The first duty of intelligent men is the restatement of the obvious: ovvero l’abrogazione del reato di ingiuria sul tavolo della Corte costituzionale

 Corte costituzionale, 23 gennaio 2019, n. 37 

È inammissibile la questione di legittimità costituzionale concernente le disposizioni abrogative del reato di ingiuria (già art. 594 c.p.) in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. Il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost. – che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante – determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore, ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato. Il caso di specie non rientra in alcuna delle ipotesi in base alle quali può eccezionalmente ammettersi un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem. Il diritto all’onore – oggetto della tutela apprestata dalla disposizione abrogata – è un diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili obblighi di incriminazione, di origine costituzionale o sovranazionale, che limitino la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle modalità della sua tutela. Quest’ultima, pertanto, ben può essere affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile sulla base di scelte non censurabili da parte della Corte costituzionale.

 

Sommario: 1. L’atto di promovimento. – 2. Le conclusioni delle parti costituitesi. – 3. La decisione della Corte costituzionale. – 4. Osservazioni conclusive.

 

  1. . L’atto di promovimento

Con ordinanza del 24 gennaio 2017, il Giudice di Pace di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, c. 3, lett. a), numero 2), della l. 67/2014, nonché dell’art. 1, c. 1, lett. c) del d.lgs. 7/2016 per supposta violazione degli artt. 2 e 3 Cost. Sospettate di incostituzionalità sono le norme abrogatrici del reato di ingiuria, di cui all’art. 594 c.p. La relativa condotta, in forza delle disposizioni menzionate, configura oggi soltanto un illecito civile, accompagnato, tuttavia, da sanzione pecuniaria. Lo stesso Giudice di Pace ha poi fatto seguire l’ordinanza menzionata da ulteriori sei promovimenti caratterizzati da medesimi contenuti in punto di rilevanza della questione, ma, al contempo, da qualche differenza sotto il profilo della non manifesta infondatezza[1]; segnatamente, figurano nelle successive ordinanze, quali parametri costituzionali evocati, gli artt. 117, c. 1, e 10, c. 1, Cost. Infine, scompare nei sei promovimenti menzionati il riferimento ad una supposta difforme disciplina processuale che caratterizzerebbe l’ingiuria “depenalizzata” e il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. Per il resto, le ordinanze possono dirsi sostanzialmente coincidenti.

Il giudice a quo, tenuto a giustificare la questione di legittimità sotto il profilo della rilevanza, sostiene che l’eventuale declaratoria di illegittimità della norma abrogatrice determinerebbe la riespansione della rilevanza penale dell’ingiuria e, con ciò, la possibilità di proseguire il processo «al fine di verificare in dibattimento la sussistenza del reato contestato all’imputato». Inoltre, il medesimo argomenta circa la rilevanza della questione aggiungendo che essa sussisterebbe nonostante ci si trovi di fronte ad una norma penale di favore, in quanto precludere il sindacato costituzionale di siffatte norme impedirebbe la garanzia della preminenza della Costituzione sulla legislazione ordinaria[2]. Vengono dunque citate, a sostegno della tesi ora esposta, le seguenti sentenze del giudice delle leggi: n. 148/1983, n. 394/2006 e, da ultimo, la n. 5/2014.

