L’aggiunta di commenti offensivi in calce ad un articolo di un portale informativo online in una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

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(Corte Edu, Sezione Prima, Delfi contro Estonia, ricorso n. 64596/09, sentenza 10 Ottobre 2013)

 1.     Premessa

A breve distanza dalla pubblicazione della sentenza Rzecspospolita, di cui ho già parlato qui, la Corte di Strasburgo torna sul tema del bilanciamento tra le prerogative della libertà d’espressione (art. 10) ed il diritto al rispetto della vita privata (art. 8).

Una premessa è d’obbligo. La sentenza in questione è stata resa dalla Corte di Strasburgo: ciò di cui si discute, perciò, è della sola compatibilità di un provvedimento (in questo caso giurisdizionale) con i principi sanciti dalla CEDU, una volta esaurite le vie di ricorso interne. Benché l’ordinamento c.d. multilivello stia favorendo un progressivo dialogo (anche) tra le Corti Europee, la sentenza in questione non dice nulla (né avrebbe potuto fare altrimenti[1]) sul framework normativo comunitario e sul relativo approccio interpretativo offerto dalla Corte di Lussemburgo: da qui l’esigenza di rifuggire dall’istinto di cercare a tutti i costi un’interpretazione macrosistematica e multilivello della pronuncia.

 2.     Il caso

Delfi è un grande e popolare portale web estone, e svolge la propria attività informativa anche a livello internazionale, diffondendo notizie nelle altre Repubbliche baltiche (Lettonia e Lituania) nonché in Russia. Il sito offre un modello di informazione pluridirezionale, tipico del c.d. web 2.0, ormai diffuso pressoché ovunque: in calce al corpo della notizia, la pagina web introduce un pulsante etichettato “aggiungi il tuo commento” che consente a chiunque, anche in forma anonima, di annotare l’articolo pubblicato con un post di propria fattura, destinato a convogliare in un archivio ordinato, a propria volta accessibile separatamente rispetto alla notizia principale, i cui contenuti sono immodificabili da parte degli utenti una volta che i relativi commenti siano stati pubblicati. Le notizie giungono a ricevere complessivamente anche diecimila commenti giornalieri, la cui maggior parte risale ad autori che celano la propria identità dietro pseudonimi.

Per far fronte al rischio di diffusione di commenti recanti frasi offensive o comunque diffamatorie, il sito prevede tre meccanismi difensivi: in primo luogo, un algoritmo rende non pubblicabile un certo numero di parole o frasi volgari od offensive; in secondo luogo, un sistema di notice-and-take-down consente agli utenti di segnalare agli amministratori la presenza di tali contenuti; in terzo luogo, gli amministratori stessi possono attivarsi spontaneamente per espungere i commenti diffamatori dal portale. In ogni caso, Delfi declina ogni responsabilità in ordine al contenuto dei commenti postati dai propri lettori.

Nell’inverno del 2006, Delfi pubblica un articolo sulla deviazione di alcune rotte navali da parte della Saaremaa Shipping Company, una società pubblica di trasporto marittimo, che collega la terraferma estone con le isole. In particolare, l’articolo critica l’operato del Sig. L., un amministratore della Società. La notizia riceve 185 commenti, di cui 20 diretti al Sig. L. e recanti offese personali ed espressioni volgari. Sei settimane dopo la pubblicazione, L. chiede a Delfi di rimuovere tutti i commenti offensivi e di erogare una somma relativamente considerevole (l’equivalente di 32.000,00 €) a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

Lo stesso giorno, Delfi provvede alla rimozione di tutti i contenuti offensivi, rifiutandosi tuttavia di corrispondere ad L. alcunché a titolo risarcitorio, in ragione dell’avvenuta predisposizione di adeguati meccanismi difensivi rispetto all’altrui inserimento di contenuti diffamatori.

Dall’episodio nasce così una controversia davanti all’Autorità giudiziaria estone, che si conclude con l’accoglimento delle domande avanzate da L. da parte della Corte Suprema. Secondo i giudici estoni, il meccanismo di rimozione predisposto da Delfi sarebbe da ritenersi insufficiente in quanto inidoneo a garantire adeguata protezione ai diritti dei terzi. La libertà di espressione non potrebbe pertanto estendersi sino a coprire la pubblicazione di commenti diffamatori. Inoltre, il portale avrebbe il pieno controllo del flusso dei commenti, potendo scegliere quali pubblicare e quali, viceversa, non pubblicare. Conseguentemente, accanto ai materiali commentatori, anche Delfi sarebbe da ritenersi autrice dei post diffamatori, il che fonderebbe una pretesa risarcitoria in capo al destinatario di tali commenti, da azionarsi anche direttamente contro Delfi. I giudici estoni, tuttavia, riducono sensibilmente l’importo del danno rispetto alla quantificazione effettuata da L., ponendo a carico di Delfi il pagamento di una somma esigua (circa 320 €).

