Sic et non: nel caso Vivendi la Corte di giustizia censura le incongruenze della disciplina italiana a tutela del pluralismo dell’informazione

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Sommario: 1. Cronaca di un’illegittimità annunciata. – 2. Il caso. – 3. La delibera n. 178/17/CONS dell’AGCOM. – 4. La sentenza della Corte di giustizia. – 4.1. Il parametro del giudizio: la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE). – 4.2. La tutela del pluralismo può giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento. – 4.3. L’art. 43, c. 11, del TUSMAR non è conforme al principio di proporzionalità e quindi costituisce una illegittima restrizione alla libertà di stabilimento. – 4.4. La definizione del settore delle comunicazioni elettroniche è eccessivamente restrittiva. – 4.5. L’equiparazione tra società “collegate” e società “controllate” è disfunzionale. – 4.6. Il superamento delle soglie del SIC non è indicativo di un rischio per il pluralismo. – 5. La sentenza del TAR Lazio. – 6. Quale tutela per il pluralismo dell’informazione? – 6.1. Correttivi all’interpretazione della locuzione “settore delle comunicazioni elettroniche”. – 6.2. Correttivi all’interpretazione della locuzione “società collegate”. – 6.3. Il SIC è uno strumento inadeguato alla tutela del pluralismo. – 6.4. La tutela del pluralismo alla ricerca della propria identità.

 

  1. Cronaca di un’illegittimità annunciata

Nel 1988, con la celebre sentenza n. 826[1], la Corte costituzionale accertò (anche se si astenne dal dichiarare formalmente[2]) l’incostituzionalità delle norme[3] che concedevano una sanatoria alle emittenti televisive private nazionali[4] senza predisporre alcuno dei necessari meccanismi anticoncentrazione[5]. Ispirandosi al fortunato racconto che Gabriel Garcia Marquez aveva dato alle stampe all’inizio dei quel decennio[6], uno dei più brillanti commenti alla sentenza 826/1988 recava per titolo “Cronaca di un’incostituzionalità annunciata (ma non dichiarata)”[7].  Quel titolo salace[8] voleva rimarcare, insieme al coup de théâtre della omessa dichiarazione di illegittimità, l’ineluttabilità del destino di norme il cui vizio di legittimità era di palmare evidenza, al punto da essere stato segnalato da dottrina unanime.

Analogamente, la sorte del sistema integrato delle comunicazioni (SIC)[9], «coacervo enorme quanto eterogeneo, assolutamente inidoneo ad assolvere alla funzione di parametro per l’applicazione di limiti ex ante volti al contenimento delle dimensioni economiche degli operatori»[10], era stata ampiamente preconizzata non da un’isolata Cassandra, ma da schiere di giuristi[11] in coro[12] e persino dalle autorità competenti[13].

Mentre però la cronaca di Garcia Marquez copriva un arco temporale assai breve, in questo caso l’annuncio non ha avuto seguito alcuno per ben 16 anni, anche perché il SIC non è mai stato impiegato, sebbene l’AGCOM-Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ne calcolasse annualmente le dimensioni e avesse anche provveduto all’analisi dei singoli mercati che lo compongono. Alla prima occasione in cui è stato contestato ad un’impresa di aver valicato i limiti previsti dalla legge, l’illegittimità del SIC è stata prontamente dichiarata: il SIC è caduto non già sotto la scure della Corte costituzionale per violazione dell’art. 21 Cost., ma è stata la Corte di giustizia dell’Unione europea a rilevarne l’incompatibilità con il diritto di stabilimento di cui all’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)[14].

  1. Il caso

Ma andiamo per ordine. La vicenda da cui originano le due sentenze in commento è molto articolata, quindi se ne offrirà una ricostruzione per sommi capi[15].

Vivendi S.A. è una società di diritto francese, al vertice di un importante gruppo industriale attivo nel settore dei media in ambito internazionale: fanno capo al gruppo Vivendi, tra le altre, l’etichetta musicale Universal Music, la società di produzione e distribuzione di contenuti audiovisivi Canal+, la piattaforma internet Dailymotion. Negli ultimi anni, Vivendi ha rivolto le proprie attenzioni ad alcune imprese italiane. Tra giugno 2015 e dicembre 2016 ha progressivamente acquisito il 23,94% nel capitale di Telecom Italia S.p.A., divenendone il principale azionista e conquistando la maggioranza dei seggi nel consiglio di amministrazione a seguito dell’assemblea degli azionisti tenuta il 4 maggio 2017. Parallelamente, Vivendi stringeva un accordo di partnership con il gruppo Mediaset, ma tra i due partner sorgevano presto dei contrasti che inducevano Vivendi a condurre una campagna ostile nell’ambito della quale acquisiva a dicembre 2016 il 28,8% del capitale sociale di Mediaset S.p.A., pari al 29,94% dei diritti di voto. Il controllo di Mediaset restava comunque saldamente in mano al suo storico azionista di maggioranza, Fininvest S.p.A.[16]

Il 20 dicembre 2016 Mediaset presentava un esposto all’AGCOM, segnalando la violazione, da parte di Vivendi, dell’art. 43, c. 11, del TUSMAR-Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici[17], a mente del quale «[l]e imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo»[18]. All’esito di un’istruttoria durata poco meno di quattro mesi[19], con delibera n. 178/17/CONS del 18 aprile 2017 l’AGCOM accertava che la posizione detenuta da Vivendi integrava la violazione segnalata da Mediaset e ne ordinava a Vivendi la rimozione entro dodici mesi.

Vivendi da un lato ottemperava all’ordine impartito dall’Autorità e il 6 aprile 2018 trasferiva ad una società indipendente, la Simon Fiduciaria S.p.A., il 19,19% delle azioni Mediaset, pari al 19,95% dei diritti di voto, mantenendo la titolarità di un pacchetto di azioni inferiore al 10% dei voti esercitabili nell’assemblea degli azionisti; dall’altro, con ricorso notificato il 16 giugno 2017, impugnava dinanzi al TAR Lazio il provvedimento dell’AGCOM.

  1. La delibera n. 178/17/CONS dell’AGCOM

Poiché entrambe le sentenze oggetto del presente commento traggono origine dall’impugnazione del provvedimento adottato dall’AGCOM con delibera n. 178/17/CONS, prima di passare all’esame di dette sentenze sembra opportuno ripercorrere, in estrema sintesi, l’iter logico-giuridico seguito dall’Autorità per giungere alle conclusioni sopra menzionate.