Prendendo in considerazione i sette atti di promovimento complessivamente indirizzati al giudice costituzionale, sono in totale quattro i profili di non manifesta infondatezza circoscritti dal remittente. In primo luogo, il giudice definisce l’onore – ovvero il diritto tutelato dal reato di ingiuria – quale «uno dei beni fondamentali della persona umana riconosciuto tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione, […] estrinsecazione, nelle società democratiche, del fondamentale principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani»[3]; esso ritiene che l’avvenuta abrogazione si ponga in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto – sostiene – le norme penali «sono poste, ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell’essere umano»[4]; punire le condotte lesive di diritti inviolabili per il tramite di sanzioni amministrative o civili sarebbe dunque inammissibile, in quanto queste «appaiono inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive dei diritti fondamentali»[5]. In secondo luogo, il rimettente sottolinea come dottrina e giurisprudenza abbiano ricondotto i «concetti» di onore, decoro e reputazione «all’essenza concettuale del valore uomo identificato con il termine: dignità»; quest’ultima, si legge nelle ordinanze, è contemplata quale «diritto inviolabile» altresì dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, dunque, essa è ricondotta nel «tessuto costituzionale» dell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 10 e 117 Cost. Abrogare il reato di ingiuria posto a presidio di un diritto quale quello all’onore, corollario della dignità, significa – sostiene il giudice – esercitare la potestà legislativa «senza rispettare i vincoli e i principi derivanti dagli obblighi internazionali e dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute»[6]. In terzo luogo, si mette in luce come l’avvenuta abrogazione determini una disparità di trattamento (e, dunque, una violazione dell’art. 3 Cost) derivante dal mantenimento nel codice penale del reato di diffamazione, di cui all’art. 595 c.p., il quale sarebbe «delitto riconducibile alla stessa medesima ratio e allo stesso diritto fondamentale» presidiato dal reato di ingiuria[7]; inoltre, si legge nei promovimenti, parrebbe irragionevole altresì la decisione di abrogare anche l’ipotesi aggravata di «ingiuria diffamatoria» (ossia quella commessa alla presenza di più persone, oltre l’offeso) e non procedere nello stesso senso rispetto al reato di diffamazione: si finisce così per perseguire un fatto commesso «comunicando con più persone» in assenza dell’offeso e rinunciare a farlo, invece, nell’ipotesi di commissione del medesimo fatto «in presenza di più persone», ma in presenza dell’offeso. Un profilo di non manifesta infondatezza di natura squisitamente processuale è presente in una sola delle ordinanze[8]: rileva infatti il giudice veneto come l’abrogazione del reato di ingiuria e la contestuale introduzione della sanzione civile per il fatto ingiurioso determinino il divieto per la persona offesa di deporre quale teste nel corso del processo (possibilità questa, che è normativamente esclusa nell’ambito del processo civile). Dunque, il diffamato – a differenza dell’ingiuriato – si troverebbe oggi nella condizione di poter testimoniare (e la relativa prova potrebbe ben essere posta a fondamento della decisione nel procedimento penale): ciò determina una irragionevole disparità di trattamento riservata alle vittime di ingiuria rispetto a coloro che lamentino di aver subito una diffamazione.

 

  1. Le conclusioni delle parti costituitesi

Si sono costituiti nel giudizio incidentale sia le parti civili – le quali avevano in origine richiesto al giudice di pace di sollevare questione di legittimità costituzionale – sia il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. Nell’atto di costituzione delle prime, ci si sofferma in primo luogo sulla funzione svolta dalla norma penale: solo quest’ultima, per il tramite del timore che la relativa sanzione suscita nel reo e della possibilità garantita all’offeso di ottenere una tutela adeguata, è in grado di frenare la «progressione criminosa» che conseguirebbe alla commissione di «un reato-innesco di una serie di altre condotte delittuose» quale l’ingiuria[9]. Le parti costituitesi sottolineano, poi, come l’avvenuta abrogazione determini una disparità di trattamento tra cittadini più e meno abbienti, posto il minor costo della presentazione di una querela rispetto all’avvio di un processo civile, nonché una «frantumazione» del bene dell’onore, il quale riceve tutela penale solo per il tramite della diffamazione; opzione, questa, irragionevole in virtù dell’impossibilità di valutare in astratto la maggiore gravità della diffamazione, tenuto conto di come l’offensività debba sempre essere «apprezzata in concreto». Da ultimo, le parti evidenziano come la Corte costituzionale sembri aver superato l’iniziale self restraint circa la sindacabilità della lex mitior e, a sostegno di tale tesi, citano, oltre alle medesime sentenze riportate dal giudice a quo, anche la n. 32/2014. Di tutt’altro tenore, chiaramente, i rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. Viene infatti rilevato come, alla luce della giurisprudenza (anche più recente) del giudice delle leggi, non vi sia dubbio alcuno circa l’attualità del principio secondo il quale «è preclusa ogni pronuncia che ripristini un reato laddove si contesti la mera ragionevolezza delle scelte discrezionali del legislatore, con conseguente inammissibilità della relativa questione»[10]. Ai sensi dell’art. 25, c. 2, Cost., infatti, spetta solo e soltanto al legislatore il compito di definire quale sia l’area del “penalmente rilevante”. Eccezioni a tale principio sono individuate dalla stessa Corte costituzionale e, ricorda l’Avvocatura, corrispondono a quei casi in cui il legislatore abbia esercitato la sua discrezionalità in maniera arbitraria o del tutto irragionevole[11]. Inconferenti, dunque, paiono essere le sentenze citate dal Giudice di Pace di Venezia, essendo tutte relative a casi rientranti tra le eccezioni al principio di tutela della discrezionalità del legislatore in materia penale. Quanto al rilievo circa la disparità di trattamento originatasi dalla decisione di decriminalizzare l’ingiuria, mantenendo al contempo nel codice penale il reato di diffamazione, l’Avvocatura dello Stato precisa che «il perdurante rilievo penale della diffamazione si giustifica sulla base dell’aggressione pubblica dell’onore». Circa la supposta violazione degli artt. 10, c. 1, e 117, c. 1, Cost., si evidenzia come, rispetto a tali parametri, l’ordinanza appaia «del tutto immotivata […], non essendo in particolare illustrati i motivi della contrarietà delle norme denunciate con le norme dell’Unione europea». Tra l’altro, rileva l’Avvocatura, il fatto che la dignità dell’uomo riceva tutela costituzionale non comporta «che il diritto europeo imponga al legislatore l’adozione di particolari forme». Da ultimo, circa il profilo processuale di non manifesta infondatezza, si conclude affermando che, nonostante sia fatto divieto di testimoniare a proprio favore nel processo civile, esistono ugualmente «mezzi (es. 228/230-233 c.p.c.) che possono portare all’accertamento della fattispecie».

