprudenziali di legittimità. – 4. Qualche considerazione conclusiva.

 

  1. La questione in esame

La sentenza in commento, nel rispondere a uno dei motivi di gravame dedotti con il ricorso per cassazione, affronta la questione attinente alla identificazione dell’autore di un post dai contenuti diffamatori. Il ricorrente, infatti, dopo essere stato condannato, tra l’altro, in ordine al delitto di cui all’art. 595 c.p., aveva lamentato la violazione dell’art. 192 c.p.p., poiché, a suo dire, l’affermazione della responsabilità penale si sarebbe fondata su mere supposizioni, non essendo stato verificato l’indirizzo IP da cui sarebbe stata disposta la pubblicazione delle espressioni diffamatorie, né accertata l’identità di chi avesse in uso il profilo.

 

  1. La decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha disatteso tali doglianze ritenendo che non residuasse alcuna incertezza in ordine alla identificazione del ricorrente quale autore del reato, dal momento che, come motivato dal giudice di merito, la condotta diffamatoria era stata commessa utilizzando le sue credenziali di accesso al social network e si era sostanziata in affermazioni coerenti con pregresse esternazioni al medesimo riferibili. Nella vicenda, inoltre, non era emerso altro soggetto interessato a tenere la condotta contestata, che, dunque, non poteva essere attribuita ad altri che all’imputato.

Il Giudice di legittimità ha poi precisato che, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, non occorre un accertamento tecnico sulla titolarità dell’indirizzo IP da cui sono partiti i messaggi offensivi, dal momento che il profilo del social network[1] può essere attribuito, nel rispetto delle regole di giudizio previste dall’art. 192 c.p.p., anche su base indiziaria in forza di una pluralità di dati convergenti e precisi, quali il movente, l’argomento del forum su cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato e l’utilizzo del nickname dello stesso.

A conferma della propria decisione, infine, la Corte ha ricordato che la prova logica, quando è il risultato di un corretto procedimento valutativo degli indizi, caratterizzato da una valutazione sia unitaria sia globale dei dati raccolti, tale da superare l’ambiguità di ciascun elemento informativo considerato nella sia individualità, non rappresenta uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta o a quella storica.

 

  1. I precedenti giurisprudenziali di legittimità

Senza dubbio la questione sottoposta alla valutazione della Corte è di rilievo primario riguardando gli standard probatori da raggiungere per poter ritenere, in termini di certezza, che la persona fisica accusata del reato di diffamazione corrisponda effettivamente all’utente celato dietro il profilo di un social network.

Del resto, specialmente quando si tratta di scritti offensivi, da cui potrebbero discendere responsabilità anche di natura penale, non è infrequente imbattersi nel fenomeno dei profili fake, ossia riferibili a persone fisiche in realtà inesistenti o a persone esistenti ma diverse dal reale utilizzatore. Nella maggior parte dei casi la registrazione di account falsi – nei termini di cui si è appena detto – rappresenta, infatti, un’operazione tutto sommato agevole non richiedendo particolari competenze anche per la tenuità dei controlli svolti dai gestori dei social network. Non solo, in astratto, non si può nemmeno escludere il diverso caso dell’accesso abusivo da parte di soggetti terzi non legittimati all’utilizzo di un account registrato regolarmente.

A giudizio del ricorrente, prima di poter attribuire un post diffamatorio al titolare del profilo da cui lo stesso promana, è necessario indagare se l’identità dell’imputato coincide effettivamente con quella dell’utente che ha creato tale profilo e, nel caso, se sia stato proprio l’imputato a pubblicare lo scritto. Insomma, occorrerebbe acquisire la dimostrazione diretta circa la coincidenza tra identità reale e identità digitale.

Di diverso avviso è la Corte di Cassazione, che, in almeno quattro occasioni, aveva già affermato come un accertamento tecnico sull’indirizzo IP o sull’account non sia necessario se vi sono elementi in forza dei quali, nel rispetto della regola di giudizio di cui all’art. 192, c. 2 c.p.p., si può ritenere che le esternazioni diffuse in rete siano effettivamente riconducibili alla persona accusata del reato di diffamazione.