In primo luogo, l’Autorità ha proceduto ad accertare quale fosse la quota di ricavi detenuta da Telecom nel settore delle comunicazioni elettroniche. Presupposto per l’applicazione del limite ridotto del 10% del SIC fissato al c. 11 dell’art. 43 TUSMAR è infatti il conseguimento di ricavi superiori al 40% dei ricavi complessivi del settore delle comunicazioni elettroniche «come definito ai sensi dell’art. 18 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259»; qualora tale condizione non fosse soddisfatta, si applicherebbe il limite generale del 20% del SIC previsto al c. 9 del medesimo articolo[20], soglia che certamente non era stata oltrepassata da alcuno[21]. Ad avviso dell’Autorità, il perimetro che delimita il settore delle comunicazioni elettroniche va individuato tenendo conto esclusivamente dei mercati rilevanti suscettibili di regolamentazione ex ante. Pertanto, il settore delle comunicazioni elettroniche comprende i seguenti mercati: (i) servizi al dettaglio da rete fissa, (ii) servizi all’ingrosso da rete fissa, (iii) servizi all’ingrosso da rete mobile e (iv) servizi di diffusione radiotelevisiva per la trasmissione di contenuti agli utenti finali. Secondo la rilevazione annuale condotta dall’AGCOM ai fini dell’elaborazione della Relazione Annuale presentata al Parlamento nel luglio 2016, nel 2015 le risorse del settore delle comunicazioni elettroniche, così sagomato, ammontavano a più di 15 miliardi di euro (15.361 milioni di euro) e nel medesimo periodo i ricavi conseguiti da Telecom in tale settore risultavano essere pari a circa 8 miliardi e mezzo (8.579 milioni di euro), corrispondenti al 55,9% dei ricavi totali del settore.

Quanto alla stima della dimensione economica del SIC e della quota di ricavi detenuta da Mediaset, l’AGCOM ha richiamato i dati asseverati con delibera n. 10/17/CONS del 12 gennaio 2017, secondo cui il valore complessivo del SIC nel 2015 risultava essere pari a poco più di 17 miliardi di euro (17.076 milioni), i ricavi di Mediaset e delle proprie controllate, pari a 2.275 milioni di euro, corrispondevano al 13,3% del SIC, mentre i ricavi conseguiti da Telecom nel SIC erano pari allo 0,17% del medesimo.

Stabilito che Telecom conseguiva nel settore delle comunicazioni elettroniche ricavi superiori al 40% di quel settore e che Mediaset, attraverso le proprie controllate, conseguiva ricavi superiori al 10% del SIC, occorreva indagare i rapporti che intercorrevano fra Vivendi e le predette società. L’AGCOM ha ritenuto che Vivendi fosse collegata a Mediaset in quanto, potendo essa esprimere più di un decimo dei voti nell’ambito dell’assemblea ordinaria di Mediaset ed essendo quest’ultima una società quotata in borsa, risultava integrata la condizione al ricorrere della quale opera la presunzione di sussistenza di influenza notevole contemplata dall’art. 2359, c. 3, c.c. L’AGCOM ha ritenuto altresì che la posizione di Vivendi in Telecom non fosse tale da consentirle di qualificarsi come socio di controllo, fermo restando che Vivendi era «sicuramente in grado di esercitare un’influenza notevole in Telecom» e pertanto sussistevano «le condizioni previste dall’articolo 2359 comma 3 [c.c.], per qualificare Vivendi come società collegata a Telecom»[22]. A tal riguardo, è degno di nota che successivamente all’adozione della delibera 178/17/CONS, il 4 maggio 2017 si tenne l’assemblea dei soci di Telecom, nel corso della quale Vivendi nominò la maggioranza dei consiglieri di amministrazione, circostanza sulla scorta della quale sia la CONSOB- Commissione nazionale per le società e la borsa che la Commissione europea hanno ritenuto che “almeno” a far data da quell’assemblea Vivendi avesse assunto il controllo di Telecom[23].

Acclarata la natura dei legami esistenti tra le varie società, l’AGCOM era infine chiamata a valutare se i ricavi conseguiti rispettivamente da Telecom e da Mediaset (rectius, dalle società controllate da Mediaset) fossero imputabili a Vivendi. La risposta dell’Autorità è stata affermativa. Quanto al metodo da seguire, nel corso del procedimento Vivendi aveva sostenuto che fossero riferibili a Vivendi solo i ricavi delle società da questa controllate, esponendo che «[l]e società che detengono una partecipazione minoritaria in un’altra società, per quanto rilevante ai sensi dell’articolo 2359, comma 3, del codice civile, non conseguono “ricavi” tramite la partecipata, ma solo dividendi (per la quota parte loro spettante) qualora ne sia deliberata la distribuzione. […] Solo in presenza di una relazione di controllo o “influenza dominante” è possibile sostenere che una società “consegua” determinati ricavi»[24]. L’AGCOM rifiutava la tesi di Vivendi e opinava piuttosto che «anche i ricavi delle società collegate devono venire in rilievo e, in questo senso, devono essere considerati come interamente riconducibili all’impresa che detiene la relativa partecipazione»[25]: quindi a Vivendi dovevano essere imputati non solo i ricavi delle società da questa controllate, ma anche quelli delle società ad esse collegate, con la conseguenza che la soglia fissata dall’art. 43, c. 11 del TUSMAR risultava essere stata valicata, in violazione alla legge.

  1. La sentenza della Corte di giustizia

Si è detto che Vivendi si uniformava alle prescrizioni contenute nella delibera AGCOM 178/17/CONS e, al tempo stesso, adiva il TAR Lazio per chiederne l’annullamento.

Nel corso del giudizio, il TAR Lazio ha sottoposto alla Corte di giustizia tre questioni pregiudiziali[26], trattate congiuntamente dai giudici di Lussemburgo. Con la sentenza del 3 settembre 2020 (causa C-719/18), la Corte di giustizia dell’Unione europea, ha dichiarato che «[l’]articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che ha l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo». La statuizione della Corte è coerente con le conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale Campos Sánchez-Bordona il 18 dicembre 2019.

  • Il parametro del giudizio: la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE)

La Corte di giustizia identifica il parametro del giudizio nella libertà di stabilimento garantita dall’art. 49 TFUE.

Il TAR chiedeva alla Corte di esprimersi sulla legittimità della disciplina italiana alla stregua di tre libertà sancite dal trattato: libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE), libera circolazione dei servizi (art. 56 TFUE) e libertà di stabilimento (art. 49 TFUE).

La Corte rapidamente sgombra il campo dall’art. 56, rilevando che il caso pendente dinanzi al TAR non verte sulla prestazione transfrontaliera di servizi.

Quanto alla libera circolazione di capitali, essa viene in considerazione rispetto a disposizioni nazionali applicabili al caso in cui un’impresa acquisisca partecipazioni in un’altra impresa a mero scopo di investimento, senza l’intenzione di ingerirsi nella gestione.

Ricadono invece nella sfera di applicazione dell’art. 49 TFUE le norme destinate ad applicarsi alle acquisizioni di partecipazioni che consentono di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di una società e di determinare le attività di quest’ultima.

L’art. 43 TUSMAR mira a contrastare l’acquisizione di posizioni lesive del pluralismo, limitando il controllo che può essere esercitato sulle imprese attive nel SIC. Inoltre, la posizione di Vivendi in Telecom certamente costituisce esercizio del diritto di stabilimento e anche l’obiettivo perseguito da Vivendi rastrellando azioni Mediaset appare essere quello di assumere un ruolo gestionale nell’ambito della società (pur essendo astrattamente compatibile anche con quello di realizzare una partecipazione finanziaria). Alla luce di tali considerazioni, la Corte decide di concentrarsi esclusivamente sulla libertà di stabilimento, in quanto più pertinente. L’Avvocato Generale, al riguardo, ha avuto cura di precisare che comunque l’esito della valutazione non sarebbe sensibilmente differente ove si tenesse conto delle esigenze della libera circolazione di capitali, attesa la convergenza della giurisprudenza relativa alle due libertà in discorso.