 

  1. La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale, riuniti i giudizi, ha ritenuto inammissibili tutte le questioni prospettate dal Giudice di Pace di Venezia. Manifestamente inammissibili sono le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione agli artt. 117, c. 1, e 10, c. 1, Cost. Quanto alla prima, infatti, il giudice delle leggi rileva come il rimettente non abbia in alcun modo chiarito «in che senso la tutela dell’onore individuale dovrebbe ritenersi materia ricadente entro l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea»[12]; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, infatti, pone, all’art. 51, una condizione necessaria ai fini della sua applicabilità negli Stati membri: «le disposizioni […] si applicano alle Istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri», si legge nel testo, «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Similmente recitano le spiegazioni relative alla Carta, che gli operatori giuridici sono chiamati ad osservare quando interpretano le disposizioni della medesima: «Per quanto riguarda gli Stati membri, la giurisprudenza della Corte sancisce senza ambiguità che l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali definiti nell’ambito dell’Unione vale per gli Stati membri soltanto quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione»[13]. Quanto alla seconda questione, il giudice costituzionale è sostanzialmente costretto a disporre la manifesta inammissibilità in ragione di una «radicale assenza di motivazione»: non vi è nelle ordinanze di rinvio, infatti, neppure un minimo cenno circa la sussistenza di una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta che imponga allo Stato di criminalizzare le offese all’onore[14].

