“Continenza” à la carte in una TV sempre più barbara?

In tema di diffamazione, è configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del diritto di critica nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell’altrui reputazione, anche se di essa non sussista certezza processuale.

Nell’ambito di inchieste giornalistiche, le affermazioni e ricostruzioni che rechino valutazioni offensive dei soggetti coinvolti non costituiscono reato se i dati di cronaca assumano una funzione meramente strumentale alla formulazione di un giudizio critico di contenuto più ampio e diverso, di attuale e pubblico interesse, dovendo l’attualità della notizia essere riguardata non con riferimento al fatto ma all’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e, quindi, alla attitudine della stessa a contribuire alla formazione della pubblica opinione, di guisa che ognuno possa liberamente orientarsi

 

 

Che gran parte delle trasmissioni televisive (nel nostro Paese come in altri) siano formidabili strumenti di diseducazione non può certo esser messo in dubbio. Uno dei più ascoltati pensatori del secolo passato ebbe a dedicare a tale problematica un saggio, agile quanto efficace, giungendo acutamente a osservare che «si offrono alla audience livelli di produzione sempre peggiori e l’audience li accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso, dal sensazionalismo. Il fatto è che più si usa questo genere di spezie, più si educa la gente a richiederne […] e se l’audience se ne stanca, basta aumentare le dosi»[1].

E dunque, si parva licet componere magnis, la “vicenduzza” di cui – suo malgrado, ovviamente – ha dovuto occuparsi la Suprema Corte di Cassazione appare sintomatica del degrado culturale cui sembra inevitabilmente avviato il mezzo televisivo, in conseguenza della deriva così acutamente descritta nella prosa popperiana.

Il giudice penale italiano di legittimità infatti ha sempre dovuto farsi carico anche de minimis e dunque frequenti sono le pronunzie relative a liti di cortile, a contumelie tra comari, a gossip mediatici. Sia ben chiaro: la diffamazione è un reato che può avere conseguenze anche gravi, tanto sul piano dei rapporti interpersonali, quanto per i suoi riflessi economici e sociali: la reputazione altro non è che la considerazione di cui un individuo gode nel contesto in cui vive e opera e comunque nell’ambiente in cui è conosciuto. La reale portata offensiva del delitto di cui all’art. 595 c.p. dipende, oltre che, come è ovvio, dal contenuto del messaggio denigratorio, dal contesto e, naturalmente, dai protagonisti della vicenda. Il panorama è quanto mai variegato, tanto che chi scrive si è azzardato ad ipotizzare che, più che “della” diffamazione, si debba parlare “delle” diffamazioni, tanto possono essere diversi, appunto, i messaggi e i contesti (politico, sindacale, artistico, scientifico, professionale e, naturalmente, strettamente interpersonale)[2].

E dunque, poiché – come è noto – la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca e/o di critica è frequentemente (puntualmente?) invocata da tutti coloro che sono chiamati a rispondere di questo reato, è da chiedersi se, fermo restando il requisito della verità del fatto narrato (o posto a base della critica sviluppata), gli altri presupposti richiesti dalla giurisprudenza per la corretta applicazione dell’art. 51 c.p. si atteggino diversamente a seconda, appunto, del contesto in cui la condotta viene tenuta. Ci si sta riferendo, ovviamente, alla rilevanza sociale e alla continenza espressiva[3].

Da questo punto di vista la sentenza che si annota appare di particolare interesse.

Occorre però procedere con ordine.

La “vicenda materiale” che è alla base della pronuncia del giudice di terza istanza non potrebbe essere più emblematica. In due trasmissioni televisive (del 23 e del 28 marzo del 2011) che, in base a una terminologia affermatasi da tempo, potrebbero essere qualificate nazionalpopolari, si sono confrontati alcuni soggetti (noti ai telespettatori per le loro apparizioni e le loro traversie), i quali si sono scambiati accuse e contumelie. Da qui il processo per diffamazione e la condanna, nei gradi di merito, di Mora Dario (detto Lele), nonché di Di Napoli Claudio e Petrone Ciro. Per la precisione, il giorno 23, Mora, intervenendo telefonicamente in una trasmissione alla quale partecipava Conversano Giovanni, aveva insultato “in diretta” quest’ultimo, il quale quindi era da considerarsi “presente” alla performance del suo avversario; il giorno 28, Mora, Di Napoli e Petrone, nel corso di altra puntata della medesima trasmissione, avevano ferocemente criticato il Conversano (assente) perché aveva preteso denaro per intervenire come ospite d’onore a una manifestazione sportiva di beneficenza. Dopo una interruzione pubblicitaria, il Conversano, che non aveva ascoltato tali accuse, si era “fatto vivo” telefonicamente e aveva preannunziato di volersi tutelare in sede penale.