La Corte non considera quale parametro di giudizio neanche la direttiva sui servizi di media audiovisivi e la direttiva quadro sui servizi di comunicazione elettronica, pure invocate dal giudice del rinvio. In primo luogo, la Corte ritiene che prima facie la normativa italiana non contrasti con dette direttive; inoltre, rileva che entrambe le direttive non procedono ad un’armonizzazione esaustiva delle normative nazionali, ma lasciano agli Stati membri un margine di discrezionalità, per cui l’eventualità che la normativa italiana ecceda tale discrezionalità deve essere valutata alla luce del solo diritto primario, ossia, nel caso di specie, dell’art. 49 TFUE.

  • La tutela del pluralismo può giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento

L’art. 43, c. 11, del TUSMAR non dà luogo ad alcuna discriminazione sulla base della nazionalità: si applica indifferentemente tanto alle imprese italiane quanto a quelle straniere. L’assenza di discriminazione, però, non basta a renderlo compatibile con l’art. 49 TFUE: quest’ultimo risulta violato da qualunque disciplina nazionale che ponga ostacoli o remore all’esercizio del diritto di stabilimento. La norma italiana in parola costituisce quindi una restrizione alla libertà di stabilimento in quanto, sia pure senza accedere a meccanismi discriminatori, comunque ha limitato il diritto di Vivendi di stabilirsi in Italia, impedendole di attuare i propri piani in ordine all’acquisto di azioni di Mediaset, all’influenza sulla gestione della medesima ed eventualmente anche all’acquisizione del controllo della media company italiana.

Nondimeno, per costante giurisprudenza una compressione della libertà di stabilimento è ammissibile ove giustificata da motivi imperativi di interesse generale. La Corte, nel solco di un consolidato orientamento[27], afferma con nettezza che il pluralismo dei media costituisce «incontestabilmente» un obiettivo di interesse generale[28] a fronte del quale la libertà di stabilimento è recessiva.

  • L’art. 43, c. 11, del TUSMAR non è conforme al principio di proporzionalità e quindi costituisce una illegittima restrizione alla libertà di stabilimento

Che una normativa nazionale sia diretta a tutelare il pluralismo dell’informazione non è però sufficiente: qualunque deroga al principio della libertà di stabilimento, per essere legittima, deve anche essere idonea al conseguimento dell’obiettivo perseguito e proporzionale. Quindi, deve essere dimostrato che la restrizione non eccede la misura necessaria al raggiungimento dello scopo, ossia che tale obiettivo non potrebbe essere raggiunto mediante limitazioni che comportino un minor sacrificio della libertà di stabilimento.

L’art. 43, c. 11, del TUSMAR non ha superato questo test, sotto tre distinti profili.

  • La definizione del settore delle comunicazioni elettroniche è eccessivamente restrittiva

La disciplina italiana fissa dei limiti a tutela del pluralismo, tra cui il divieto, per qualsiasi impresa, di conseguire più del 20% dei ricavi del SIC. Un limite sensibilmente più severo, pari al 10% dei ricavi del SIC (ovvero la metà del limite ordinario), si applica agli operatori i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche superino il 40% del totale dei ricavi di tale settore.

È evidente che l’applicazione di tale norma richiede l’identificazione della base di calcolo sulla quale valutare il superamento o meno della soglia del 40%. Come si è visto sopra, in assenza di una definizione normativa univoca di “settore delle comunicazioni elettroniche”, l’AGCOM ha interpretato il TUSMAR nel senso che non tutti i mercati delle comunicazioni elettroniche concorrano a comporre tale settore, escludendo i mercati emergenti e quelli che, all’esito di analisi, sono risultati concorrenziali.

Il Governo italiano ha eccepito il carattere meramente ipotetico della questione sollevata dal TAR relativa alla definizione del settore delle comunicazioni elettroniche, in quanto, ove anche fosse stata adottata la nozione più ampia di settore delle comunicazioni elettroniche, ricomprendendovi tutti i mercati, in ogni caso la quota di ricavi conseguita da Telecom (e quindi di Vivendi) sarebbe stata di gran lunga superiore al 40% del totale dei ricavi dell’intero settore (più precisamente, tale quota si sarebbe attestata al 45,9%).

La Corte invece considera la questione ricevibile, in quanto a suo avviso il giudice del rinvio chiede se l’esistenza stessa della soglia del 40% sia compatibile con il diritto dell’Unione.

Nel merito, la Corte fa proprie le considerazioni dell’Avvocato Generale, secondo cui la normativa italiana, come interpretata dall’AGCOM, nell’adottare una definizione restrittiva di settore delle comunicazioni elettroniche, che ne circoscrive l’ambito ai mercati suscettibili di regolamentazione ex ante, si rivela inidonea a perseguire lo scopo della tutela del pluralismo. Una siffatta definizione, infatti, esclude ingiustificatamente dal settore delle comunicazioni elettroniche mercati di sicura rilevanza ai fini della diffusione delle informazioni, quali i mercati dei servizi al dettaglio di telefonia mobile, dei servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet e dei servizi di radiodiffusione satellitare.

  • L’equiparazione tra società “collegate” e società “controllate” è disfunzionale

Ai fini del computo dei ricavi conseguiti nel SIC e nel settore delle comunicazioni elettroniche, la legge italiana prende in considerazione non solo i ricavi realizzati tramite società “controllate”, ma anche quelli realizzati tramite società “collegate”, sulle quali l’impresa interessata esercita un’“influenza notevole”.

La Corte di giustizia, anche qui riprendendo uno spunto dell’Avvocato Generale Campos Sánchez-Bordona, ritiene che tale approccio sia inadeguato, in quanto consente duplicazioni di calcolo: «i medesimi ricavi di una società attiva nel SIC potrebbero essere presi in considerazione sia per il calcolo dei ricavi di un’impresa che è sua azionista di minoranza, sia per il calcolo dei ricavi di un’impresa che è suo azionista di maggioranza ed esercita su di essa un controllo effettivo»[29].

Inoltre, ai sensi dell’art. 2359, c. 3, c.c. l’influenza notevole si presume quando una società può esercitare un quinto dei voti nell’assemblea ordinaria di un’altra società (un decimo, in caso di società quotate). Secondo la Corte, le circostanze poste a fondamento di tale presunzione non sono idonee a dimostrare che la prima società possa esercitare sulla seconda un’influenza tale da pregiudicare il pluralismo dell’informazione. Ciò risulta evidente nel caso di Vivendi, che ai fini del calcolo della posizione nel SIC si è vista imputare tutti i ricavi di Mediaset, sebbene quest’ultima fosse controllata da Fininvest (le cui posizioni erano in contrasto con quelle di Vivendi) e quindi l’influenza esercitabile dalla società francese fosse assai limitata.

