Sull’eccesso di delega del decreto legislativo di adeguamento della disciplina italiana sulla privacy al Regolamento (UE) 679/2016

Sommario. 1. Introduzione: tra principi e criteri direttivi. – 2. L’eccesso di delega: l’orientamento della Corte costituzionale. – 3. Il caso del recepimento della direttiva SMAV. – 4. Il caso dei coordinamenti e dei riordini di materie. – 5. Conclusione: rileggere i principi e i criteri direttivi alla luce della ratio della legge delega per il recepimento del Regolamento (UE) 679/2016.

 

  1. Introduzione: tra principi e criteri direttivi

Molte riflessioni sono state fatte riguardo lo schema di decreto legislativo elaborato dalla Presidenza del Consiglio sulla base della proposta ricevuta dalla Commissione incaricata di adeguare la normativa italiana alle disposizioni del Regolamento (UE) 679/2016 (di seguito, “Regolamento Privacy”)[1] come previsto dalla l. 163/2017 (di seguito, “Legge di Delegazione”).

Fra le questioni maggiormente dibattute particolare attenzione è stata posta riguardo il potenziale eccesso di delega da parte del Governo nell’esercizio del potere delegato dal Parlamento.[2] In particolare, le questioni principali sollevate vertevano su una questione formale e una sostanziale. Da un lato, si è dibattuto sulla scelta riguardante l’abrogazione dell’intero Codice Privacy, dall’altro, sull’eliminazione delle sanzioni penali, quest’ultima poi risolta con l’aggiunta delle fattispecie concernenti la cessione di rilevanti quantità di dati e l’acquisizione fraudolenta di dati.

Risolta la questione attinenti agli aspetti sanzionatori, la questione principale ruotava attorno al comprendere se il Governo avesse agito nei limiti della propria delega optando per l’abrogazione dell’intero d. lgs. 196/2003 (di seguito, “Codice Privacy”) anziché per le singole disposizioni incompatibili con quest’ultimo. L’abrogazione in toto del Codice Privacy è stata una soluzione criticata da chi ha basato il proprio giudizio su un’interpretazione letterale della delega[3] trascurando la sua ratio ossia l’adeguamento della disciplina nazionale al Regolamento Privacy[4].

Il presente lavoro tuttavia non mira a ricostruire esaustivamente l’ambito di discrezionalità del Governo nell’esercizio del potere delegato ma si pone l’obbiettivo di riflettere su una fattispecie ancora oggi singolare avente ad oggetto un decreto legislativo che recepisce una misura europea direttamente applicabile quale un Regolamento UE. A differenza dal caso delle direttive europee, in questo caso il recepimento cerca di soddisfare due obbiettivi principali: da un lato, similmente a quanto accade nel caso delle Direttive, il recepimento mira a riempire quei margini di discrezionalità lasciati al legislatore nazionale, dall’altro, mira a riordinare la disciplina nazionale al fine di evitare incompatibilità con il Regolamento. Occorre sottolineare come quest’ultimo step non costituisca un passaggio obbligato visto che le disposizioni nazionali in contrasto con il Regolamento devono considerarsi come non applicabili in quanto il giudice nazionale è tenuto alla disapplicazione vista la prevalenza del diritto UE su quello nazionale. Tuttavia, il recepimento svolge una funzione orientata a garantire la certezza del diritto chiarendo quali disposizioni sono abrogate e quali devono intendersi compatibili con il quadro europeo di riferimento. Sotto quest’ultimo profilo occorre analizzare il caso di specie.

Non resta quindi che analizzare attraverso la lente del diritto costituzionale il grado di discrezionalità che il legislatore delegato può esercitare nei confronti delle linee di intervento legislative stabilite dal delegante sulla base dei cc.dd. principi e criteri direttivi, riflettendo, quindi, sul caso di specie attinente all’adeguamento della disciplina italiana in materia di privacy alle disposizioni del Regolamento Privacy.

  1. L’eccesso di delega: l’orientamento della Corte costituzionale

In tema di eccesso di delega, il testo costituzionale all’art. 76 non fornisce particolari criteri interpretativi se non riferendosi al fatto che l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. Tali criteri sono risultati nel corso del tempo tutt’altro che rigidi come suffragato da una vasta giurisprudenza della Consulta.