Dunque, la persona offesa, il Conversano appunto, noto (a quanto pare) “tronista”[4], aveva lamentato nella querela a suo tempo proposta di essere stato diffamato dai tre predetti imputati che gli avevano rivolto epiteti offensivi (il Mora) e gli avevano attribuito condotte poco commendevoli (tutti).

La Corte di legittimità si è liberata con superiore nonchalance (e con un – pur appena percepibile – fastidio) delle eccezioni un po’ “azzeccagarbugliesche” in tema di regolarità della querela (la firma del querelante non sarebbe stata correttamente autenticata, la querela sarebbe stata depositata da soggetto non identificato), citando consolidata giurisprudenza (cui può aggiungersi Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2012, n. 9106, CED 252956, in tema di identificazione del querelante attraverso la successiva costituzione di parte civile, nonché Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2004, n. 17662, CED 229586, sempre sulla completa identificazione del querelante in base all’iter successivo alla proposizione della querela) che ha, da tempo, chiarito che la espressione della volontà punitiva va ricercata ponendo attenzione alla sostanza, piuttosto che alla forma, degli atti provenienti dalla persona offesa; e dunque: a) la querela doveva ritenersi munita di firma di autenticazione regolare, atteso che la data apposta da chi la aveva autenticata era palesemente frutto di errore, se solo la si poneva a confronto col timbro dell’ufficio che aveva ricevuto l’atto; b) non rileva la identità del depositante se la querela è debitamente autenticata, tanto che la querela è valida anche se il difensore “autenticante” risulta non (ancora) nominato formalmente, sempre che la volontà di nominarlo sia ricavabile aliunde.

I giudicanti poi hanno chiarito: 1) che parte della condotta addebitata ai ricorrenti era (ormai) penalmente irrilevante, trattandosi di ingiuria (depenalizzata nel 2016) e non di diffamazione, in quanto le offese erano state formulate in presenza (sia pure telefonica) del Conversano; 2) che altra parte doveva ritenersi non punibile ai sensi dell’art. 599, c. 2, c.p., dal momento che Mora aveva reagito ad affermazioni denigratorie che il Conversano aveva pronunziato nei suoi confronti nel corso di una precedente trasmissione televisiva, alcuni “spezzoni” della quale erano stati fatti visionare al Mora stesso nel corso della successiva trasmissione “Pomeriggio 5”. Il fatto che il ricorrente versasse in presumibile stato d’ira per le cose sfavorevoli che il Conversano gli aveva attribuito è stato ritenuto più che probabile. Da qui la conseguente non punibilità e quindi l’annullamento senza rinvio (anche) su questo punto.

E così “si chiudono” i primi due episodi.

I giudicanti si sono quindi concentrati sulla residua parte dell’addebito, inquadrabile effettivamente (almeno in astratto) nello schema del delitto di diffamazione attraverso il mezzo televisivo. In sintesi Mora e compagni avevano sostenuto che il “tronista” Conversano aveva incassato una somma di denaro per partecipare (essendo ormai una vedette) a un evento di beneficenza e hanno aspramente criticato (con espressioni giudicate eccessive dal querelante e dai giudici di merito) tale comportamento mercenario.

La Corte di legittimità ha però annullato senza rinvio l’intera sentenza di appello, ritenendo che anche il terzo addebito non fosse meritevole di sanzione penale in quanto i ricorrenti avevano esercitato il diritto di critica in riferimento a un fatto vero (Conversano aveva effettivamente preso soldi) e non ritenendo che fosse stato violato il parametro della continenza[5].

Con un rapido passaggio motivazionale (quasi per implicito), la Corte ha ritenuto anche la ricorrenza del presupposto della rilevanza sociale[6]. La «passione del pubblico» (così si esprime la Suprema Corte) per le vicende private di privati cittadini giustifica il fatto che esse siano legittimamente diventate oggetto di cronaca e di critica.