  • Il superamento delle soglie del SIC non è indicativo di un rischio per il pluralismo

Il settore dei servizi di comunicazione elettronica e il settore dei media sono contigui, quindi secondo la Corte «si può in linea di principio accettare che vengano posti limiti alla possibilità per le imprese che già occupano una «posizione dominante» nel primo di tali settori di approfittare di tale posizione per rafforzare la loro posizione nel secondo»[30]. Le imprese che detengono una posizione qualificata nel settore delle telecomunicazioni possono quindi essere assoggettate a limiti più stringenti a tutela del pluralismo dei media[31], secondo l’impostazione dell’art. 43, c. 11, del TUSMAR.

Tuttavia, la Corte ritiene che un profilo critico di detto articolo risieda nel fatto che esso trascura il ruolo dell’impresa che supera le soglie: risulta irrilevante, ai fini della disciplina italiana, se l’impresa eserciti un controllo editoriale sui contenuti. Le soglie fissate dalla legge italiana sono rigide: si «vieta in maniera assoluta»[32] a chi detenga il 40% dei ricavi del settore delle comunicazioni elettroniche, di conseguire più del 10% dei ricavi del SIC, indipendentemente dalle attività concretamente svolte dall’impresa in questione e dalle sinergie tra dette attività[33] e, in ultima istanza, senza avere riguardo all’effettivo prodursi di conseguenze pregiudizievoli per il pluralismo.

Soprattutto, a giudizio della Corte il SIC, a causa della sua ampiezza e dell’eterogeneità dei mercati che lo compongono[34], è inidoneo a garantire un assetto pluralistico dei media: «il fatto di conseguire o meno ricavi equivalenti al 10% dei ricavi complessivi del SIC non è di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media. Infatti, […] nel caso in cui la soglia del 10% dei ricavi complessivi del SIC fosse sì raggiunta, ma tale 10% di ricavi si ripartisse tra ciascuno dei mercati che compongono il SIC, né il raggiungimento né lo sforamento di tale soglia del 10% costituirebbero necessariamente un pericolo per il pluralismo dei media»[35]. Viceversa, qualora un’impresa si collocasse ben al di sotto del 10% del SIC, ma concentrasse i propri ricavi in un unico mercato, essa potrebbe costituire una ben più seria minaccia al pluralismo, eppure sfuggirebbe alle maglie della legge[36].

  1. La sentenza del TAR Lazio

Con sentenza n. 13958 del 16 dicembre 2020, depositata il 23 dicembre 2020, il TAR Lazio ha accolto il ricorso di Vivendi e ha annullato la delibera n. 178/17/CONS dell’AGCOM.

Il TAR ripercorre le argomentazioni della sentenza della Corte di giustizia, compendiandone in tre pagine i passaggi principali e richiamandosi costantemente ad essa in tutti gli snodi della motivazione.

Sia l’Avvocatura di Stato, in difesa dell’AGCOM, sia Mediaset avevano sollecitato il TAR ad adottare un’interpretazione conforme del diritto interno rispetto alla normativa eurounitaria. L’Avvocatura, in particolare, aveva evidenziato come nel caso di specie non fosse possibile applicare direttamente la norma europea violata, quindi, una volta disapplicata la norma italiana incompatibile, occorresse colmare la lacuna determinata da tale disapplicazione, individuando la regola del caso concreto.

Il TAR ritiene che la strada dell’interpretazione conforme non sia percorribile, essendo preclusa dalla motivazione stringente della sentenza della Corte di giustizia: sebbene il ruolo di esclusivo decisore del caso concreto spetti al giudice nazionale, quest’ultimo «è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte [e]non può prescindere dal percorso motivazionale fornito dal Giudice comunitario nella sua interpretazione pregiudiziale, specie nei casi in cui – come nella specie – le considerazioni svolte dalla Corte di Giustizia siano fortemente attinenti alla fattispecie concreta»[37]. Pertanto, il collegio giudicante conviene con Vivendi circa la necessità di operare una piena disapplicazione dell’art. 43, c. 11, del TUSMAR, senza possibilità di “svicolare” o attardarsi in alchimie ermeneutiche, alla luce della «inidoneità della norma interna a costituire un proporzionale contemperamento tra la libertà di stabilimento e il principio del pluralismo nel settore dell’informazione»[38] asseverata dai giudici di Lussemburgo.

Abbracciata questa opzione e quindi disapplicata retroattivamente la norma che attribuiva all’AGCOM il potere di emettere il provvedimento impugnato, l’annullamento di quest’ultimo è una conseguenza ovvia.

  1. Quale tutela per il pluralismo dell’informazione?

Sia la Corte di giustizia che il TAR Lazio hanno assunto decisioni che, al netto di qualche sfumatura, sono essenzialmente condivisibili. Si deve consentire che l’art. 43, c. 11, del TUSMAR appresta un meccanismo inadeguato alla tutela del pluralismo dell’informazione e questa inadeguatezza si traduce in incompatibilità con il diritto dell’Unione (nonché, sia lecito aggiungere, con la Costituzione italiana, come si è detto brevemente in apertura di queste note). Dalla conclamata illegittimità dell’art. 43, c. 11, discende in modo congruente l’annullamento del provvedimento dell’AGCOM che ne faceva applicazione.

C’era spazio per una lettura alternativa? Dalla disposizione poteva estrarsi un contenuto normativo che non collidesse con la libertà di stabilimento? Probabilmente un esercizio in tal senso poteva essere svolto utilmente ai margini, ma il nucleo della norma era irrimediabilmente viziato.

  • Correttivi all’interpretazione della locuzione “settore delle comunicazioni elettroniche”

La definizione del perimetro del settore delle comunicazioni elettroniche poteva essere agevolmente ricalibrata in sede interpretativa, come proposto da Mediaset: un approccio più inclusivo era possibile senza recare violenza al dato testuale, che certamente richiama l’art. 18 del codice delle comunicazioni elettroniche, ma neanche dopo tale richiamo punta univocamente ai soli mercati atti a costituire oggetto di regolazione ex ante. Un’integrazione del settore delle comunicazioni elettroniche secondo il verso suggerito dall’Avvocato Generale non era preclusa al TAR (anche se, vedremo fra un momento, concedere questo punto alle resistenti ai fini pratici non avrebbe condotto a un diverso esito del giudizio).

Quanto alla valutazione che dello stesso settore ha compiuto AGCOM, merita adesione la notazione di Orofino secondo cui «bisogna riconoscere che l’interpretazione “restrittiva” di AGCOM ha una sua ragion d’essere nel fatto che la direttiva 21/2002 richiede con molta chiarezza che non vengano sottoposti a misure regolamentari i mercati concorrenziali. Per cui AGCOM potrebbe essersi legittimamente chiesta se il calcolo dei ricavi esteso ai mercati non regolamentati avrebbe potuto determinare una violazione delle regole europee in materia di comunicazioni elettroniche»[39]. La giurisprudenza della Corte di giustizia è finora stata assai rigorosa nel preservare i fornitori di servizi di comunicazione elettronica da qualunque interferenza regolamentare e più in generale da qualunque forma di imposizione che non fosse saldamente radicata nel pacchetto delle direttive che disciplinano la materia. Non è escluso che la stessa Corte che oggi – «solo ai fini però del presente giudizio»[40] – ritiene l’inclusione di altri mercati una soluzione obbligata, avrebbe fornito una indicazione diametralmente opposta qualora AGCOM avesse adottato una nozione ampia di settore delle comunicazioni elettroniche, così assoggettando anche imprese di telecomunicazioni che operano in mercati concorrenziali a più stringenti limiti da rispettare nel SIC.