Secondo il costante orientamento della Corte costituzionale[5], il controllo di conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui esse si collocano ed individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della stessa; l’altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega[6].

Il contenuto della delega e dei relativi principi e criteri direttivi deve essere identificato, dunque, accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della loro portata. Queste vanno, quindi, prese in considerazione, nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono.

Al legislatore delegato spettano margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo di riferimento[7]. Occorre, infatti, tenere conto della possibilità, intrinseca allo stesso strumento della delega, soprattutto ove riguardi interi settori di disciplina o comunque organici complessi normativi, che il legislatore delegato introduca disposizioni che costituiscano un coerente sviluppo e un completamento delle indicazioni fornite dal legislatore delegante, nel quadro della fisiologica attività che lega i due livelli normativi[8].

A tal proposito, può inoltre richiamarsi l’orientamento della Corte, secondo cui l’art. 76 della Costituzione «non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante; va escluso, infatti, che le funzioni del legislatore delegato siano limitate ad una mera scansione linguistica delle previsioni dettate dal delegante, essendo consentito al primo di valutare le situazioni giuridiche da regolamentare e di effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi, rispettivamente, della legge di delegazione e di quella delegata»[9].

Se per un verso, si deve escludere che l’art. 76 riduca la funzione del legislatore delegato ad una mera “scansione linguistica” delle previsioni stabilite dal legislatore delegante, per altro verso va ribadito che l’ambito della discrezionalità lasciata al delegato, muta a seconda della specificità dei criteri fissati nella legge delega[10]; tuttavia, è necessario considerare che, per quanta ampiezza debba riconoscersi al potere di completamento del legislatore delegato, il libero apprezzamento del medesimo non può uscire dai margini di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega[11].

La Corte ha però precisato anche i limiti generali atti a contenere la discrezionalità del legislatore delegato. Da un lato, il libero apprezzamento del legislatore delegato «non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega»[12]; dall’altro, però, il delegante non può precludere «ogni margine di scelta nell’esercizio della delega»[13] in modo da permettere al potere delegato la possibilità di tenere in considerazioni il caso concreto da regolare.

  1. Il caso del recepimento della Direttiva SMAV

Una volta definite le suddette linee guida generali, occorre soffermarsi su un caso che in passato ha fatto discutere in materia di eccesso di delega. Una simile questione era emersa riguardo il presunto eccesso di delega nell’adozione da parte del Governo del d.lgs. 44/2010 (di seguito, “Decreto Romani”) rispetto a quanto previsto dalla direttiva 2007/65/CE[14] (di seguito, “Direttiva SMAV”), che aveva il compito di recepire e, più in generale, adeguare la normativa italiana con il quadro normativo e giurisprudenziale proprio dell’ordinamento dell’Unione europea. In particolare, l’art. 26 della l. 88/2009 attribuiva la delega al governo esclusivamente per recepire quanto previsto dalla Direttiva SMAV prevendo, inoltre, ulteriori criteri senza però prevedere una esplicita modifica generale delle norme del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (di seguito, “TUSMAR”).[15]

Secondo l’art. 26 della legge delega, oltre i criteri generali previsti di cui all’art. 2 della stessa[16], il legislatore delegato doveva attenersi alle seguenti dettagliate condizioni: «a) l’inserimento di prodotti è ammesso nel rispetto di tutte le condizioni e i divieti previsti dall’articolo 3-octies, paragrafi 2, 3 e 4, della direttiva 89/552/CEE[17], come introdotto dalla citata direttiva 2007/65/CE; b) per le violazioni delle condizioni e dei divieti di cui alla lettera a) si applicano le sanzioni previste dall’articolo 51 del testo unico di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, per la violazione delle disposizioni in materia di pubblicità, sponsorizzazione e televendite, fatto salvo il divieto di inserimento di prodotti nei programmi per bambini, per la cui violazione si applica la sanzione di cui all’articolo 35, comma 2, del medesimo decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177».