Sul punto, tuttavia, conviene spendere qualche ulteriore riflessione dal momento che, ictu oculi, potrebbe sembrare che la scarsa importanza del fatto la cui narrazione è stata offerta ai telespettatori, la personalità dei protagonisti della vicenda e il contenuto stesso della querelle tra gli stessi instauratasi (sotto la accorta regia di D’Urso Carmela, detta Barbara) non siano tali da soddisfare, appunto, il requisito della rilevanza sociale. Che un bel giovane, non illustratosi – a quanto pare – per particolari res gestae o profondità di pensiero, meriti o capacità, si sia fatto pagare (oppure no) per prendere parte a un evento potrebbe sembrare questione di scarsissimo interesse per la maggioranza dei consociati. Ma così evidentemente non è, se è vero, come è vero, che la trasmissione di Barbara-Carmela può contare su di una nutrita audience e su apprezzabili indici di ascolto.

Orbene c’è chi ha provato a distinguere tra interesse pubblico e interesse del pubblico[7], intendendosi tale ultimo come quello di una massa indifferenziata di persone, anche per notizie futili e di nessun rilievo[8], ma, a parte che si tratta di un evidente approccio di stampo moralistico (o almeno paternalistico), resta il fatto che, da un lato, non si vede in cosa consisterebbe (e chi dovrebbe accertare) la “oggettiva esigenza di informazione pubblica” (richiesta da parte della giurisprudenza citata in nota), che dovrebbe fondare il requisito della rilevanza sociale, dall’altro, tale opinione non tiene conto della deriva voyeuristica che ormai connota il mondo dell’informazione, tanto professionale, quanto amatoriale (“la passione del pubblico”, appunto).

Appaiono dunque davvero datate quelle posizioni di chi sosteneva che «deve ritenersi escluso l’esercizio del diritto di cronaca [ma, osserva chi scrive, non v’è ragione per non estendere l’affermazione anche a quello di critica] … tutte le volte che l’informazione non abbia un contenuto in qualche modo pertinente alla formazione della pubblica opinione, ma sia distorta ad altro fine, come quello di soddisfare istinti di bassa curiosità del pubblico o di praticare il pettegolezzo»[9]. Riteneva infatti questo Autore che «l’interesse pubblico all’informazione non si identifica con la curiosità morbosa che parte del pubblico ha per le vicende piccanti o scandalose svoltesi nell’intimità della casa della persona che ha acquistato notorietà»[10].

Orbene, è evidente che queste considerazioni appartengono a un’era ormai chiusa, quando “Il grande fratello” era solo la presenza occhiuta e ossessiva nel capolavoro di Orwell e nessuno avrebbe immaginato che sarebbe venuto un tempo in cui non sarebbero stati “i curiosi” a spiare nelle vite degli altri, violandone la privacy, ma proprio i titolari della privacy a esibire in TV la loro vita intima.

In passato si era sostenuto che le vicende private di un personaggio pubblico fossero, entro certi limiti, pubbliche esse stesse, sia perché alcuni di tali personaggi (es. gli uomini politici) dovessero dar prova di coerenza tra ciò che dicevano in pubblico e ciò che in concreto facevano uti cives, sia perché altri soggetti (es. le star dello sport o del cinema) finivano – volenti o nolenti – per costituire modelli di condotta per i loro tifosi o follower. Insomma il prezzo della notorietà guadagnata sul campo (o sul set)[11]!

Ma, con la diffusione dei reality, delle chat e dei cc.dd. social, la prospettiva sembra essersi rovesciata. In questi casi si tratta di soggetti “privati” (spesso semplici e anonimi quisque de populo) che divengono pubblici perché “pubblicizzano” la loro vita privata. E proprio in questi termini si esprime la sentenza, che fa parola di personaggi che diventano famosi e popolari «perché consentono di pubblicizzare la sfera privata della loro vita» e, dall’altro lato, di «spettatori morbosamente interessati alla conoscenza della vita privata di persone note». E, a questo punto, il cerchio si chiude, per così dire, perché le persone sono diventate note proprio in base a quel processo di “pubblicizzazione” cui sopra si è accennato. Insomma: una sorta di istituzionalizzazione del pettegolezzo. Recentemente, per la verità, si sta assistendo a una rivalutazione proprio del pettegolezzo, indicato, in una prospettiva darwiniana, addirittura come una delle matrici dell’altruismo e quindi della coesione sociale che ha permesso all’homo sapiens di diventare quello che è[12]; altra cosa, tuttavia, è il pettegolezzo mediatico, il quale non riguarda più una limitata cerchia di persone che tutte, più o meno, si conoscono: in TV il pettegolezzo è merce di consumo e dunque, in ultima analisi, spettacolo di un serial, che dovrebbe essere specchio della “vita reale” della gente comune. Insomma una sorta di antropologico “uno vale uno”, perché nella vita privata siamo (saremmo) tutti eguali.