La Corte si sposta quindi sulla questione di legittimità fondata sugli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale. Innanzitutto, viene ribadito il principio consacrato dall’art. 25, c. 2, Cost., che «riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante». Tale assunto, chiarisce il giudice costituzionale, determina l’inammissibilità di questioni di legittimità «che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata»[15]. Tuttavia, come anche il giudice a quo rileva nelle sue ordinanze, il giudice delle leggi ha eccezionalmente ammesso un sindacato relativo alla norma penale di favore[16]. La Corte, dunque, provvede ad effettuare una esaustiva elencazione di tutti i casi in si è proceduto a tale scrutinio. In primo luogo, ciò è stato ritenuto doveroso in presenza di norme che abbiano sottratto «irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero che [abbiano previsto]per detto sottoinsieme un trattamento sanzionatorio più favorevole»; una siffatta disposizione finirebbe per collidere con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.; pertanto, in questo caso, il sindacato della norma “di favore in senso stretto” (non già, dunque, semplicemente “più favorevole”)[17] sarebbe ammissibile. In secondo luogo, la Corte ha rilevato ulteriori eccezioni alla regola dell’insindacabilità nelle ipotesi di scorretto esercizio del potere legislativo: sia che ciò avvenga in sede parlamentare (qualora, ad esempio, non si rispettino i principi costituzionali in materia di conversione dei decreti legge)[18], sia che accada in sede governativa (qualora, ad esempio, si proceda ad una abrogazione per il tramite di un decreto legislativo, in assenza, tuttavia, di autorizzazione all’interno della corrispondente legge delega)[19], sia, infine, che avvenga in sede di Consiglio regionale (il quale non può «neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale»)[20]: se ad essere dichiarata costituzionalmente illegittima è una norma che abrogava una disposizione incriminatrice preesistente, «la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata».  Il giudice delle leggi aggiunge, poi, che un «effetto peggiorativo» della disciplina penale potrebbe scaturire da una pronuncia della Corte stessa, qualora siffatta decisione si sia resa necessaria al fine di ricondurre entro parametri di legittimità una norma processuale (anche di recente, infatti, la Corte ha proceduto all’espunzione dall’ordinamento di una disposizione processuale derogatoria della disciplina generale applicabile al caso di specie)[21]: l’«effetto peggiorativo», sottolinea il collegio, sarebbe in tal caso una «mera conseguenza indiretta» della pronuncia. Infine, il giudice delle leggi individua un’ultima ipotesi di ammissibilità di un sindacato sulla norma penale di favore laddove esista un «obbligo sovranazionale di penalizzazione» non rispettato dal legislatore nazionale: in tal caso, la disposizione che abbia sottratto la relativa condotta alla disciplina penale potrà essere dichiarata illegittima per contrasto con gli artt. 11 e 117, c. 1, Cost. e da tale pronuncia non potranno che derivare effetti in malam partem derivanti dalla riespansione della norma penale abrogata.

Il giudice costituzionale conclude rilevando come il caso di specie non rientri in alcuna delle eccezioni circoscritte: la disposizione abrogata, infatti, né «si atteggiava a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina generale coesistente» (il reato di ingiuria, invero, aveva «a oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone»). Nemmeno si ricadrebbe nell’ipotesi di scorretto esercizio del potere legislativo: l’avvenuta abrogazione costituisce infatti «puntuale adempimento della delega» conferita al Governo per il tramite della l. 67/2014. Da ultimo, né paiono esservi obblighi di penalizzazione delle condotte lesive del diritto all’onore imposti a livello sovranazionale, né tantomeno la disciplina oggetto della questione di legittimità sembra avere in alcun modo natura processuale[22].

La Corte riconosce, poi, la correttezza dell’inquadramento costituzionale del diritto all’onore prospettato dal giudice a quo, il quale innanzitutto lo ricomprende tra i «diritti inviolabili» di cui all’art. 2 Cost., riconducendolo essenzialmente al «fondamentale principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani» sancito dall’art. 3 Cost.[23], e, poi, lo annovera altresì tra i diritti «fondamentali», in quanto talune importanti fonti sovranazionali ne impongono la tutela[24]: tra queste, la stessa Corte tiene a menzionare il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 17), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 8) e, da ultimo (nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione), la Carta di Nizza (art. 7)[25]. Tuttavia, allo stesso tempo la Corte costituzionale rileva come «dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante azioni penali»; il Parlamento, «naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica» resta dunque «libero di valutare se il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti da terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei»[26]. La tutela del diritto all’onore, dunque, «ben potrà restare affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile, come quelle apprestate dal d.lgs. 7/2016».