Il Decreto Romani sembrava oltrepassare tali limiti legiferando al di fuori di quanto oggetto di regolazione da parte della Direttiva SMAV in merito a due profili connessi, uno più generale, l’altro più specifico.[18] Da un punto di vista generale, l’ambito di applicazione della Direttiva SMAV non sembrava comprendere alcuna regolazione del web (eccetto per l’ipotesi molto specifica del webcasting). Come appare chiaro dal considerando 16, è escluso qualsiasi servizio trasmesso sul web, in particolare «i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse». Rispetto a tale indirizzo, il Decreto Romani dimostrava invece di occuparsi della prestazione di servizi audiovisivi in Internet contrariamente al suddetto ambito di applicazione della Direttiva SMAV.

Sotto un profilo più specifico relativo ai profili di violazione del diritto d’autore, l’unica disposizione rilevante della Direttiva SMAV concerneva la richiesta agli Stati membri di assicurare che i fornitori di servizi media soggetti alla loro giurisdizione non trasmettano opere cinematografiche al di fuori dei periodi concordati con i titolari dei diritti. La ratio di tale disposizione mirava a risolvere finalmente la questione delle cc.dd.. “finestre di trasmissione”.

Oltre tale cornice, l’art. 6 del Decreto Romani, invece, prevedeva l’aggiunta di un nuovo art. 32-bis al TUSMAR, rubricato “protezione del diritto d’autore”. In particolare, il c. 2, lett. a) del suddetto articolo effettivamente recepiva quanto previsto dal nuovo art. 3-quinques della direttiva, mentre invece la lett. b) prevedeva un qualcosa del tutto nuovo e sconnesso dall’opera di recepimento della direttiva prevedendo che fornitori di servizi di media audiovisivi, operando nel rispetto dei diritti d’autore e dei diritti connessi, «si astengono dal trasmettere o ri-trasmettere, o mettere comunque a disposizione degli utenti, su qualsiasi piattaforma e qualunque sia la tipologia di servizio offerto, programmi oggetto di diritti di proprietà intellettuale di terzi, o parti di tali programmi, senza il consenso di titolari dei diritti, e salve le disposizioni in materia di brevi estratti di cronaca».

Come già sottolineato, in questo caso, la delega legislativa non sembrava ricomprendere tali interventi. Come risulta dalla relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, il Governo decise di introdurre le modifiche proposte al fine di tener conto della necessità di ridurre alcuni profili di ambiguità del testo originario che hanno formato oggetto di rilievi da parte della Commissione europea e disciplinare autonomamente aspetti non presi espressamente in considerazione dalle direttive comunitarie, ma non in contrasto con le finalità di tutela ad esse sottesi. Chiaramente senza tenere in considerazione i dettagliati criteri contenuti nella delega.

La questione non passò inosservata tanto che un importante broadcaster televisivo convinse il giudice a quo, nel corso di un processo avente ad oggetto l’applicazione di una disposizione del TUSMAR che era stata aggiunta a seguito del recepimento della Direttiva SMAV, di sollevare di fronte alla Consulta una questione di costituzionalità del Decreto Romani per un suo supposto eccesso di delega in relazione ad un diverso aspetto innovativo rispetto a quanto previsto dalla direttiva europea, vale a dire con riferimento alla questione della quantificazione dei cc.dd. affollamenti pubblicitari.

Nonostante le precise indicazioni fornite dalla legge delega, la Corte, investita della questione, rigettò la doglianza relativa al vizio di eccesso di delega rispetto all’oggetto e da violazione dei principi e criteri direttivi[19]. Principi che come lo stesso broadcaster aveva indicato come specifici rinvenendosi nella Direttiva SMAV, nonché nella stessa legge di delega, all’art. 2 e 26 (quest’ultimo recante criteri specifici relativi alla disciplina del c.d. product placement). Al contrario, secondo il broadcaster, la norma delegata non era necessaria, da un lato, ai fini dell’attuazione della Direttiva SMAV, dall’altro eccedeva l’oggetto della delega. Secondo la Corte costituzionale, la modifica all’art. 38 del TUSMAR − nel modulare i limiti di affollamento pubblicitario in funzione delle oggettive diversità degli operatori – risultava coerente con la ratio della Direttiva SMAV (come espressamente individuata dalla Corte di giustizia)[20], in quanto volta a realizzare la equilibrata tutela degli interessi delle emittenti televisive, da un lato, e di quelli dei consumatori – telespettatori, dall’altro.