Avverso questa determinazione, Delfi ricorre alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

 3.     La soluzione offerta dalla Corte

La Corte torna così a pronunciarsi sul bilanciamento tra l’art. 8 e l’art. 10, sotto il particolare aspetto del margine di tollerabilità dell’ordinamento CEDU rispetto alle compressioni alla libertà di espressione finalizzate alla salvaguardia del diritto al rispetto della vita privata. In base all’art. 10, la libertà di espressione può essere legittimamente compressa solo con previsione di legge e nei casi in cui vi sia la necessità di assicurare il rispetto di una serie di valori protetti da una società democratica: i Tribunali estoni, nel condannare Delfi al pagamento di una somma pari a circa 320 Euro, hanno rispettato queste due condizioni?

Il primo requisito (previsione di legge) non crea troppi problemi alla Corte, che peraltro non si esime dal ricordare come oggetto del proprio sindacato sia soltanto l’applicazione o la violazione di norme convenzionali da parte delle Autorità nazionali, senza poter in alcun modo penetrare all’interno dei percorsi interpretativi eventualmente intrapresi da tali autorità[2]. Inoltre Delfi, operando alla stregua di un editore professionista, avrebbe dovuto conoscere e valutare i rischi sottesi alla propria attività, onde predisporre tutte le misure idonee a scongiurare ragionevolmente le eventuali conseguenze pregiudizievoli.

La soluzione viene così ricercata nell’ambito dell’approfondimento della seconda condizione legittimante di cui all’art. 10 (necessità di certe misure al fine di assicurare in una società democratica la protezione di alcuni beni e valori di primaria importanza).

Dopo aver richiamato alcune pronunce precedenti[3], la Corte ricorda come la funzione della stampa sia soprattutto quella di informare su notizie che abbiano un pubblico interesse. Benché la relativa libertà abbia una latitudine assai ampia potendo coprire, a seconda che i “bersagli” siano privati cittadini o personaggi pubblici[4], anche ipotesi di provocazione od esagerazione, qualora attraverso la stampa si realizzi o si acconsenta ad un “grave attacco” alla reputazione personale, il diritto di cui all’art. 8 della Convenzione interferisce con l’art. 10, sino a farlo risultare cedevole[5].

Per verificare se i giudici nazionali abbiano effettuato un bilanciamento dei principi – che in linea di massima risultano equiordinati[6] – in linea con la giurisprudenza convenzionale[7], la Corte individua alcuni criteri guida, quali  l’importanza della notizia per alimentare un dibattito di pubblico interesse; il livello di popolarità della persona interessata ed i suoi comportamenti precedenti; l’oggetto dell’articolo e la propria veridicità; il metodo di ottenimento delle informazioni; il contenuto, le forme e le conseguenze della pubblicazione; la severità della sanzione imposta dall’ordinamento nazionale[8].

Nel valutare la sussistenza di questi criteri nel caso di specie, la Corte conduce il proprio esame in relazione a quattro indici, ed in particolare:

a)      Il contesto dei commenti

La Corte precisa che l’articolo in questione, al netto dei commenti, non aveva un contenuto lesivo di prerogative altrui. Tuttavia, il carattere fortemente critico della notizia nei confronti dell’operato della Saarema Shipping Corportation – e particolarmente rispetto all’operato di L. – aveva innalzato il rischio di derive diffamatorie da parte dei commentatori. Tale rischio avrebbe imposto a Delfi di procedere con particolare cautela al fine di evitare di incorrere in responsabilità.

b)      Le misure applicate da Delfi per prevenire o rimuovere commenti diffamatori

In effetti, Delfi non aveva completamente ignorato questa esigenza, avendo previsto un meccanismo di correzione ed eliminazione di commenti potenzialmente diffamatori, realizzando un triplo sistema di protezione (vedi sopra). Tuttavia – osserva la Corte – il sistema di cancellazione automatica dei termini volgari/offensivi risultava facilmente aggirabile. Le altre due misure (notice-and-take-down e rimozione spontanea da parte degli amministratori) non avevano reso possibile, nel caso di specie, un intervento immediato, poiché i commenti diffamatori erano rimasti pubblicati per circa sei settimane (e cioè l’intervallo di tempo compreso tra la propria pubblicazione e l’avvio dell’azione stragiudiziale da parte di L.).