In un primo caso[2], sebbene gli accertamenti tecnici svolti non fossero risultati idonei a dimostrare l’effettiva corrispondenza tra i messaggi dal contenuto offensivo e quanto rilevabile in rete sull’account dell’imputato, si era ritenuto ugualmente di poter attribuire la condotta illecita a quest’ultimo, in quanto il profilo utilizzato per veicolare le affermazioni diffamatorie era risultato effettivamente esistente, la persona accusata non aveva mai denunciato la violazione di detto profilo da parte di soggetti terzi e, soprattutto, la diffusione degli scritti offensivi era stata ammessa nell’ambito di un parallelo procedimento amministrativo.

In un secondo caso[3], l’attribuzione dell’account era stata dedotta dal fatto che il profilo del social network era a nome dell’imputato con relativa foto del titolare e che quest’ultimo non aveva mai denunciato la creazione abusiva del profilo, né richiesto la rimozione dello stesso. Si era poi tenuto conto dei ripetuti tentativi di risoluzione bonaria della controversia da parte del soggetto a cui la condotta diffamatoria era stata attribuita. La Corte, inoltre, aveva aggiunto che, stante la riconducibilità del profilo all’imputato, l’accertamento su chi, materialmente, avesse creato l’account o digitato le frasi offensive non fosse necessario trattandosi di circostanze irrilevanti.

In un terzo caso[4], la Corte ha ritenuto che il contenuto delle pubblicazioni, riportando con dovizia di dettagli episodi di cui l’imputato era stato protagonista e iniziative giudiziarie dal medesimo intraprese, finisse «per svolgere un’insuperabile portata individualizzante».

Nell’ultimo caso[5], infine, il Giudice di legittimità ha ritenuto corretta la decisione di attribuire un profilo Facebook sulla base del riferimento nominativo all’imputato e dell’effige fotografica dello stesso e ciò sempre in assenza di denunce relative a furti di identità da parte dell’intestatario della bacheca digitale su cui erano stati pubblicati i post incriminati.

 

  1. Qualche considerazione conclusiva

In definitiva, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, se vi sono indizi gravi, precisi e concordanti, che consentono di ricondurre all’imputato gli scritti diffamatori promananti da un profilo registrato su un social network è del tutto inutile compiere ulteriori accertamenti tecnici finalizzati a verificare chi, effettivamente, abbia creato detto profilo o chi lo abbia usato per diffondere in rete le esternazioni offensive dell’altrui reputazioni. In tale scenario si tratterebbe, infatti, di prove superflue, atteso che il dato da verificare è già stato acquisito attraverso la prova logica.

A corollario di quanto appena osservato sembra potersi dire che, al fine di identificare l’autore di un post diffamatorio, ci si debba concentrare, anzitutto, su quegli elementi definiti dalla Corte di Cassazione come individualizzanti, ossia quelle circostanze di fatto, di natura indiziaria, che consento di attribuire all’accusato – e solo all’accusato – le esternazioni contestate come offensive dell’altrui reputazione.

Dall’esame dei precedenti giurisprudenziali è emerso che il primo aspetto da indagare è proprio il profilo social, da cui si possono trarre elementi utili sulla base dell’intestazione e dell’effige fotografica. Si tratta, però, di indizi a cui se ne devono aggiungere altri, idonei a superare ogni dubbio e, in particolare, quello che si tratti di un profilo falso o che vi sia stato un accesso abusivo da parte di terzi. In questo senso la Corte, al di là di eventuali comportamenti – espressamente o implicitamente – confessori, ha ritenuto rilevante la mancata denuncia di furti d’identità o di accessi abusivi all’account e, soprattutto, l’esistenza di elementi che rendono l’accusato la sola persona in grado di compiere tali esternazioni vuoi in ragione della conoscenza esclusiva di determinati dati o avvenimenti, vuoi per i rapporti pregressi con la persona la cui reputazione è stata lesa.

Solo se le circostanze emerse non consentiranno di raggiungere gli standard previsti dal citato art. 192, e di superare tali dubbi, si dovrà andare a indagare ambiti ulteriori, quali la titolarità dell’indirizzo IP o quella dell’account utilizzato per la diffusione in rete delle espressioni diffamatorie.

[1] Nella fattispecie Facebook.

[2] Cass. pen., sez. V, 13 luglio 2015, n. 8328.

[3] Cass. pen., sez. V, 13 luglio 2018, n. 45339.

[4] Cass. pen., sez. V, 23 settembre 2022, n. 39805.

[5] Cass. pen., sez. V, 8 febbraio 2023, n. 18883.

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