  • Correttivi all’interpretazione della locuzione “società collegate”

In relazione alla nozione di collegamento tra società, la Corte di giustizia coglie sicuramente nel segno allorché denuncia l’intrinseca sproporzionalità dell’attribuzione a Vivendi dei ricavi realizzati da una società pienamente sotto il controllo di un azionista rivale.

Nel corso dell’istruttoria condotta dall’AGCOM, Vivendi ha sostenuto che la nozione di “società collegate” ex art. 43, c. 11, del TUSMAR non coincida con quella dell’art. 2359, c. 3, c.c.: quest’ultima disposizione non è richiamata dal c. 11, inoltre nel diritto della concorrenza l’imputazione dei ricavi di una società a un’altra società è possibile solo in presenza di un’influenza dominante, per cui il concetto di collegamento dell’art. 43, c. 11 dovrebbe essere interpretato come sinonimo di controllo.

L’AGCOM ha rigettato la tesi di Vivendi, per tre ordini di ragioni. In primo luogo, l’Autorità ha ritenuto di non poter trascurare il tenore letterale della disposizione in esame, che parla chiaramente di “società controllate o collegate”, espressione che implica un’alterità tra le nozioni di controllo e collegamento: ricondurre l’intera previsione al concetto di controllo proprio della disciplina antitrust, come suggerito da Vivendi, si sarebbe risolto in un’interpretatio abrogans, che avrebbe posto in non cale una precisa indicazione del legislatore. Non solo: l’AGCOM ha rimarcato che la tutela del pluralismo non è riducibile alla tutela della concorrenza. Infine, ha sottolineato che l’art. 2359 c.c., «oltre ad essere esplicitamente menzionato in altri commi dell’articolo 43, si configura come norma di diritto comune, avente, come tale, una portata di carattere generale»[41].

Si intuisce come l’ultimo argomento affondi le proprie radici in un’approfondita analisi degli studi di diritto societario in materia di controllo e collegamento: sebbene la delibera non contenga rimandi a contributi dottrinali, la terminologia usata riecheggia la letteratura che qualifica l’art. 2359 c.c. come norma «di diritto comune» avente «valenza generale» (alla quale deve farsi riferimento ogni qual volta la legge evochi il concetto di controllo senza fornire ulteriori specifiche)[42], nonché avente una «valenza armonizzatrice» (ossia idonea a fungere da criterio guida per l’interpretazione delle norme settoriali)[43]. Anche la dottrina di diverso avviso, incline a negare che la previsione codicistica abbia valenza generale e ad attribuirle piuttosto una portata solo residuale, nondimeno riconosce che «quando il legislatore parla genericamente di società controllate e collegate, [è] possibile ed anzi doveroso far capo all’art. 2359 c.c.»[44].

Non c’è, quindi, spazio per un’interpretazione conforme?

Ancor prima della sentenza della Corte di giustizia e delle conclusioni dell’Avvocato Generale, dottrina di matrice privatistica aveva sottoposto a severo scrutinio le argomentazioni dell’AGCOM[45], sostenendo, tra le altre cose, che (i) non è «logicamente ipotizzabile che su di una medesima società possano coesistere un rapporto di controllo, ancorché interno di fatto, e un rapporto di collegamento»[46]; (ii) ai fini dell’accertamento di una situazione di collegamento non rilevano gli equilibri di potere nell’assemblea straordinaria, perché deve aversi riguardo solo ai voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, né rileva la presenza di amministratori e sindaci espressione della minoranza, essendo questa prescritta dalla legge nel caso di società quotate[47]; (iii) il collegamento indiretto non è contemplato dall’art. 43 TUSMAR e comunque non è scontato che l’influenza notevole, che è attenuata rispetto a quella dominante, possa propagarsi alle società che si situano a valle della collegata[48].

Per la verità, l’AGCOM, nell’escludere una ontologica incompatibilità tra controllo e collegamento, ha adottato una posizione coerente con gli IAS-International Accounting Standards e gli orientamenti della CONSOB, che ritengono possibile la coesistenza, nella stessa società, della posizione di controllo di un socio e dell’esercizio di influenza notevole da parte di un altro socio, traendo elementi anche dalla presenza di meccanismi che assicurano la rappresentanza nel consiglio di amministrazione ai soci detentori di una minoranza qualificata[49]. Inoltre, assegnare rilievo al collegamento indiretto sembra coerente con la formulazione ampia dell’art. 43 TUSMAR e con l’esigenza di evitare facili elusioni delle soglie di concentrazione; del resto, è difficile sostenere che una società che eserciti un’influenza notevole su Mediaset non abbia la capacità di condizionare o comunque interferire con le decisioni delle società controllate al 100% da Mediaset, quali RTI S.p.A. (emittente che trasmette numerosi canali televisivi) e Publitalia ’80 S.p.A. (concessionaria leader nel mercato della raccolta pubblicitaria).

Sembra piuttosto che l’aspetto della ricostruzione dell’AGCOM suscettibile di revisione sia non già la configurabilità in astratto di un collegamento tra Vivendi e Mediaset e la possibilità che l’influenza di Vivendi si comunichi alle società del gruppo Mediaset operanti nel SIC, quanto il ricorrere in concreto di circostanze che consentissero di inferire che la società francese era in grado di esercitare un’influenza notevole sulla holding italiana. La Corte di giustizia ha affermato che «in una situazione come quella» in esame, equiparare la situazione di una società controllata a quella di una società collegata sia irragionevole, ma fa discendere tale irragionevolezza dal fatto che la valutazione dell’influenza è basata su una “presunzione ampia”, legata alla consistenza del pacchetto azionario, anziché essere valutata in concreto («dimostrare che la prima società possa concretamente esercitare sulla seconda un’influenza tale da pregiudicare il pluralismo dei media e dell’informazione»[50]). Si è trascurato di considerare che la presunzione di collegamento che l’art. 2359, c. 3, c.c. riconduce all’esercizio di un decimo dei voti nell’assemblea ordinaria di una società quotata non è una presunzione iuris et de iure, bensì una presunzione iuris tantum[51], che ammette prova del contrario. Nel caso di specie, la presunzione relativa poteva considerarsi vinta dalla congerie di circostanze che militavano nel senso della sterilizzazione della capacità di Vivendi di esercitare in concreto un’influenza notevole. Tali circostanze erano individuabili nella forte concentrazione del capitale di Mediaset nelle mani di Fininvest, che detiene un controllo interno di fatto, e nella radicale divergenza di strategie (anzi, nell’aperta conflittualità) tra Vivendi e Fininvest, tale da non consentire di ipotizzare alcun coordinamento o comunque alcuna forma di collaborazione o di possibile influenza da parte di Vivendi, fosse pure nella forma di semplice “suggeritore”[52]. In conclusione, all’irragionevolezza, segnalata dalla Corte di giustizia, dell’imputazione a Vivendi dei ricavi conseguiti da Mediaset nel SIC, si poteva rimediare riconoscendo che Vivendi non è detentrice di un reale potere di indirizzare le strategie di Mediaset, essendo quest’ultima controllata da Fininvest, per cui la presunzione di collegamento cadeva a fronte delle circostanze fattuali che escludevano l’esercizio di influenza notevole.