La posizione di Delfi, inoltre, risulterebbe aggravata tanto dal proprio interesse all’aumento del numero dei commenti apposti in calce alle proprie pubblicazione (al fine di accrescere gli introiti pubblicitari) quanto dal fatto che solo gli amministratori del portale (e non i lettori) avevano la possibilità di intervenire direttamente sui commenti pubblicati, emendandoli od espungendoli dal sito.

Del resto, secondo la Corte, la circostanza per cui i giudici estoni non avessero imposto a Delfi di adottare specifiche misure di rimozione, lasciandola sostanzialmente libera nel quomodo, avrebbe ridotto non poco l’interferenza delle Autorità pubbliche con la libertà di espressione del portale web.

c)       La responsabilità degli autori materiali dei commenti in alternativa (o in aggiunta) a quella di Delfi

In linea di principio, secondo la Corte, anche gli autori dei commenti dovrebbero essere ritenuti responsabili di eventuali violazioni dei diritti di terzi. In pratica, tuttavia, tale ipotesi risulterebbe difficilmente praticabile in considerazione dell’eccessiva difficoltà, per la persona offesa, di risalire al singolo commentatore, che avrebbe anche potuto celare la propria identità dietro ad uno pseudonimo. Sul punto la Corte sottolinea l’importanza dell’aspirazione dei cybernauti a non svelare la propria identità nell’esercizio della libertà di espressione.

Il livello di cautela richiesto dalla particolarità del caso risulterebbe poi ulteriormente irrigidito dal rischio che un’informazione “nata pubblica” resti tale e circoli per sempre nello spazio virtuale.

Inoltre, L’attività di rimozione delle informazioni diffamatorie da Internet, che risulterebbe già assai ardua per un operatore come Delfi, lo sarebbe a maggior ragione per la persona offesa, che non potrebbe essere materialmente in grado di monitorare costantemente il web.

d)      Le conseguenze materiali delle sanzioni imposte a Delfi dalle Autorità nazionali

Infine, la circostanza per cui Delfi fosse stata condannata dai giudici estoni alla corresponsione di una somma poco più che simbolica (pari a circa 320 Euro) a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale patito da L. non rende sproporzionata la restrizione della libertà d’espressione di Delfi.

La Corte conclude per l’infondatezza del ricorso (mancata violazione dell’art. 10 CEDU): i Giudici estoni avrebbero verificato la colpevolezza di Delfi in relazione alla pubblicazione di commenti diffamatori dei propri lettori sul portale, irrogando una sanzione proporzionata rispetto alle prerogative imposte dalla libertà di espressione.

4.     Alcune annotazioni critiche

Tre brevi considerazioni.

In primo luogo – riprendendo la precisazione svolta all’inizio di questo breve commento – la sentenza interviene esclusivamente sulla compatibilità di una misura nazionale con la Convenzione Edu. L’ordinamento comunitario (che, segnatamente, affronta la questione della responsabilità degli ISP giungendo a conclusioni diverse rispetto a quelle delle Corte di Strasburgo) non è entrato in gioco. Piuttosto, l’assetto interpretativo comunitario avrebbe dovuto essere tenuto in considerazione dai Giudici estoni, che avevano omesso di applicare i principi derivanti dall’attuazione (e dalla costante interpretazione) della Direttiva e-commerce (31/2000/CE). Così argomentando, il parametro comunitario è stato sostanzialmente eliminato dal thema decidendum del giudizio di Strasburgo. Sarebbe stato, viceversa, molto interessante (come evidenziato altrove) capire cosa avrebbe deciso la Corte se il parametro normativo comunitario fosse stato (correttamente) considerato dai Tribunali estoni. Ma così non è stato, quindi è bene limitare l’analisi della sentenza al sistema convenzionale senza tentare di indugiare sul “non detto”.