Ma, è da chiedersi, intrecciare in TV schermaglie erotico-sentimentali (magari assisi su di un trono di cartapesta), sparlare di altri, riferire pettegolezzi, litigare (per finta o sul serio), formulare considerazioni di assoluta banalità (quando non plasmate sui più triti luoghi comuni) significa fare informazione?

Per rispondere a tale quesito bisogna ricordare che è stato ritenuto che la rilevanza sociale, se può assumere dimensione ecumenica (i fatti della politica dovrebbero da tutti essere sentiti come fatti propri e rilevanti), può anche avere una portata settoriale. E dunque i fatti del condominio hanno rilevanza sociale per i condomini[13], i fatti di un club hanno rilevanza per i soci, le vicende di una associazione professionale hanno rilevanza per quei professionisti[14], di talché, se l’informazione -corretta ancorché pregiudizievole per taluno – circola all’interno di quel gruppo sociale, il diritto di cronaca/critica non può che essere riconosciuto. Ma quid juris quando l’informazione (certamente non di stampo politico, culturale, scientifico o artistico e dunque non di portata potenzialmente universale) si risolve nel più puro gossip?

La risposta, anche se sconfortante, ci sembra inevitabile ed è data dai fatti, dalla rilevazione empirica del numero dei telespettatori, dal successo della trasmissione. A quella categoria di persone quei fatti interessano, quelle “informazioni” sono (o sembrano) utili, quantomeno come merce di consumo, quantomeno per passare un pomeriggio davanti alla TV.

Atteggiamenti censori, approcci didattici o addirittura “correzionali” sono inconcepibili (e anche pericolosi) in una società che pretende di avere un assetto democratico e liberale. Certo il dato non consola (e ci spinge, ancora una volta, a porci la domanda se possa esistere democrazia senza cultura diffusa), ma è evidente che parte non trascurabile dei consociati gradisce, o quantomeno, trova interessante o divertente, quel tipo di informazione (e di spettacolo).

Il requisito della rilevanza sociale (non si sa quanto settoriale) dunque, nel caso in esame, sussiste.

E veniamo al problema relativo alla continenza espressiva.

Che cosa essa sia lo chiarisce (si fa per dire) la giurisprudenza che sostanzialmente la definisce come «moderazione verbale»; dunque una sorta di galateo semantico, in base al quale la forma espositiva della critica rivolta deve essere strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, tanto da non trasmodare nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione.[15] Per la dottrina la continenza consisterebbe nella «serenità, misura e proporzione» dell’eloquio o dello scritto.[16]