Il caso appena analizzato costituisce un tipico esempio di doppio parametro di costituzionalità (europeo e nazionale) dell’esercizio del potere delegato rispetto alle indicazioni del legislatore delegante. In questo caso, nonostante la specificità dei principi, il riconoscimento dell’ampio margine di discrezionalità del Governo nell’esercizio della delega da parte della Corte costituzionale suggerisce come nei casi di recepimento o adeguamento della normativa europea debbano tenersi in considerazione non solo il dettato della delega nazionale ma anche la ratio della misura europea. La suddetta decisione spinge a riflettere sull’ampiezza del potere discrezionale del legislatore delegato, in particolare, considerato che, anche in casi di così di dettaglio, la Consulta non ha riconosciuto un eccesso di delega nelle scelte del legislatore delegato ma, anzi, ha ritenuto che quest’ultimo avesse ampio margine di manovra nell’implementazione della Direttiva SMAV.

Tale approccio sembra confermare la necessità di adottare un approccio basato non tanto sul contesto letterale della delega fornita dal legislatore ma sulla ratio di quest’ultima.

Venendo al caso oggetto di analisi nel presente lavoro, le disposizioni della Legge di Delegazione sembrano maggiormente assimilarsi alla fattispecie dell’adeguamento e del coordinamento delle discipline piuttosto che al limitare l’introduzione di innovazioni da parte del legislatore delegato che vadano oltre l’oggetto della delega o la sua ratio.

  1. Il caso dei coordinamenti e dei riordini di materie

A questo punto, al fine di inquadrare ancor più approfonditamente la questione, sembra opportuno richiamare brevemente la giurisprudenza della Consulta riguardante le leggi che delegano il Governo al coordinamento e al riordino di materie visto che, in particolare, la Legge di Delegazione fa espresso riferimento al concetto di “adeguamento” e “coordinamento”.

Seppur nel caso di specie non si tratti di un intervento di riordino interno ma di adeguamento rispetto ad un Regolamento europeo, il fatto che il legislatore delegante non abbia introdotto dettagliate previsioni ma abbia delegato il Governo soltanto attraverso criteri volti all’adeguamento della precedente disciplina in materia di privacy, spinge a tenere in considerazione, per analogia, quei casi in cui il Governo è stato delegato in passato a coordinare normative già esistenti, seppur interne, piuttosto che ulteriormente soffermarsi sulla giurisprudenza in materia di recepimento di norme europee (di cui il caso del recepimento della Direttiva SMAV sopramenzionato ne costituisce un esempio).

In questo caso, inoltre, l’interesse per la materia del coordinamento rispetto al recepimento è dovuta ad ulteriori due motivi. Da un lato, considerato che le norme del Regolamento sono direttamente applicabili (salvo alcune eccezioni), l’operazione richiesta al legislatore delegato era maggiormente rivolta al coordinamento e non di certo al tradizionale recepimento delle norme europee. Dall’altro, la questione dell’eccesso di delega relativo ad eventuali previsioni del Regolamento europeo non è oggetto del dibattito che si focalizza soltanto sulla scelta relativa all’abrogazione dell’intero Codice Privacy. Infatti, ciò che interessa in quest’analisi non è giustificare l’attività innovativa del legislatore delegato rispetto alla delega o al Regolamento ma valutare la conformità dell’adeguamento e del coordinamento della disciplina rispetto alla ratio della Legge di Delegazione. Non si tratta quindi di valutare la conformità di scelte sostanziali legate al recepimento delle norme italiane al parametro europeo ma piuttosto di scelte formali legate alla scelta di abrogare il Codice Privacy, di fatto adeguando e coordinando l’intera materia. In altre parole, occorre scrutinare il grado di discrezionalità del legislatore delegato riguardo alle modalità con cui adeguare la materia.