  • Il SIC è uno strumento inadeguato alla tutela del pluralismo

Si è detto che la strada dell’interpretazione conforme era percorribile rispetto alla definizione del settore delle comunicazioni elettroniche e al collegamento. Tuttavia, tale interpretazione non sarebbe valsa a fare salvo l’art. 43, c. 11, del TUSMAR, che è affetto da un vizio di legittimità non rimediabile per via esegetica.

Occorre sgombrare il campo da un equivoco che potrebbe essere ingenerato da un passaggio della sentenza del TAR Lazio: il vizio non si annida nella percentuale, bensì nel SIC. Il TAR rileva che «la motivazione della pronunzia del Giudice Comunitario […] contesta expressis verbis la previsione della soglia del 10% in parola e – in definitiva – la sua idoneità a costituire efficace baluardo del pluralismo nei mezzi di informazione, affermando (paragrafo 75)»[53]. In realtà, questa lettura dei giudici amministrativi non è convincente: la censura della Corte non attinge la quota, bensì la base di calcolo su cui la quota è costruita, ossia il SIC[54].

Nulla della motivazione conduce alla conclusione che una percentuale diversa sarebbe stata conforme a diritto: se invece del 10% la quota fosse stata fissata al 12% o all’8%, le riserve sarebbero rimaste intatte, perché il baco è alla radice, è il SIC in sé ad essere inconciliabile con il principio di proporzionalità, esattamente per le stesse ragioni che lo rendono non conforme a Costituzione. Che la critica si appunti sul meccanismo e non alla misura della percentuale risulta evidente dal paragrafo 75 della sentenza della Corte di giustizia: «nel caso in cui la soglia del 10% dei ricavi complessivi del SIC fosse sì raggiunta, ma tale 10% di ricavi si ripartisse tra ciascuno dei mercati che compongono il SIC, né il raggiungimento né lo sforamento di tale soglia del 10% costituirebbero necessariamente un pericolo per il pluralismo dei media».

  • La tutela del pluralismo alla ricerca della propria identità

La disciplina italiana a tutela del pluralismo dell’informazione ha sempre attraversato vicende travagliate: da quarant’anni ormai, da quando la già richiamata sentenza n. 148 del 1981 della Corte costituzionale ha indicato la necessità di adottare efficaci misure dirette a impedire concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche nel settore televisivo, il legislatore italiano non è riuscito a concepire un presidio normativo idoneo allo scopo e che non incorresse in censure di illegittimità[55]. Anche la legge Gasparri – trasfusa nel TUSMAR –, come si è ricordato nella prima pagina di queste note, è stata, sin dal principio, oggetto di asperrime e diffusissime critiche da parte della dottrina. Tali critiche non erano fuori bersaglio: al primo banco di prova, il SIC ha fallito. Ancora una volta, quindi, la normativa sul pluralismo ha dato pessima prova di sé.

La sentenza della Corte di giustizia qui commentata sollecita un intervento legislativo: si deve auspicare che non ci si limiti a un’azione chirurgica, di mera manutenzione, che espunga solo quanto è stato affrontato dappresso dalla Corte; al contrario, servirebbe un cambio di passo, una radicale discontinuità. Tra l’altro, mai declaratoria di illegittimità conobbe tempismo migliore: al momento in cui si licenzia questo scritto, il Parlamento è in procinto di approvare la legge di delegazione europea 2019-2020, che tra i principi e criteri direttivi della delega al Governo per il recepimento della direttiva sui servizi di media audiovisivi[56] annovera «riordinare le disposizioni del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, attraverso l’emanazione di un nuovo testo unico dei servizi di media digitali»[57], così offrendo l’occasione propizia per ripensare complessivamente la materia.

Certo, il compito che attende il legislatore non è affatto semplice, anzi, è di quelli che fanno tremar le vene e i polsi. Se è facile rilevare l’inadeguatezza del modello attuale, disegnarne uno di nuova concezione è esercizio assai ostico, anche perché si può fare affidamento sul retroterra dottrinale e giurisprudenziale assai meno di quanto fosse possibile fino a venti anni or sono[58].

Provando a identificare alcune concrete linee di azione, la prima sarebbe ovviamente la definitiva archiviazione del SIC. Il che non significa rinunciare all’imposizione, a carico di soggetti che detengano posizioni di grande forza in un mercato, di limiti ad operare in mercati contigui. Né tanto meno significa disconoscere antistoricamente gli effetti della convergenza[59]: al contrario, si vuole evitare la surrettizia diluizione nel SIC di posizioni potenzialmente lesive del pluralismo formatesi nell’“ecosistema digitale”[60] mediante concentrazioni multimediali. Il superamento del SIC è un esito niente affatto scontato. Vale infatti per il SIC ciò che talvolta accade con certi programmi scolastici tralatizi, che si perpetuano pigramente non perché qualcuno sia convinto della loro perdurante attualità, ma solo perché così ci sono stati tramandati e rinnovarli chiederebbe uno sforzo di idee e fantasia che costerebbe tempo e fatica (a tacer della visione culturale) e che quindi risulta incompatibile con i tempi sincopati imposti dalle agende politiche. Che il SIC sia duro da sradicare è dimostrato anche dalla recentissima novella che, in via d’urgenza e con l’intenzione espressamente professata di recepire le indicazioni della Corte di giustizia, ha affidato all’AGCOM lo svolgimento di un’istruttoria «nel caso in cui un soggetto operi contemporaneamente nei mercati delle comunicazioni elettroniche e in un mercato diverso, ricadente nel sistema integrato delle comunicazioni (SIC)»[61].

In secondo luogo, pare evidente che serie misure a tutela del pluralismo non possano obliterare le posizioni di collegamento. Un vulnus all’assetto pluralistico può derivare anche da situazioni in cui il controllo è assente: si pensi al soggetto che oltre ad essere editore di alcuni giornali detenga anche una partecipazione in un’emittente televisiva, tale per cui non possa controllare detta emittente, ma possa episodicamente, magari su alcune questioni nevralgiche (es.: in occasione di un referendum o di un appuntamento elettorale), contribuire con altri soci a orientarne le posizioni in modo che esse siano sinergiche a quelle assunte dai giornali saldamente controllati dallo stesso soggetto. Non sembra che vi sia nulla di irragionevole in una norma che consideri due società, fra loro collegate, come un unico centro di potere da sorvegliare ed eventualmente su cui intervenire per stemperarne la capacità di incidere sull’opinione pubblica. Né sembra che tale esigenza sia inconciliabile con il dictum della Corte di giustizia: era irragionevole imputare a Vivendi integralmente il fatturato del gruppo Mediaset postulando un’influenza notevole di cui, in concreto, la società francese era priva, ma come si è detto sopra questo problema è rimediabile già a norme invariate. Resta il tema del “double counting”: la Corte ha segnalato che i medesimi ricavi di una società potrebbero essere imputati contemporaneamente sia al soggetto che esercita il controllo sulla società sia a quello che detiene una partecipazione di minoranza qualificata. Una soluzione agevole sarebbe quella richiamata supra, al §6.2, in nota: già in sede di interpretazione del diritto vigente, basterebbe accedere alla tesi secondo cui non si può ravvisare esercizio, da parte di un azionista di minoranza, di influenza notevole quando la società sia controllata, anche solo in via di fatto, da un altro azionista. Un’alternativa, meno attraente, sarebbe quella di prevedere che i ricavi della società partecipata vengano imputati agli azionisti pro quota, come suggerito da Guizzi[62]. Oppure, seguendo una strada più ambiziosa ma anche più impervia, si potrebbe riflettere su una rimodulazione del testo normativo, che non faccia più riferimento al “conseguimento di ricavi” e che invece, al ricorrere di determinate condizioni (es.: contemporaneo controllo di altri mezzi di comunicazione), limiti l’esercizio di influenza (anche solo) notevole su società di determinate dimensioni. Un divieto di partecipazioni incrociate costruito senza imputare artificialmente ad un’impresa ricavi che essa non consegue sarebbe probabilmente più lineare; per converso, la controindicazione è che potrebbe apparire come un maquillage lessicale diretto sostanzialmente a riproporre, sotto nuove spoglie, il meccanismo cassato dalla Corte di giustizia[63].