 

  1. Osservazioni conclusive

Il reasoning della Corte nella sentenza in commento appare condivisibile: salvi i casi in cui esistano obblighi sovranazionali di criminalizzazione, l’unica eccezione alla regola che vuole il Parlamento quale unico depositario delle scelte (discrezionali) di politica criminale è rappresentata dall’ipotesi di irragionevole o arbitrario esercizio del potere legislativo: solo in tali ipotesi la Corte costituzionale può sindacare la norma penale di favore e determinare così effetti in malam partem senza che ciò sfoci nell’indebita invasione di un campo riservato alla discrezionalità del legislatore. Constatata l’assenza di obblighi sovranazionali che impongano allo Stato di tutelare il diritto all’onore per il tramite delle norme penali[27], la Corte rileva come il potere legislativo, nel caso de qua, sia stato correttamente esercitato: la scelta di sanzionare il fatto ingiurioso non più quale reato, ma per il solo tramite delle regole aquiliane accompagnate da una sanzione pecuniaria civile corrisponde a preciso e puntuale adempimento, da parte del Governo, della delega contenuta nella l. 67/2014. Il diritto all’onore, il cui inquadramento fornito dal giudice a quo viene ratificato dalla Corte[28], è dunque diritto inviolabile e fondamentale di rango costituzionale, ma a ciò non consegue affatto un obbligo dello Stato di fornire “copertura penale” alle condotte che ledano tale diritto: posta la generale necessità di una interpositio legislatoris (salvi i casi di espressa Drittwirkung) al fine di garantire l’efficacia tra privati dei diritti costituzionali, tale interposizione può assumere le forme che il legislatore ritenga più opportune, tenuto conto, ammonisce la Corte, della spesso richiamata «logica di ultima ratio della tutela penale»[29]; a quest’ultima, infatti, dovranno essere preferite forme di tutela «meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore». La tutela penale di un diritto costituzionalmente sancito dovrebbe considerarsi pertanto obbligatoria in due casi: quando tale obbligo è previsto dalla medesima disposizione costituzionale che sancisce il diritto (è il caso dell’art. 13, c. 4, Cost.) o quando – come si è rilevato in dottrina – «la mancata previsione della pena possa vanificare di fatto l’efficacia del riconoscimento costituzionale»[30]; nell’ipotesi specifica del diritto all’onore, l’ordinamento giuridico, già nelle more della vigenza del reato di ingiuria, affidava la tutela del diritto, in determinati casi (si pensi, ad esempio, alla lesione della reputazione nell’ambito della comunicazione con una sola persona), alle norme sulla responsabilità civile. L’esistente tutela aquiliana del diritto all’onore non pare aver ingenerato dubbi circa la perdurante efficacia del suo riconoscimento costituzionale. La scelta di perseguire il fatto ingiurioso attraverso forme alternative alla sanzione penale costituisce, dunque, legittimo esercizio di una discrezionalità che trova compimento, nel caso di specie, nella delega al Governo[31].