In materia di delega per il coordinamento e riordino di discipline in essere, la Corte ha già affermato che tale attività può essere non solo formale se l’obiettivo è quello della coerenza logica e sistematica della normativa riordinata[21]. Inoltre, un criterio più generale sembra, inoltre, emergere dalla sentenza n. 308/2002 (richiamata anche da pronunce successive)[22]. In quella circostanza, la Corte ha affermato che il legislatore delegato ha il potere «di valutare le situazioni giuridiche da regolamentare e di effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi, rispettivamente, della legge di delegazione e di quella delegata».

Riguardo al significato del coordinamento, la Corte ha precisato che «[c]oordinare (non solo formalmente) vuol dire […] anche adeguare la disciplina al nuovo quadro complessivo, derivato dal sovrapporsi, nel tempo, di norme dettate in vista di situazioni e di assetti diversi, anche eliminando dai testi legislativi norme la cui ratio originaria non trova più rispondenza nell’ordinamento, e che quindi non appaiono più razionalmente riconducibili, quanto meno nella loro portata originaria, all’assetto in vigore»[23].

Da questi brevi passi qui richiamati si comprende come l’attività di coordinamento del potere delegato possa estendersi oltre la forma della delega al fine di poter soddisfare gli obbiettivi concreti della legge delega.

Tali brevi osservazioni sembrano confermare il necessario approccio sistematico ai principi e ai criteri direttivi che non possono essere presi in considerazione isolatamente e letteralmente ma devono essere collocati in una cornice di riferimento di carattere teleologico.

  1. Conclusione: rileggere i principi e i criteri direttivi alla luce della ratio della legge delega per il recepimento del Regolamento (UE) 679/2016

Occorre chiedersi, quindi, se e in base a quali fattori possa identificarsi un eccesso di delega da parte del Governo nell’esercizio del proprio potere delegato al fine dell’adeguamento della disciplina italiana al Regolamento Privacy.

Occorre ribadire che, nel caso di specie, il fattore che ha fatto scaturire il dibattito sull’eccesso di delega non deriva dall’assenza di conformità della normativa di adeguamento rispetto ad una prescrizione europea come (non) avvenuto nel caso SMAV ma rispetto ad un aspetto formale, quasi letterale, contenuto nella Legge di Delegazione con la quale il Parlamento ha delegato il Governo per il recepimento – tra l’altro, non obbligatorio se non per alcuni aspetti – di una misura direttamente applicabile.

A questo punto, in merito ai principi e i criteri direttivi, occorre ricordare che, oltre le previsioni dell’art. 13 della Legge di Delegazione, le quali come ricordato mirano al coordinamento e all’adeguamento della disciplina italiana a quella europea, è necessario considerare anche i principi generali dettati dall’art. 31 della l. 234/2012 come richiamata dall’art. 2 della Legge di Delegazione. In particolare, l’art. 2 c. 1 lett. b) prevede che «ai fini di un migliore coordinamento con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, sono introdotte le occorrenti modificazioni alle discipline stesse, anche attraverso il riassetto e la semplificazione normativi con l’indicazione esplicita delle norme abrogate, fatti salvi i procedimenti oggetto di semplificazione amministrativa ovvero le materie oggetto di delegificazione».

Tale previsione sembra confermare che la ratio della Legge di Delegazione, facendo riferimento alle “modificazioni occorrenti” al fine dell’attuazione della normativa europea, garantisse al legislatore delegato margine di manovra riguardo la singola scelta formale. Inoltre, come appare chiaro nel caso di specie, non si è in presenza di specifiche indicazione da parte del legislatore delegante che restringono la discrezionalità del legislatore delegato ma, al contrario, di ampi spazi di coordinamento entro i cui limiti va esercitata la funzione legislativa delegata.

Lo schema di decreto non prevede alcuna innovazione rispetto alla disciplina passata prevista dal Codice Privacy e non sembra porsi in contrasto con le indicazioni della Legge di Delegazione. Diverso sarebbe stato qualora il Governo avesse introdotto norme in contrasto con il Regolamento Privacy o avesse mantenuto disposizioni nazionali incompatibili con quest’ultimo.