In secondo luogo, con la sentenza Delfi la Corte Edu ha suffragato un approccio dinamico al parametro della libertà di espressione (art. 10), sembrando allontanarsi da una concezione sacrale della freedom of speech – come tradizionalmente inquadrata dalla US Supreme Court – calata nella realtà di Internet. Nel cyberspazio, infatti, la catalizzazione della trasmissione del pensiero amplifica i pericoli connessi alla violazione di diritti individuali. Conseguentemente, se la libertà d’espressione nell’ambiente virtuale amplifica la velocità di trasmissione della conoscenza, anche i relativi rischi risultano inevitabilmente aumentati. La rimodulazione del parametro della libertà di espressione seguita all’impatto del fattore tecnologico deve essere salutata favorevolmente, a condizione di preservare l’ordinamento multilivello da pericolose derive censorie.

In terzo luogo, ciò che semmai desta qualche perplessità è l’apparente squilibrio tra i bilanciamenti di volta in volta effettuati tra gli artt. 8 e 10 CEDU, che sembrano talvolta salvaguardare eccessivamente la libertà d’espressione e, in alcuni casi, penalizzarla troppo.

Il confronto tra le sentenze Delfi e Rzecspospolita[9] (praticamente coeve) è eloquente sul punto: se nel secondo caso, infatti, la Corte era giunta alla predisposizione di un sistema di salvaguardia della libertà di stampa decisamente rafforzato, al punto da tollerare, di fatto, l’alterazione dell’identità personale nel cyberspazio a opera di notizie ab origine false, nel caso Delfi il ragionamento dei Giudici di Strasburgo approda ad una soluzione assai diversa, rafforzando la protezione dell’art. 8 di fronte ad un esercizio ritenuto non iure della libertà di espressione.

Il punto è che – piuttosto curiosamente – nel caso Rzecspospolita la condotta dell’organo di stampa online era assai più colpevole di quella di Delfi, poiché in quel caso ciò che si voleva colpire non era tanto la vigilanza sull’operato altrui (e cioè sulla condotta dei lettori) quanto il contenuto incontestabilmente illegittimo dell’articolo di cronaca. Questa apparente contraddizione potrebbe evidenziare una diversa sensibilità delle varie Sezioni della Corte relativamente al bilanciamento tra gli articoli 8 e 10 della Convenzione?



[1] Ovviamente le fonti comunitarie possono entrare nel sindacato della Corte laddove il provvedimento nazionale ne faccia riferimento. Ma nel caso di specie, come vedremo, le Autorità estoni non hanno richiamato i principi espressi dal quadro comunitario.

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3 Comments

  1. Marco Ciaffone on

    Buongiorno, ho un dubbio relativo a questo passaggio:

    “Inoltre, il portale avrebbe il pieno controllo del flusso dei commenti, potendo scegliere quali pubblicare e quali, viceversa, non pubblicare”

    Mi chiedevo se tale circostanza si riferisse alla presenza di opzioni di pre-moderazione dei commenti o fosse valida anche laddove i commenti non sono pre-moderati ma possono comunque essere rimossi dall’admin dopo la pubblicazione. Detto in altre parole: è differente in termini di responsabilità la posizione di un admin che pre-modera rispetto a chi non lo fa e interviene, ad hoc, solo a posteriori?

    Grazie e buon lavoro

    • Lorenzo Nannipieri on

      Caro Marco,
      nel caso di Delfi, la Corte ha precisato:
      1) che i commenti, una volta inseriti, non potevano essere rimossi o modificati direttamente dagli autori né, in generale, dagli utenti;
      2) al contrario, gli amministratori del portale potevano fare sostanzialmente quello che volevano, ed erano gli unici a controllare il flusso dei commenti. All’epoca dei fatti, peraltro, il portale non prevedeva un’attività di pre-moderazione, ma solo una moderazione eventuale e successiva rispetto alla pubblicazione dei post.

      Alla luce di queste considerazioni, la Corte ha ritenuto che i rimedi difensivi previsti dal portale all’epoca dei fatti fossero insufficienti a garantire un’adeguata protezione del diritto al rispetto della vita privata (art. 8 CEDU). E’ difficile dire cosa avrebbe potuto dire la CEDU se Delfi avesse previsto anche un meccanismo di premoderazione, che appunto non esisteva (fatta salva l’eliminazione automatica di alcune espressioni volgari).

      In ogni caso, la Corte di Strasburgo giudica solo sulle violazioni della Convenzione, e non dice nient’altro sul framework complessivo di riferimento, se non direttamente richiamato dal provvedimento nazionale contestato. Questo è un elemento da tenere sempre in considerazione per dare il “giusto peso” alle pronunce dei Giudici di Strasburgo.
      Spero di essere stato sufficientemente comprensibile. In caso contrario, possiamo parlarne di nuovo.

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