Fondata la decisione di inammissibilità su argomentazioni sì solide, la Corte omette di trattare due profili evidenziati nelle ordinanze di rimessione. Il giudice a quo aveva infatti circoscritto un profilo di non manifesta infondatezza basato su una supposta irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di diffamazione, posto a presidio del medesimo diritto tutelato dal reato di ingiuria. In particolare, secondo il rimettente, risulta irragionevole la scelta di perseguire penalmente l’atto lesivo dell’onore commesso «comunicando con più persone in assenza dell’offeso» e non farlo quando la medesima lesione è commessa «in presenza di più persone», compreso l’offeso[32]. Se da un lato è vero che il bene giuridico tutelato dai reati di ingiuria e diffamazione è l’onore unitariamente inteso – sebbene l’uno fosse a presidio della dignitas e l’altro, invece, della existimatio[33] – dall’altro lato sembra condivisibile quanto rilevato dall’Avvocatura Generale nelle sue conclusioni, laddove si legge che «il perdurante rilievo penale della diffamazione si giustifica sulla base dell’aggressione pubblica dell’onore». Offendere l’existimatio – ossia quella che oggi chiamiamo reputazione – è altra cosa rispetto all’attentare alla dignitas; come rilevava già Francesco Carrara nel corso del secolo diciannovesimo, «l’offesa maggiore che possa recarsi ad alcuno è quella alla estimazione; tale offesa colpisce l’individuo non solo nella sua intima personalità, ma nella sua stessa vita morale, sociale, economica: l’offesa alla dignità, se pure indirettamente si ripercuote nella vita sociale, spesso non si risolve se non […] in un patema d’animo del quale, forse, il tempo non lascerà alcuna traccia»[34]. La scelta di rimettere alla composizione tra privati l’attentato all’onore in senso soggettivo è, dunque, un’opzione coerente con la diversa gravità dell’offesa rispetto all’ipotesi di diffamazione (il cui regime sanzionatorio era ed è più severo rispetto a quello previsto dall’abrogato reato di ingiuria). Per conseguenza, non può condividersi quanto sostenuto nelle conclusioni depositate dalle parti private costituitesi, ove si legge che la diffamazione «non potrebbe dirsi in astratto più grave dell’ingiuria, dovendo l’offensività essere apprezzata in concreto»; come la Corte ha avuto più volte modo di precisare, «il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (“offensività in astratto”), e dell’applicazione giurisprudenziale (“offensività in concreto”), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato»[35]. Ogni scelta legislativa di politica criminale non può che basarsi su un apprezzamento circa l’offensività in astratto delle condotte, essendo la valutazione circa l’offensività in concreto un’operazione inevitabilmente attinente al solo ius dicere. Posta l’indiscutibile idoneità sia della condotta ingiuriosa che di quella diffamatoria a ledere in astratto l’onore, non si vede perché il legislatore non possa decidere liberamente di perseguire con strumenti alternativi alla sanzione penale la condotta atta a determinare (sempre ed inevitabilmente in astratto) una lesione meno rilevante del bene giuridico tutelato. Quanto, poi, alla supposta disparità di trattamento derivante dall’abrogazione della “ingiuria diffamatoria” e dal contestuale mantenimento nel codice penale dell’art. 595, basterà qui ricordare come la prima si differenzia dalla diffamazione in virtù di un elemento non secondario, ossia la presenza dell’offeso. Ledere l’altrui onore in presenza di più persone, oltre allo stesso ingiuriato, non è accostabile alla diffamazione: nel primo caso, infatti, la vittima può sempre contare sulla «gagliardia della privata difesa»[36]; privilegio, questo, che non è concesso al diffamato, il quale per definizione non è presente nel momento in cui la sua existimatio è messa in dubbio da un terzo che comunichi con altre persone. Non si riscontrano, dunque, profili di irragionevolezza nella scelta di procedere alla depenalizzazione di tutte le fattispecie contemplate dall’art. 594 c.p.

Da ultimo, la Corte non procede all’analisi di un profilo presente esclusivamente in una delle ordinanze di rimessione[37], ossia la supposta difforme tutela processuale garantita al medesimo diritto fondamentale. Essendo fatto divieto alla parte offesa in un processo civile di testimoniare a proprio favore (facoltà di cui, invece, gode la parte civile in un processo penale), il giudice a quo ha ritenuto che la decriminalizzazione dell’ingiuria comporti il rischio di lasciare impunite condotte ingiuriose commesse in assenza di testimoni. A tal riguardo, risolutive paiono essere – di nuovo – le conclusioni dell’Avvocatura Generale: il codice di procedura civile, nella sezione terza del Capo II, dedicata all’istruzione probatoria, contempla strumenti alternativi alla testimonianza, in grado di «portare all’accertamento della fattispecie»; si pensi, ad esempio, all’interrogatorio formale di cui agli artt. 228 e seguenti c.p.c., in forza del quale la parte citata in giudizio per aver commesso un fatto ingiurioso può essere indotta a rendere una confessione circa fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla controparte, i quali, ai sensi dell’art. 2733, c. 2, formerebbero piena prova contro il confitente. Non pare condivisibile, dunque, l’opinione secondo la quale – in seguito alla depenalizzazione del reato di ingiuria – la condotta ingiuriosa commessa in assenza di testimoni sia destinata inevitabilmente a restare impunita in virtù dell’assenza di strumenti in grado di assicurare l’accertamento della fattispecie.

 

 

[1] GDP Venezia, ord. 20 giugno 2017; ord. 27 giugno 2017; ord. 4 luglio 2017; ord. 17 ottobre 2017; ord. 30 gennaio 2018.

[2] GDP Venezia, ord. 24 gennaio 2017, § 2.2.

[3] Ibid., § 1.

[4] Ibid., § 3.1.