Terzo: è necessario che rilevi il collegamento indiretto. Potrebbe quindi essere recuperato l’approccio dell’abrogato art. 37 della legge Mammì[64] che dava rilievo a controllo e collegamento «ancorché tal rapporti siano realizzati congiuntamente con altri soggetti tramite società direttamente o indirettamente controllate o tramite intestazione fiduciaria o mediante accordi parasociali».

Ancora: la revisione, a sommesso avviso di chi scrive, va estesa all’intero art. 43 del TUSMAR, che appresta un sistema pletorico quanto inefficace, in cui alla sovrabbondanza di limiti ex ante non corrisponde un efficace contenimento delle posizioni potenzialmente lesive del pluralismo[65]. I diversi commi di cui si compone questo articolo ripropongono un florilegio di strumenti del passato malamente riattati al contesto digitale. Questo sin troppo articolato mosaico di vincoli potrebbe essere razionalizzato, individuando nuovi (e forse anche meno numerosi) strumenti. Si potrebbero considerare, sottoponendole a vaglio critico diretto a valutarne l’attualità e a selezionare quelle più consone al contesto italiano, le numerose proposte avanzate in passato: limiti alle risorse frequenziali controllate[66] o alla capacità trasmissiva utilizzata[67], limiti anticoncentrazione che tengano conto dell’audience[68] (soluzione indicata come opportuna anche da autorevole dottrina[69]), introduzione di parametri qualitativi oltre che quantitativi[70], disciplina in funzione pro-pluralistica delle guide elettroniche ai programmi (EPG) e dell’ordinamento automatico dei canali digitali terrestri (LCN)[71], limiti alla raccolta di risorse pubblicitarie[72], altre misure mutuabili da esperienze straniere.

Infine, e più in generale, questa vicenda conferma come alla solenne proclamazione del valore del pluralismo faccia da contraltare un’enorme incertezza circa gli strumenti che dovrebbero garantirlo. Un limite che presenta l’ordinamento è la carenza di punti di riferimento certi intorno ai quali costruire soluzioni normative dirette ad assicurare la piena realizzazione del principio pluralistico nel settore dei media. A livello assiologico, la centralità del pluralismo dell’informazione è un dato ineludibile, ma quando si tratta di abbandonare le generiche intenzioni per dar corpo a questi principi, introducendo obblighi e limiti puntuali, per una sorta di riflesso pavloviano si rifluisce sovente nelle categorie della tutela della concorrenza. Che l’attrezzatura concettuale della tutela del pluralismo debba essere mutuata dall’antitrust è un’opzione che va rifiutata per ragioni di cultura costituzionale: la tutela del pluralismo non è riducibile alla tutela della concorrenza. Occorre quindi superare questo retaggio di sudditanza che si manifesta, ad esempio, nelle continue commistioni fra antitrust e pluralismo che emergono anche dagli argomenti difensivi delle parti coinvolte nel procedimento Vivendi. È consapevole dello statuto di autonomia del pluralismo la posizione espressa dall’AGCOM, secondo cui «la concorrenza viene considerata dal legislatore come uno strumento per il raggiungimento del pluralismo dei mezzi di comunicazione, ossia un “bene giuridico che da primario diventa strumentale al perseguimento ed alla garanzia di un altro bene costituzionalmente garantito”, e ciò in considerazione del fatto che non sempre l’utilizzo delle regole proprie del diritto antitrust può ritenersi sufficiente per il raggiungimento di tale l’obiettivo»[73]. L’Autorità non potrebbe d’altronde fare di più, dal momento che, nel motivare i suoi provvedimenti, è imbrigliata dal dettato legislativo, nel quale si scorgono continui rimandi alla disciplina della concorrenza, a rivelare quella sorta di condizione di minorità: l’art. 43, c. 2, del TUSMAR fa riferimento a “mercato rilevante”, agli “articoli 15 e 16 della direttiva 2002/21/CE”, alle “posizioni dominanti”. A questo si aggiunga che l’apparato concettuale del diritto della concorrenza è innegabilmente molto sofisticato e per questo idoneo a conferire maggiore rigore e solidità alle decisioni fondate sullo stesso. Tuttavia, anche l’idea della strumentalità della concorrenza rispetto alla tutela del pluralismo va rifiutata sul piano dommatico: pluralismo e concorrenza sono istanze diverse, che perseguono fini diversi e sono riconducibili a referenti costituzionali diversi (l’art. 41 Cost. per la concorrenza, l’art. 21 Cost. per il pluralismo dell’informazione), quindi rispondono a logiche disomogenee tra loro. Sul settore dei media, attese le sue peculiarità, insistono entrambe le istanze: alla tutela della concorrenza, trasversale a tutti i settori economici, si affianca e sovrappone l’esigenza di garantire il (superiore) valore del pluralismo[74]. Ne consegue che utilizzare gli strumenti approntati per la tutela della concorrenza al fine di garantire anche il pluralismo produce quale risultato una protezione inefficace di tale ultimo valore, in quanto viene piegato a quel fine un apparato concepito per uno scopo eterogeneo. È auspicabile quindi che dal TUSMAR vengano espunti i riferimenti a concetti propri del diritto della concorrenza[75] e che la disciplina a tutela del pluralismo si riappropri di un’identità che è nel tempo scolorita, fino quasi a smarrirsi. Non sarà un percorso breve, che possa esaurirsi nello spazio dei pochi mesi che saranno dedicati alla stesura del nuovo TUSMAR, ma occorre mettersi in cammino, avviare uno sforzo di elaborazione che consenta al pluralismo di divincolarsi dall’abbraccio soffocante dell’antitrust.

 

[1] Corte cost., 14 luglio 1988, n. 826.

[2] La Corte si limitò a rivolgere un monito al legislatore sulla necessità di un rapido intervento.

[3] Contenute nel d.l. 6 dicembre 1984, n. 807, convertito in legge 4 febbraio 1985, n. 10.