Proprio, l’abrogazione del Codice Privacy, seppur da molti interpretata come un grave vulnus valoriale, non può costituire un limite ad un potere esercitato ai fini dell’adeguamento e del coordinamento e non dell’attività innovativa o additiva del legislatore delegato. Per tale motivo, le censure mosse riguardo l’eccesso di delega relativo all’abrogazione del Codice Privacy non trovano un riscontro concreto nella pratica né nella giurisprudenza costituzionale non essendosi verificata alcuna attività che abbia comportato un eccesso del potere delegato ma soltanto una sistematizzazione più efficiente della disciplina esistente, specialmente al fine di soddisfare l’interesse generale dell’ordinamento ad avere una normativa chiara per gli operatori e contenuta in unico documento nonché a rispettare quel principio di leale collaborazione che lega l’Italia in qualità di Stato membro all’Unione europea.

 

[1] Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).

[2] Sul tema della delega legislativa si vedano, in particolare, A. A. Cervati, La Delega Legislativa, Milano, 1972; M. Cartabia, I decreti legislativi integrativi e correttivi: virtù di Governo e vizi di costituzionalità?, in V. Cocozza, S. Staiano (a cura di), I rapporti tra Parlamento e Governo attraverso le fonti del diritto. La prospettiva della giurisprudenza costituzionale, Torino 2001, 71; A. Ruggeri, A proposito di deleghe, delegificazioni (ed altro) e dei possibili rimedi volti a porre ordine nel sistema delle fonti, in P. Caretti, A. Ruggeri (a cura di), Le deleghe legislative: riflessioni sulla recente esperienza normativa e giurisprudenziale, Atti del convegno, Pisa, 11 giugno 2002, Milano, 2003, 1-46 ; P. Ilari, Brevi riflessioni in tema di delega legislativa: il superamento del modello costituzionale, in Studi Urbinati 56(1), 2005, 75-122; AA. VV., La delega legislativa. Atti del convegno svoltosi a Roma, Palazzo della Consulta, 24 ottobre 2008, Milano 2009; F. Modugno, La delega legislativa nell’esperienza delle due ultime legislature, in federalismi.it, 19 ottobre 2015.

[3] Secondo l’art. 13 c. 3 della Legge di Delegazione: «Nell’esercizio della delega di cui al comma 1 il Governo è tenuto a seguire, oltre ai principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, anche i seguenti principi e criteri direttivi specifici: a) abrogare espressamente le disposizioni del codice in materia di trattamento dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, incompatibili con le disposizioni contenute nel regolamento (UE) 2016/679; b) modificare il codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, limitatamente a quanto necessario per dare attuazione alle disposizioni non direttamente applicabili contenute nel regolamento (UE) 2016/679; c) coordinare le disposizioni vigenti in materia di protezione dei dati personali con le disposizioni recate dal regolamento (UE) 2016/679; d) prevedere, ove opportuno, il ricorso a specifici provvedimenti attuativi e integrativi adottati dal Garante per la protezione dei dati personali nell’ambito e per le finalità previsti dal regolamento (UE) 2016/679; e) adeguare, nell’ambito delle modifiche al codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, il sistema sanzionatorio penale e amministrativo vigente alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 con previsione di sanzioni penali e amministrative efficaci, dissuasive e proporzionate alla gravità della violazione delle disposizioni stesse».

[4] Secondo l’art. 13 c. 1 della Legge di Delegazione: «Il Governo è delegato ad adottare […] uno o più decreti legislativi al fine di adeguare il quadro normativo nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE».

[5] C. Cost. sent. 25 novembre 2016, n. 250.

[6] C. Cost. sent. 29 ottobre 2015, n. 210.

[7] C. Cost. sent. 23 marzo 2016, n. 59; sent. 5 giugno 2015, n. 98.

[8] C. Cost. sent. 9 luglio 2015, n. 146; sent. 6 ottobre 2014, n. 229.

[9] C. Cost. sent. 5 giugno 2003, n. 199; sent. 3 luglio 2002, n. 308.

[10] C. Cost. sent. 6 dicembre 2012, n. 272; sent. 11 aprile 2008, n. 98.

[11] C. Cost. sent. 8 ottobre 2010, n. 293.

[12] C. Cost. sent. 12 ottobre 2007, n. 340.

[13] C. Cost. sent. 3 giugno 1998, n. 198; sent. 5 aprile 2012, n. 80.

[14] Direttiva 2007/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2007 che modifica la direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive.