[5] Ibid.

[6] Si veda, ad esempio, GDP Venezia, ord. 20 giugno 2017, § 3.1.

[7] GDP Venezia, ord. 24 gennaio 2017, § 3.2.

[8] Vedi ibid., § 3.3.

[9] C. Cost., 6 marzo 2019, n.37, § 3 del ritenuto in fatto.

[10] C. Cost., 6 marzo 2019, n.37, § 2 del ritenuto in fatto.

[11] Cfr. C. Cost., ord. 30 gennaio 2009, n. 23. Vedi anche C. Cost., 8 aprile 2014, n. 81, dove la Corte sostiene chiaramente che le scelte discrezionali del legislatore sono sindacabili solo qualora manifestamente irragionevoli o arbitrarie.

[12] C. Cost., 6 marzo 2019, n.37, § 6 del considerato in diritto.

[13] Circa il cosiddetto ambito “competenziale” di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si veda C. Cost, 11 marzo 2011, n.80, § 5.5 del considerato in diritto, ove si legge: «presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è […] che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto». In generale, circa l’ambito di applicazione e l’efficacia della Carta di Nizza, si vedano, da ultimo, i contributi ospitati in V. Piccone – O. Pollicino (a cura di), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Efficacia ed effettività, Napoli, 2018.

[14] C. Cost., 6 marzo 2019, n.37, § 5 del considerato in diritto.

[15] Ibid., § 7.1 del considerato in diritto.

[16] Recentemente ribadita nelle seguenti pronunce: C. Cost., 10 aprile 2018, n. 143 e 14 dicembre 2018, n. 236.

[17] Sul binomio “norme penali di favore in senso stretto – norme penali più favorevoli”, si veda, ex multis, N. Zanon, Corte costituzionale e norme penali di favore: verso un sindacato sulle scelte politico-criminali?, in L. Zilletti – F. Oliva (a cura di), Verso un sindacato di legittimità sulle scelte politico-criminali?, Pisa, 2007, 53 ss. Sul tema, vedi anche G. Marinucci, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le “zone franche”, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, 4160 ss. Con specifico riguardo al rapporto di specialità sincronica e diacronica, vedi M. Gambardella, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cassazione penale, 2007, p. 467.

[18] C. Cost., 25 febbraio 2014, n. 32.

[19] C. Cost., 23 gennaio 2014, n. 5.

[20] Cfr., da ultimo, C. Cost., 13 marzo 2014, n. 46.

[21] C. Cost., 14 dicembre 2018, n. 236.

[22] C. Cost., 6 marzo 2019, n.37, § 7.2 del considerato in diritto.

[23] Così GDP Venezia, ord. 24 gennaio 2017, § 1.

[24] Stando alla ricostruzione operata dal GDP di Venezia (e avallata dalla Corte costituzionale), un diritto inviolabile può dunque dirsi (anche) fondamentale quando la sua tutela è imposta altresì da norme di diritto internazionale. La dottrina si è a lungo soffermata sui caratteri che un diritto deve presentare al fine di poter essere definito “fondamentale”. Sul punto, si veda A. Pace, Dai diritti del cittadino ai diritti fondamentali dell’uomo, in Rivista AIC, 2010, 15, nt. 41. L’A., dopo aver esposto le principali tesi sulla “fondamentalità” dei diritti (da quella che identifica diritti inviolabili e diritti fondamentali, passando per quella che ritiene fondamentali i soli diritti caratterizzati da universalità), afferma che «la nostra Costituzione non contiene, a differenza della Legge fondamentale tedesca e della Costituzione spagnola, una categoria di “diritti fondamentali” autonomamente individuabile avente una tutela sostanziale e/o processuale differenziata. Di qui, a mio parere, la conseguenza che tutte le norme costituzionali, in quanto facenti parte, allo stesso titolo, della nostra Costituzione, sono, di per ciò solo, norme fondamentali».