Orbene il primo quesito che è doveroso porsi, essendo in presenza di una sentenza della Suprema Corte, consiste nel chiedersi se (ed eventualmente entro quali limiti) la Cassazione possa essere giudice (anche) della continenza. In linea di massima, la giurisprudenza lo ha escluso, sostenendo che la relativa valutazione costituisce giudizio di merito, rimesso quindi ai giudici dei primi due gradi che hanno, conseguentemente, l’onere di motivare adeguatamente[17]. E tuttavia è stato anche ritenuto[18] che la Corte ben possa conoscere e valutare l’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, in quanto è compito del giudice di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza della materialità della condotta contestata e quindi della sua effettiva portata offensiva. Il fatto è che ciò che rileva non è il valore e il significato che l’agente ha eventualmente inteso dare alle parole pronunziate o scritte (o alle immagini o a qualsiasi altro veicolo di comunicazione), quanto il suo significato “sociale”, vale a dire il fatto che esse siano comunemente percepite come offensive[19] (bene inteso, sempre che l’agente ne sia al corrente). Di talché, se il giudice di merito si è allontanato da quello che abbiamo chiamato il significato sociale della espressione, egli sta in pratica disapplicando una massima di esperienza; ciò legittima l’intervento della Corte di Cassazione. Naturalmente si tratta di una valutazione che deve tener conto della evoluzione delle “consuetudini espressive” della collettività, del modificarsi delle modalità comunicative. E non può essere dubbio che siamo in presenza di un processo di involgarimento del lessico: vengono adoperate parole, frasi ed epiteti che un tempo sarebbero stati estranei al vocabolario delle persone urbane (o almeno acculturate). E tuttavia un limite invalicabile esiste, un limite che, derivando direttamente dai principi costituzionali (essenzialmente dagli artt. 2 e 3), consente l’intervento del giudice della impugnazione, e, dunque, anche di quello di legittimità, nel caso si sia (erroneamente) ritenuto giustificabile l’utilizzo di espressioni con le quali la vittima viene accomunata a cose disgustose, oscene, a situazioni abiette ad animali ritenuti ripugnanti. Si tratta di espressioni comunicative oggettivamente incompatibili con quel minimo di rispetto che ad ogni uomo, in quanto tale, compete,[20]di vere e proprie procedure di degradazione o disumanizzazione che non possono essere poste in essere nemmeno in danno del peggior delinquente. A titolo di significativo esempio può esser citata una recente sentenza[21] con la quale la Corte ha annullato con rinvio la decisone del giudice di merito che aveva ritenuto non costituire reato l’accostamento – effettuato in un blog – tra un soggetto apicale di un sodalizio mafioso, defunto in carcere, e «un gran bel pezzo di merda». La Cassazione, infatti, ha ritenuto che la centralità che i diritti della persona hanno nell’ordinamento costituzionale non consenta, nemmeno nel caso in cui il giudizio (ampiamente condiviso) su di un individuo sia indiscutibilmente e fortemente negativo, di considerare simili espressioni come connotate da continenza e dunque scriminate per il legittimo esercizio del diritto di critica. Si tratta, in sintesi, di espressioni inaccettabili, assolutamente sconvenienti, in qualsiasi contesto (e consesso) esse siano pronunciate[22].

Ciò posto, tuttavia, dottrina e giurisprudenza[23]hanno da tempo chiarito che il limite della continenza varia a seconda dei vari contesti in cui la comunicazione si svolge. Così, ad esempio, si è ritenuto che, nell’ambito delle competizioni politiche, si possa far ricorso ad espressioni forti, pungenti, corrosive, mentre altro è il linguaggio richiesto quando si polemizza in altri settori (es. in campo scientifico, artistico, nella critica storica ecc.)[24]. Si tratta della c.d. “contestualizzazione” cui la giurisprudenza fa costantemente riferimento, vale a dire l’operazione intellettiva consistente nel relazionare l’espressione al contesto (spaziale, temporale e sociale) in cui essa ha visto la luce. È pertanto l’intero contesto comunicativo che va valutato, perché, a seconda del contesto in cui sono inserite, le espressioni (relativamente) sconvenienti potranno essere accettabili, oppure no. Ciò che posso gridare allo stadio, insomma, non posso scandirlo in un convegno scientifico; esistono, vale a dire, “consuetudini linguistiche” che connotano i vari settori sociali in cui le persone si muovono ed operano. È dunque chiara ed evidente la natura relativa (tranne i surricordati casi di “sconvenienza assoluta”) del giudizio di continenza, che varia anche a seconda del soggetto cui si riferisce la notizia o la critica, oltre che, come si è detto, del contesto in cui la notizia viene diffusa o la critica formulata.

Orbene, non può essere dubbio (e la sentenza che si commenta lo sostiene esplicitamente) che, specie in ambito televisivo (per non parlare dei blog), il pervasivo lessico del populismo, il dilagante sanfedismo mediatico, il non sempre elevato livello culturale dei protagonisti sono fattori che hanno fortemente contribuito a un costante impoverimento della lingua, favorendo il dilagare di forme verbali approssimative, vernacolari, volgari, che si correlano a contenuti informativi futili, spesso ispirati a conformismo, banalità e superstizione.

