La Corte di Strasburgo torna sulla responsabilità del gestore del sito: il caso Rolf Anders Daniel Pihl c. Svezia.

La ricerca di un punto di equilibrio tra tutela dei diritti della personalità e libertà di espressione sul web e, più in particolare, l’individuazione dei confini della responsabilità dei fornitori di servizi in rete per gli scritti pubblicati da soggetti terzi sono temi che da tempo occupano giudici e legislatori, nazionali ed europei. In particolare, è ancora aperto l’interrogativo se e a quali condizioni al gestore di un sito internet possa essere attribuita una qualche forma di responsabilità per i contenuti offensivi immessi in rete dagli utenti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Rolf Anders Daniel Pihl c. Svezia del 9 marzo 2017 (ric. n. 74742/2014), torna ad affrontare la questione, stabilendo che il gestore di un blog non può essere ritenuto responsabile per la pubblicazione di un commento diffamatorio immesso da un utente rimasto anonimo, sempre che non contenga espressioni che trasmodino nell’incitamento all’odio e alla violenza e abbia provveduto tempestivamente alla sua rimozione, a seguito della segnalazione della persona offesa.

Dato conto del principio di diritto espresso dalla Corte, questa in breve la vicenda che ha originato la decisione in commento: nel settembre 2011, in un blog gestito da una piccola associazione senza scopo di lucro, veniva pubblicato un post in cui si riferiva che un cittadino svedese, Rolf Anders Daniel Pihl, era membro di un partito nazista. Il giorno successivo, un utente utilizzando uno pseudonimo, inseriva un commento a tale scritto, accusando la medesima persona di essere anche un abituale consumatore di sostanze stupefacenti. Pochi giorni più tardi, la persona offesa pubblicava a sua volta un commento chiedendo la rimozione di entrambi gli scritti in quanto veicolavano informazioni offensive e non corrispondenti al vero. A quel punto, l’associazione prontamente provvedeva a rimuovere i contenuti asseritamente diffamatori, pubblicando altresì un post di scuse. Ciononostante, anche in ragione del fatto che attraverso i motori di ricerca i due contenuti fossero ancora rinvenibili, il soggetto leso citava in giudizio il gestore del sito, chiedendo il risarcimento per la pubblicazione del post e per l’omesso controllo preventivo in relazione al commento immesso dall’utente anonimo. I giudici interni, in primo grado e in appello, respingevano sia la domanda di risarcimento relativa allo scritto redatto dallo stesso gestore sia quella relativa al commento pubblicato dal soggetto rimasto anonimo: la prima per una ragione di tipo processuale, la seconda perché nell’ordinamento svedese non vi era alcuna norma che potesse fondare una responsabilità del blogger per la mancata rimozione di un contenuto diffamatorio immesso da terzi prima della segnalazione dell’interessato. Successivamente, il soggetto leso si rivolgeva al Chancellor of Justice, organo di garanzia dell’ordinamento svedese che vigila sulla corretta applicazione della legge, il quale tuttavia statuiva che nel caso di specie non vi fosse stata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ossia del diritto alla riservatezza e alla reputazione.

Una volta esauriti tutti i rimedi interni, il soggetto leso presentava ricorso alla Corte di Strasburgo, affermando di aver subito una lesione dei diritti della personalità tutelati dall’articolo 8 della Convenzione, a causa della assenza nell’ordinamento svedese di una disposizione che consentisse di ascrivere una qualche forma di responsabilità in capo al gestore del sito.

La Corte dei diritti muove innanzitutto dalla nozione di “vita privata” contenuta nell’articolo 8 della Cedu, rammentando come nell’alveo di tale disposizione debbano essere ricondotti una serie di diritti della persona che vanno dalla identità personale, al nome, all’immagine, all’integrità fisica e psichica fino ad arrivare ai diritti dell’onore e della reputazione.

Tuttavia, perché possa ravvisarsi una violazione di tale norma occorre che l’attacco alla reputazione raggiunga un certo livello di gravità e l’offesa arrecata sia idonea a pregiudicare in concreto il diritto al rispetto della vita privata. Da qui, la Corte di Strasburgo, pur riconoscendo che il contributo in esame presentasse dei profili offensivi, rileva che non conteneva espressioni che costituivano incitamento all’odio e alla violenza; circostanza che, secondo la giurisprudenza della Corte, dovrebbe indurre a riconoscere maggior ampiezza alla libertà tutelata dall’articolo 10 della Convenzione.