[25] Le ultime due disposizioni tutelano invero il diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro, tuttavia, «i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo». Il giudice delle leggi riporta, quindi, recenti pronunce della Corte di Strasburgo nelle quali si riscontra la menzionata riconduzione: CEDU, Vicent del Campo c. Spagna, ric. 25527/13 (2018); Bogomolova c. Russia, ric. 13812/09 (2017); A. c. Norvegia, ric. 28070/06 (2009); Pfeifer c. Austria, ric. 12556/03 (2007); Sanchez Cardenas c. Norvegia, ric. 12148/03 (2007).

[26] C. Cost., 6 marzo 2019, n.37, § 7.3 del considerato in diritto.

[27] Non certo individuabili nell’art. 1 della Carta di Nizza, la cui applicabilità alla luce dell’art. 51 CDFUE qui non si giustificherebbe. Condivisibile è, dunque, la decisione di dichiarare manifestamente inammissibili per carenza di motivazione le questioni di costituzionalità circa la supposta contrarietà delle norme abrogatrici all’art. 117, c. 1 e 10, c. 1, Cost.

[28] Va rilevato, tuttavia, come il giudice a quo individui nell’art. 3 il fondamento costituzionale del diritto all’onore in relazione al «fondamentale principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani» ivi sancito. Tuttavia, sarebbe stato più corretto il richiamo all’art. 3 con riferimento alla «pari dignità sociale» dei cittadini; infatti, come rilevava autorevolmente l’Esposito, «certamente tra le limitazioni tradizionali della libertà di manifestazione del pensiero sono ammesse dalla Costituzione quelle relative all’onore delle persone, quando essa proclama la pari dignità sociale dei cittadini. Questa proclamazione pretende infatti che la società e ciascun membro di essa non si elevi mai, in buona o mala fede, a giudice dell’altrui indegnità». Vedi C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano (1958), ora in C. Esposito, Diritto costituzionale vivente: Capo dello Stato ed altri saggi, Milano, 1992, 167. Similmente P.F. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, Torino, 1991, vol. I, 260: «Dà luogo ad una autonoma situazione di libertà costituzionalmente garantita ex art. 3 Cost. il diritto all’onore nei limiti in cui coincide con ciò che in un determinato momento storico è considerato essenziale alla pari dignità sociale di ogni cittadino».

[29] Si veda, ad esempio, C. Cost., 28 dicembre 1998, n. 447, § 3 del considerato in diritto: «le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni; ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o insufficienza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela». Similmente in C. Cost., 26 luglio 1996, n. 317, par. 2 del considerato in diritto: «[…] ed è anzi rimesso alla valutazione discrezionale del legislatore, nei limiti della ragionevolezza, valutare quando ed in quali limiti debba trovare impiego lo strumento della sanzione penale, che per sua natura costituisce extrema ratio, da riservare nei casi in cui non appaiono efficaci altri strumenti per la tutela di beni ritenuti essenziali».

[30] E. Di Salvatore, Il sentimento religioso nella giurisprudenza costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale, 6, 2000, 4446.

[31] Per ulteriori considerazioni circa la tutela aquiliana del diritto all’onore e dei diritti fondamentali in generale, si consenta il rinvio a O.M. Pallotta, Depenalizzazione dell’ingiuria e (obbligo di) protezione del diritto all’onore: riflessioni a margine di una questione di legittimità costituzionale, in Rivista di diritto dei media, 3/2018, 280-281.

[32] Va qui ricordato che, in ottemperanza alla delega, il Governo aveva proceduto all’abrogazione dell’intero art. 594 c.p., comprensivo della fattispecie nota generalmente come “ingiuria diffamatoria”.

[33] Su tale “scomposizione” del diritto all’onore, si veda A. De Cupis, I diritti della personalità, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1959, vol. I, 253.

[34] Le riflessioni del Carrara sono riportate in B. Cocurullo, L’ingiuria e la diffamazione nel nuovo codice penale, Foggia, 1934, 9.

[35] C. Cost., 7 luglio 2005, n. 265, § 4 del considerato in diritto; similmente vedi C. Cost., 24 luglio 1995, n. 360, nonché 11 luglio 2000, n. 263 e 21 novembre 2000, n. 519.

[36] B. Cocurullo, op. cit., 7. Vedi anche A. De Cupis, op. cit., 253.

[37] Precisamente, in quella del 24 gennaio 2017, § 3.3.

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