Nell’ambito del ricordato programma “Pomeriggio 5”, la rubrica televisiva cui si riferisce la sentenza si intitolava, come ha cura di segnalare l’estensore, “Gossip a tutti i costi” (sic!), il che suona come una inequivoca dichiarazione programmatica. Tra i costi pagati dai protagonisti non poteva non figurare il linguaggio, che, per la Corte di legittimità, è stato «pertinente al tema in discussione e proporzionato al fatto narrato ed al concetto da esprimere». Viene anche posto in luce il fatto che il Conversano aveva (volontariamente, come è ovvio) partecipato alla trasmissione, ma – è da ritenersi – non perché tale condotta possa essere sintomatica di una sorta di preventivo consenso dell’avente diritto (a essere insultato) ex art. 50 c.p., quanto piuttosto perché essa va letta come accettazione del “terreno di scontro” e delle “regole di ingaggio”, tra le quali l’utilizzo di un certo linguaggio (appunto: greve, fino alla scurrilità, approssimativo e violento, fino all’insulto). Dunque certamente pertinente è la considerazione formulata dalla Corte: «In casi quale quello di specie […] devono ritenersi dilatati i limiti immanenti all’esercizio del diritto di critica costituiti dalla correttezza dell’esposizione». Affermazione che non deve tuttavia essere interpretata nel senso che, in pari causa turpitudinis, i contendenti debbano compensare le offese (l’art. 599, c. 2, c.p. – va ricordato – ha trovato applicazione solo per una parte della condotta diffamatoria addebitata ai ricorrenti), ma nel senso che, in quel tipo di comunicazione (e di spettacolo), quello è il linguaggio che correntemente si adopera (anche perché è molto probabile che né l’argomentazione dialettica, né la ricchezza di vocabolario connotino l’eloquio di quei personaggi, i quali dunque ricorrono, più frequentemente di altri, alla sintesi contumeliosa).

Insomma, avuto riguardo alla Weltanschauung dei tronisti (e di Barbara-Carmela), altro linguaggio non ci si poteva attendere che quello effettivamente adoperato.

Così, in ultima analisi, potrebbe tradursi il pensiero della quinta sezione.

Assunto certamente da condividere in pieno, con un solo caveat.

Fare riferimento al “contesto” non significa, né può significare, fare riferimento al soggetto (cioè all’imputato). “Contesto” è parola che sta a indicare una universitas, una situazione, un “insieme”. Dunque certamente non si risolve in un riferimento ai sentimenti, alla psicologia, ai moti dell’animo dei protagonisti del fatto o, addirittura, del solo protagonista attivo. Bisogna che quelle modalità espressive siano proprie di un universo culturale (elevato, mediocre o infimo che sia). Così, ad esempio dare del “fascista” a qualcuno può essere un insulto o una manifestazione di considerazione, a seconda delle circostanze in cui l’epiteto è lanciato (un’assise democratica o una cerchia di nostalgici del ventennio).

Diversamente ragionando, si giungerebbe al paradosso in base al quale gli insulti, le espressioni negative, i racconti realizzati con frasi infamanti e volgari sarebbero scriminati semplicemente facendo riferimento a chi li ha posti in essere, tenendo presenti il suo lessico privato, il suo personale modo di esprimersi, le sue abitudini semantiche (anche se si dovesse trattare di cattive abitudini).

Ecco: è in questo senso che la sentenza della Corte di Cassazione non deve essere intesa; altrimenti si giungerebbe (paradossalmente) a un concetto di continenza à la carte: parolacce, insulti, contumelie, insinuazioni o frasi denigratorie di senso compiuto (quando ci sia), mediaticamente diffuse, sarebbero penalmente giustificate solo perché quello è il modus loquendi dell’imputato. Ciò, oltre a contrastare con il comune buon senso, renderebbe la relazione tra gli umani sempre più …. barbara.

Honi soit qui mal y pense, naturalmente.

 

[1] K.R. Popper , Cattiva maestra televisione, G.Bosetti (a cura di), Venezia, 2012, 73-74.

[2] M.Fumo, La diffamazione mediatica, Torino, 2012, passim.

[3] Che, sin dall’epoca del famoso “decalogo” (Cass. civ., sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259, CED 436989), sono state indicate, unitamente alla verità della notizia, come i presupposti per il legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica. La successiva giurisprudenza, sia civile che penale, ha sempre confermato tale impostazione, sia pure “smussando gli angoli” di una pronunzia, su alcuni punti, ingiustificatamente assertiva.