[15] Sul punto si vedano M. Cuniberti, La tutela degli utenti, in F. Bassan, E. Tosi (a cura di), Diritto degli audiovisivi, Milano, 2012, 305-343; O. Pollicino, Il decreto Romani ed eccesso di delega ex articolo 76 della Costituzione, in MediaLaws, 18 dicembre 2010.

[16] Tra questi occorre, in particolare, segnalare l’art. 2 c. 1 lett. b) che recita: «b) ai fini di un migliore coordinamento con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, sono introdotte le occorrenti modificazioni alle discipline stesse, fatti salvi i procedimenti oggetto di semplificazione amministrativa ovvero le materie oggetto di delegificazione».

[17] Direttiva 89/552/CEE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 ottobre 1989, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi (direttiva sui servizi di media audiovisivi).

[18] La restrittività della delega risulta chiara dalla relazione illustrativa del disegno di legge (n. 1078) la quale si riferiva in modo specifico ai criteri identificati: «La nuova direttiva definisce il concetto di “servizi di media audiovisivi compiendo una distinzione tra servizi lineari, che designano i servizi di televisione tradizionale, internet, la telefonia mobile che i telespettatori ricevono passivamente, e servizi non lineari, cioè i servizi di televisione a richiesta che i telespettatori scelgono di vedere (servizi di video on demand, ad esempio). In tema di pubblicità, in particolare, la direttiva definisce esplicitamente il concetto di «inserimento di prodotti» (product placement) e stabilisce il quadro giuridico in materia, fissando tra l’altro il principio del divieto di inserimento di tali prodotti, ma demandando agli Stati membri la decisione in merito alla eventuale deroga a tale principio. La disposizione dell’articolo 17 del disegno di legge è volta a definire l’ambito di esercizio della discrezionalità riservata allo Stato in materia di inserimento dei prodotti, attraverso lo strumento della novella al testo unico della radiotelevisione, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177. L’opportunità del recepimento delle norme in tema di inserimento dei prodotti nel nostro Paese risiede nella necessità di garantire un trattamento omogeneo e non penalizzante alle opere audiovisive prodotte in Italia, aumentandone la competitività nel contesto europeo e introducendo, nel contempo, regole certe a tutela degli utenti. Un differente approccio, infatti, comporterebbe comunque la diffusione nel nostro Paese di opere audiovisive contenenti il product placement prodotte in Paesi dove la legislazione lo consente, con la conseguenza che eventuali effetti negativi sugli utenti non sarebbero neanche compensati da un beneficio in termini di opportunità di crescita del prodotto nazionale audiovisivo. Occorre, inoltre, considerare che le stringenti regole previste dalla direttiva per la diffusione del product placement, quali il divieto dell’inserimento di prodotti a base di tabacco, di sigarette, di prodotti medicinali o cure mediche, la sua esclusione nei programmi per bambini e soprattutto il principio di salvaguardia dell’integrità del programma e dello spettatore, ove integralmente recepite, rendono trasparente e regolamentata una pratica di fatto già utilizzata da molti Paesi europei. La direttiva, nel consentire l’inserimento del product placement, ha mutuato l’approccio già seguito in Francia, ovvero quello di una tolleranza di tale pratica nel rispetto di determinate condizioni più stringenti rispetto ai criteri di inserimento della pubblicità classica, proprio in considerazione dell’opportunità di una regolamentazione il più possibile omogenea del prodotto audiovisivo. In tema di sanzioni, infine, si dispone l’estensione alla disciplina de qua delle norme recate dal menzionato testo unico di cui al decreto legislativo n. 177 del 2005, ivi comprese le misure previste dall’articolo 35, comma 2, del testo unico per i casi di particolare gravità».

[19] C. Cost. sent. 29 ottobre 2015, n. 210.

[20] CGUE, C-234/12, Sky Italia (2013).

[21] C. Cost. sent. 28 gennaio 2005 n. 52; sent. 28 gennaio 2005, n. 53.

[22] C. Cost. sent. 3 luglio 2002, n. 308.

[23] C. Cost. sent. 24 giugno 2003, n. 220; sent. 30 gennaio 2009, n. 21.

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