Fatte tali premesse, la Corte riprende un passaggio della sua prima decisione in materia [Delfi c. Estonia del 2013 (ric. n. 64569/09), con nota di G. E. Vigevani, La responsabilità civile dei siti per gli scritti anonimi: il caso Delfi c. Estonia, in Quad. cost., 2014, pp. 457 – 459, confermata dalla Grande Camera con sentenza del 16 giugno 2015], con la quale, come noto, era giunta ad un esito almeno prima facie opposto al caso che ci occupa, statuendo che lo Stato membro non era incorso in una violazione dell’articolo 10 per aver condannato un portale web al risarcimento dei danni derivanti dalla pubblicazione di commenti anonimi ritenuti offensivi e incitanti all’odio e alla violenza nei confronti di soggetti terzi. In particolare, anche nella decisione in commento, viene ribadito il principio di diritto secondo cui, laddove lo Stato abbia individuato un punto di equilibrio tra diritto al rispetto della vita privata e libera manifestazione del pensiero in linea con i criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, quest’ultima potrebbe far prevalere la sua visione rispetto a quella dei giudici interni solo in caso di ragioni particolarmente forti.

Delineati così i confini del proprio intervento, i giudici di Strasburgo utilizzano i criteri fissati dalla giurisprudenza – da ultimo nella sentenza Magyar Tartalomszolgáltatók Egyesülete e Index.hu Zrt c. Ungheria del 2016 (ric. n. 22947/13), su cui si rinvia a S. Vimercati, Magyar c. Ungheria: la Corte europea ritorna sulla responsabilità dei portali web, in Quad. cost., 2016, pp. 393-400 – per operare tale valutazione, ossia: il contesto e il contenuto dei contributi incriminati, le misure adottate per prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei diritti altrui, la responsabilità degli effettivi autori degli scritti in alternativa a quella del provider e, infine, la condotta tenuta dall’intermediario.

Partendo da tale ultimo elemento, la Corte rileva innanzitutto che il gestore del sito, a seguito della richiesta del ricorrente, aveva provveduto tempestivamente alla rimozione del contributo ritenuto offensivo, pubblicando altresì uno scritto di scuse. In più, il sito, benché non avesse un sistema di filtro preventivo, aveva un disclaimer mediante il quale declinava ogni responsabilità per quanto inserito da soggetti terzi e aveva predisposto un sistema per poter segnalare e chiedere la rimozione dei commenti offensivi, strumento ritenuto dalla giurisprudenza in materia adeguato per tutelare i diritti della personalità dei soggetti eventualmente lesi.

Quanto all’identificazione dell’autore effettivo dello scritto, i giudici valorizzano la circostanza che in concreto non vi era nel caso di specie un anonimato assoluto, in quanto la persona offesa conosceva l’indirizzo IP del computer utilizzato per inserire gli scritti nel sito e, ciononostante, non si era in alcun modo attivato per individuare il soggetto che aveva redatto e diffuso i commenti diffamatori. In sostanza, una certa rilevanza ai fini della decisione sembra averla avuta il fatto che il ricorrente, pur avendo le informazioni che gli avrebbero consentito di risalire al vero autore della condotta asseritamente diffamatoria, abbia scelto di rivolgersi all’autorità giudiziaria per ottenere tutela tramite l’attribuzione di una responsabilità in capo ad un soggetto diverso da colui che aveva concretamente pubblicato le affermazioni offensive.

Da ultimo, e pare essere proprio questo il dato su cui pone maggiormente l’accento la Corte in armonia con quanto statuito nel suo ultimo precedente, far ricadere la responsabilità in modo automatico sui gestori dei siti può avere conseguenze assai negative sulla loro attività, fino a indurli a chiudere lo spazio dedicato ai commenti degli utenti, determinando così un chilling effect sulla libertà di espressione in rete. Di qui, dunque, l’affermazione del corretto bilanciamento degli interessi in gioco operato dai giudici nazionali e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

La decisione in commento offre un nuovo contributo all’individuazione di un corretto bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero in rete e tutela dei diritti della personalità degli individui, ma soprattutto sembra confermare quell’indirizzo teso a porre un argine alla tendenza generale di responsabilizzazione degli intermediari.

Non si incorra in equivoco: come dal primo precedente in materia, il già citato caso Delfi c. Estonia, non poteva essere ricavata una automatica responsabilità del provider per gli scritti immessi dagli utenti, in modo analogo appare peregrino ritenere che sia la successiva pronuncia del 2016, Magyar c. Ungheria, sia quella presa in esame con il presente scritto consentano di desumere una regola generale di totale irresponsabilità. Si cadrebbe infatti in errore se si dimenticasse lo specifico ruolo che la Corte di Strasburgo è chiamata a ricoprire e si rileggesse la sentenza prescindendo dalle peculiarità del caso concreto e traendone un principio valido universalmente.

Tuttavia, a prescindere dagli esiti diversi, nella ricerca di un punto di equilibrio tra gli interessi in gioco, pare possa rinvenirsi un filo rosso che lega tutte le pronunce della Corte europea in tema di responsabilità dei fornitori di servizi in rete: va esclusa l’attribuzione automatica di responsabilità in capo a tali soggetti per gli scritti immessi dagli utenti, ma è possibile che siano chiamati a risponderne qualora contengano affermazioni che incitino all’odio e alla violenza e l’intermediario, dopo aver ricevuto notizia della loro pubblicazione, non provveda tempestivamente a eliminarli.

 

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