[4] Dizionario italiano online, Hoepli editore, 2018: «Tronista: s.m. e f. In alcuni talk show televisivi, personaggio, in genere di bella presenza, seduto al centro del salotto su una sorta di trono, che si offre a proposte di sapore mondano, corteggiamenti, pettegolezzi di vario genere da parte dei partecipanti alla conversazione». Si apprende dalla sentenza che Conversano era diventato “famoso” per aver partecipato alla trasmissione “Uomini e donne”.

[5] Sul diritto di critica, tra le ultime pubblicazioni, va certamente citato: A. B. Fossati, La diffamazione tra media nuovi e tradizionali, Milano, 2017, 92, che chiarisce efficacemente che «la finalità della critica è di stimolare un dibattito, anche settario, ideologicamente orientato e teso ad evidenziare aspetti che si intendono stigmatizzare e censurare», ma ci sia consentito anche ricordare M. Fumo, op. cit., 234 ss.

[6] È noto che, per consolidata giurisprudenza, il diritto di cronaca e di critica è correttamente esercitato quando l’agente abbia fatto riferimento a fatti veri, socialmente rilevanti e si sia espresso in maniera “continente”; cfr. nota 3.

[7] A. Scalisi, Brevi riflessioni sulla libertà di cronaca e il valore della persona umana, in Diritto di famiglia, 1994, 138 ss.

[8] Per la giurisprudenza, vedasi Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2007, n. 46295, CED 238290.

[9] M. Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Padova, 1998, 104-105.

[10] Ivi, 109.

[11] Sul punto specifico vedasi, tra gli altri, F. Verri, V. Cardone, Diffamazione a mezzo stampa e risarcimento del danno, Milano, 2003, 234 ss., nonché, V. Pezzella, La diffamazione, Responsabilità penale e civile, Torino, 2009, 276 ss.

[12] F. Giardini, Oxford handbook of gossip and reputation, Oxford, 2019. Sostiene l’Autrice che spettegolare è attività intellettualmente molto complessa perché presuppone la capacità di valutare e selezionare contenuti e destinatari della informazione e ha come conseguenza, sul piano oggettivo, la condivisione di notizie che, pur riguardando i fatti minimi di una comunità, contribuiscono a definirne i tratti identitari.

[13] Cass. pen., sez. V, 19 aprile 2006, n. 19148, CED 234430, nonché 18 settembre 2007, n. 35543, CED 237728.

[14] Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2009, n. 19396, CED 243606.

[15] Tra le tante, Cass. pen., sez. V, 24 giugno 2016, n. 37397, CED 267866.

[16] Per tutti vedasi V. Pezzella, op. cit., 282 ss. e le numerose citazioni che fa questo Autore.

[17] Cfr. Cass. pen., sez. V, 18 dicembre 1980, n. 2320, CED 148102; 8 febbraio 2005, n. 11950, CED 231711; 1 luglio 2008, n. 31392, CED 241182.

[18] Cass. pen., sez. V, 21 giugno 2005, n. 832, CED 233749.

[19] Cass. pen, sez. V, 11 maggio 1999, n. 7597, CED 213631.

[20] Cass. pen., sez. V, 14 febbraio 2008, n. 11632, CED 239479.

[21] Cass. pen., sez. V, 10 maggio 2017, n. 50187, CED 271434.

[22] Sul punto, specificamente, A. B. Fossati, op. cit., 98 ss.

[23] Es. V. Pezzella, op. cit., 283, per il quale il limite della continenza «non va inteso in senso assoluto e non possono ritenersi vietati coloriture o toni aspri e polemici rientranti nel costume». Per la giurisprudenza, a mero titolo esemplificativo dei vari “campi” in cui la critica può essere esercitata, Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2013, n. 37706, CED 257255 in tema di satira; 21 febbraio 2007, n. 25138, CED 237248, in tema di critica giudiziaria; 19 dicembre 2006, n. 4991, CED 236321, in tema di critica politica.

[24] Cass. pen., sez. V, 13 gennaio 2004, 24087, CED 228900; 13 giugno 2007, n. 27339, CED 237260; 10 settembre 1985, n. 7951, CED 170339.

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