Google vs privacy: profili problematici anche dal Giappone

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Sembra non esserci pace per Google. Già nell’occhio del ciclone – soprattutto in Europa – negli ultimi mesi per la nuova normativa privacy unificata, arriva ora un altro colpo, questa volta dal Giappone dove il giudice Hiroyuki Sakuta della Corte Distrettuale di Tōkyō ha ritenuto lesiva della privacy la funzione di completamento automatico offerto dal motore di ricerca.

La pronuncia del 19 marzo scorso si è originata da un ricorso di un privato cittadino che ha portato Google dinnanzi al giudice di primo grado di Tōkyō per ottenere dal motore di ricerca l’eliminazione di alcuni termini dalla sua funzione di completamento automatico, da lui considerata diffamante e lesiva della sua privacy.

Più precisamente, digitando le prime lettere del nome del ricorrente, veniva suggerito dal motore di ricerca il completamento del nome, associato però a crimini violenti cui il ricorrente è in realtà assolutamente estraneo. Pertanto, nel caso in esame, la funzione di completamento automatico consente al motore di ricerca di produrre un risultato di circa 10 mila pagine che fanno riferimento al ricorrente come all’autore di crimini violenti. Ciò si è tradotto concretamente in un notevole pregiudizio per il ricorrente che si è infatti visto più e più volte rifiutare il posto di lavoro proprio per questo motivo. In Giappone è infatti pratica molto comune che il settore privato effettui indagini molto approfondite (svolte spesso da professionisti del settore) sui canditati all’assunzione, per verificarne specialmente provenienza sociale e fedina penale, sulla base delle quali effettuerà la propria valutazione sull’opportunità o meno di assunzione.

Il ricorso in tribunale è avvenuto però solo a seguito di una fallita intesa con Google. In prima battuta, infatti, il ricorrente si era rivolto direttamente a Google, facendogli richiesta di rimuovere alcune parole dal completamento automatico associato al suo nome. A tale richiesta Google ha però risposto negativamente, poggiandosi sul fatto che le parole suggerite sono scelte non intenzionalmente ma meccanicamente e che conseguentemente non è possibile parlare di violazione della privacy.

La Corte Distrettuale con la pronuncia del 19 marzo ha invece garantito la richiesta del ricorrente – rinvenendo una lesione della privacy nel completamento automatico – e ha quindi emanato un’ingiunzione provvisoria in forza della quale Google dovrà provvedere a rimuovere le parole incriminate. Il giudice Sakuta, accogliendo la tesi del ricorrente sulla violazione della privacy, ha perciò ritenuto applicabile la normativa interna anche a Google. E’ proprio su questa base che si fonda il rifiuto di Mountain View di eseguire la sentenza; Google contesta infatti l’applicabilità della legislazione giapponese, essendo la sua sede legale ubicata all’interno dei confini statunitensi, fatto questo che non lo rende imputabile di violazioni della privacy previste dalla normativa nipponica. Ne consegue che a Google è applicabile prettamente la legislazione statunitense e una violazione come quella lamentata dal ricorrente solo sulla base del Communications Decency Act. Posto questo, anche volendo giudicare la funzione di completamento automatico ex CDA, alla luce della natura meccanica dello stesso, non è comunque configurabile alcuna violazione del CDA.

La Corte aveva lasciato tempo fino al 25 marzo affinché Google procedesse con la rimozione. Nulla è ancora stato fatto da parte di Mountain View e a questo punto non potrà che essere oggetto di sanzione da parte della Corte Distrettuale di Tōkyō.

La sentenza è decisamente importante per l’ordinamento nipponico (ma non solo) essendo la prima che è risultata in un ordine di rimozione di parole dalla funzione di completamento automatica che suggerisce come completare quanto si sta scrivendo. Sicuramente la funzione di completamento automatico, per altro non utilizzata solo da Google ma anche dagli altri maggiori motori di ricerca, può rivelarsi utile in molti frangenti, ma tale utilità non deve andare naturalmente a discapito della privacy e della reputazione degli utenti. Come ha ben rilevato il professor Tadashi Suzuki dell’Università di Niigata in una intervista rilasciata alla NHK, la rete nazionale (e disponibile in giapponese qui: http://www3.nhk.or.jp/news/html/20120325/k10013954721000.html#), è assolutamente necessario che il legislatore intervenga quanto prima a regolare la questione, fissando le misure maggiormente idonee per consentire agli utenti di poter ottenere la cancellazione dei termini lesivi della loro privacy.

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