Internet e governance dei contenuti, tra libertà di espressione e censura

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Il caso della pubblicazione del video contenente il trailer al film “Innocence of Muslim”, tacciato di blasfemia nel mondo musulmano e (apparente) cagione (anche) della morte dell’ambasciatore americano Stevens ha posto con prepotenza al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica del mondo occidentale il ruolo che i nuovi media, e i provider in particolare, stanno consolidando nell’evoluzione della società e anche nel mutamento degli equilibri internazionali. Nel bene e nel male. Dopo gli entusiasmi della primavera araba, il cui sviluppo è stato grandemente aiutato dalla rete, la gravità delle conseguenze della sommossa libica ha innegabilmente inquietato il mondo occidentale stimolando riflessioni, per una volta anche tra i non addetti ai lavori, sulle potenzialità della rete ma anche sulle ripercussioni negative, finanche originate da comportamenti involontari e in assoluta buona fede, che una gestione del tutto autoreferenziale (ma non perciò illecita, si badi bene, trattandosi in molti casi di una scelta obbligata, anche se notoriamente non patita, per i provider, vista la carenza di norme) dei contenuti può comportare. Nel caso in esame, ad esempio, la gestione del video è stata effettuata dalla piattaforma (Google) che lo ospitava secondo un mix di policy aziendali e valutazioni di opportunità politica. Diversamente, del resto, non avrebbe potuto essere dato che il video in questione non conteneva in sé elementi evidenti di un crimine, potendo lo stesso al più essere ricondotto a un reato di opinione che, come noto (e come giusto, per quanto mi consta), in molti ordinamenti occidentali non è sanzionato da alcuna norma penale o se lo è, come accade in Italia, è un retaggio dei tempi che furono. Tanto è che a una prima richiesta di oscuramento del video proveniente dalla Casa Bianca, dettata da ragioni politiche e non da una presunta violazione di una legge statunitense o di una convenzione internazionale, Google ha opposto un diniego fondato sul presupposto, riportato dalla stampa, che “ l’azienda si è data un codice per cancellare i filmati diffamatori, quelli che incitano alla violenza, i video che descrivono con compiacimento atti efferati. Offendere responsabilità sensibilità religiose, rischiare di alimentare sommosse non rientra tra questi criteri”. Solo a seguito dell’aggravarsi di quanto accadeva in Medio Oriente, YouTube (che notoriamente fa capo a Google) ha deciso di oscurare momentaneamente il video incriminato in Egitto e Libia avuto riguardo “alla delicatezza della situazione”. Personalmente posso anche condividere questo modo di agire. In assenza di regole condivise che possano indicare ai provider una strada comune sulle policy da adottare, mi pare condivisibile, ed espressione di sostanziale rispetto per le libertà individuali, evitare che si radichi una consuetudine che imponga un dovere di rimozione dei video contenenti opinioni (per quanto satiriche o dissacranti) non gradite a parte degli utenti. In fin dei conti, nel tanto deplorato occidente, abbiamo assistito a dileggi a ideologie e religioni tutt’altro che lievi senza con ciò dover assistere a scene di violenza esiziale. Ma si tratta, come detto, di una mia personale opinione che può perciò non trovare d’accordo altre persone che non per questo devono sentirsi discriminate dalla rete. Ciò che mi inquieta, di conseguenza, è che si lasci completamente in mano di un imprenditore la decisione sulla scelta dei contenuti da rimuovere. Oggi, infatti, siamo in presenza di imprenditori forse “illuminati” (anche se non dovremmo mai dimenticare che il fine ultimo dell’imprenditore è il profitto e non garantire le libertà altrui) ma possiamo escludere che, un domani, strumenti di potenzialità incomparabile rispetto agli altri mezzi di comunicazione quali sono i provider finiscano nelle mani di personaggi senza scrupoli? In questo caso l’assenza di regole non potrebbe che agevolare strategie criminali, senza neppure la necessità di dover temere una reazione della legge. Possiamo poi non considerare che le modalità di gestione di internet da parte di Stati democratici possano essere strumentalizzate da governi, o peggio fazioni eversive ideologizzate che ambiscono al potere, di paesi che invece democratici non sono? Non direi proprio. Abbiamo dunque bisogno di regole il più possibile condivise. E’ un compito però molto arduo; non solo perchè si deve legiferare in tempi che stiano al passo del progresso digitale, ma soprattutto perché in un mondo globale le regole, una volta adottate, devono avere anche la forza, soprattutto culturale, per resistere di fronte alle aggressioni strumentali che possono provenire da governi o gruppo politici ben poco democratici o imprenditori spregiudicati. E’ infatti vero, che “internet può fungere da veicolo di emancipazione e promozione delle libertà fondamentali, e può stimolare processi di democratizzazione, contribuendo in tal modo a creare una società più giusta”, come riporta il preambolo alla posizione italiana sui principi fondamentali di internet al prossimo Internet Governance Forum (IGM); ed è altrettanto vero che “internet sta emergendo come Quinto Potere, in grado di favorire la responsabilizzazione di governi e mass media di tutto il mondo”. Ma, de jure condendo, soprattutto nell’attuale difficile contesto economico e sociale, non possiamo trascurare il fatto che internet, in quanto strumento che trae la sua forza e si sviluppa soprattutto grazie al contributo degli utenti, è ontologicamente multiculturale e tocca perciò sensibilità molto diverse tra loro. Anzi, se vogliamo che internet si consolidi realmente come una polivalente risorsa globale, anche attraverso la “conclusione di accordi multilaterali in sede di cooperazione internazionale”, come giustamente auspica il documento italiano che verrà presentato all’IGM, non possiamo proprio permetterci di dimenticarlo.

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