[4] Tutte le emittenti private nazionali sino a quel momento avevano operato in violazione di legge, essendo la radiodiffusione in ambito nazionale riservata alla RAI.

[5] La cui adozione era indefettibilmente richiesta da Corte cost., 14 luglio 1981, n. 148.

[6] Il riferimento è ovviamente a Cronaca di una morte annunciata, pubblicato nel 1981 (in Italia nel 1982, dalla Arnoldo Mondadori Editore).

[7] R. Borrello, Cronaca di un’incostituzionalità annunciata (ma non dichiarata), in Giurisprudenza costituzionale, 1988, 3950 ss. La stessa formula è stata adoperata da G. Votano, Concentrazioni televisive: cronaca di una incostituzionalità annunciata, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1995, 316 ss., in relazione ad un capitolo successivo della lunga saga che ha visto la Consulta occuparsi dell’incostituzionalità delle norme che si sono succedute in materia di pluralismo televisivo (per una ricostruzione di tale saga, si rinvia a G.E. Vigevani – O. Pollicino – C. Melzi d’Eril – M. Cuniberti – M. Bassini, Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 355 ss.).

[8] Al presente scritto era stato imposto per titolo “SIC transit”, lapidario non solo nell’accezione di conciso, ma anche perché stava a significare che la sentenza della Corte di giustizia ha determinato (rectius, dovrebbe determinare, ove il legislatore ne traesse le conseguenze nel modo più coerente) il trapasso del controverso istituto del SIC. Nelle more, però, è stato pubblicato il saggio del vicedirettore di questa Rivista, M. Orofino, SIC… transit gloria mundi. La Corte di giustizia dichiara le soglie asimmetriche del sistema integrato delle comunicazioni incompatibili con la libertà di stabilimento (Corte di giustizia dell’Unione europea Quinta Sezione, Sentenza 3 settembre 2020 – causa C-719/18 – Vivendi SA v. Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e Mediaset), in Osservatorio costituzionale, 6, 2020, 201 ss., per cui si è ripiegato sul titolo che si può leggere in apertura di pagina, meno perentorio del precedente, anche perché medio tempore la legge 27 novembre 2020, n. 159, di conversione del d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, ha introdotto in quest’ultimo l’art. 4 bis, che, pur proclamandosi «in armonia con i principi di cui alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 3 settembre 2020, nella causa C-719/ 18», continua a far riferimento al SIC.

[9] Introdotto dalla legge 3 maggio 2004, n. 112, c.d. legge Gasparri, il SIC è definito come «il settore economico che comprende le seguenti attività: stampa quotidiana e periodica; editoria annuaristica ed elettronica anche per il tramite di Internet; radio e servizi di media audiovisivi; cinema; pubblicità esterna; iniziative di comunicazione di prodotti e servizi; sponsorizzazioni» (art. 2, c. 1, lett. s) del d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177, TUSMAR). L’art. 43, c. 10, del TUSMAR elenca le diverse tipologie di ricavo rilevanti ai fini della quantificazione del SIC.

[10] Sia consentito rinviare a E. Apa, Osservazioni sul disegno di legge sulla disciplina del settore radiotelevisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale, in Astrid – Rassegna, 53, 2007, 14.

[11] Cfr., ex plurimis, le critiche mosse da A. Pace, Legge Gasparri e Corte costituzionale, Relazione introduttiva all’Incontro di studi su Il sistema radiotelevisivo italiano e la legalità europea, tenuto a Napoli il 2 luglio 2004, 31 s., R. Mastroianni, Riforma del sistema radiotelevisivo italiano e diritto europeo, Torino, 2004, 62 ss., O. Grandinetti, La riforma Gasparri del sistema radiotelevisivo, in Giornale di diritto amministrativo, 11/2004, 1190 s.; contra, sostanzialmente in difesa del SIC, A. Frignani, La concorrenza, in A. Frignani – E. Poddighe – V. Zeno-Zencovich (a cura di), La televisione digitale: temi e problemi, Milano, 2006, 272 ss.

[12] Altro aspetto della legge Gasparri censuato dalla Corte di giustizia (sentenza del 31 gennaio 2008, C-380/05, Centro Europa 7), oltre che alla Commissione europea (parere motivato del 18 luglio 2007, reso nell’ambito della procedura d’infrazione 2005/5086) e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza del 7 giugno 2012, Ricorso n. 38433/09, Centro Europa 7 S.r.l. and Di Stefano v. Italy), è stato il “generale assentimento” che ha consentito ai soggetti che a qualunque titolo esercivano reti radiotelevisive – essendo indifferente che tali reti avessero ricevuto una concessione o operassero in regime di proroga o sospensiva – di continuare ad utilizzare le frequenze occupate. Sulla saga giudiziaria di Centro Europa 7, cfr. O. Pollicino, Has the never-ending Europa 7 saga finally ended? A guide to understand how the Italian audiovisual conundrum has been able to make our Nation sadly famous not only in Luxemburg, but also in Strasbourg, in medialaws.eu, 21 giugno 2012.

[13] Cfr. l’audizione del 12 dicembre 2002 dell’allora presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, prof. Enzo Cheli, davanti alle Commissioni riunite VII e IX della Camera dei Deputati, nonché la segnalazione AS 247 del 19 dicembre 2002 dell’allora presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, prof. Giuseppe Tesauro, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle Comunicazioni.

[14] Profili di illegittimità comunitaria erano stati segnalati, tra gli altri, da G. De Minico, Il disegno di legge Gentiloni sulla disciplina del settore televisivo: luci e ombre, in Astrid, 4 ss., richiamandosi ad A. Pace – M. Manetti, Rapporti civili – La libertà di manifestazione del pensiero, in Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 2006, 66 ss.

[15] Per maggior dettagli si veda M. Orofino, SIC, cit., 207 ss.

[16] Per reagire alla scalata, Fininvest acquistava altre azioni Mediaset, incrementando il proprio pacchetto dal 34% al 39,53%, pari al 41,09% dei diritti di voto esercitabili.

[17] D.lgs. 31 luglio 2005, n. 177.

[18] L’esposto era stato presentato ai sensi dell’art. 43, c. 2, del TUSMAR, «[l’]Autorità, su segnalazione di chi vi abbia interesse o, periodicamente, d’ufficio, individuato il mercato rilevante conformemente ai principi di cui agli articoli 15 e 16 della direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, verifica che non si costituiscano, nel sistema integrato delle comunicazioni e nei mercati che lo compongono, posizioni dominanti e che siano rispettati i limiti di cui ai commi 7, 8, 9, 10, 11 e 12, tenendo conto, fra l’altro, oltre che dei ricavi, del livello di concorrenza all’interno del sistema, delle barriere all’ingresso nello stesso, delle dimensioni di efficienza economica dell’impresa nonché degli indici quantitativi di diffusione dei programmi radiotelevisivi, dei prodotti editoriali e delle opere cinematografiche o fonografiche».

[19] L’avvio del procedimento istruttorio era stato disposto con delibera n. 654/16/CONS del 21 dicembre 2016.

[20] Ai sensi del quale «[f]ermo restando il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni, i soggetti tenuti all’iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione costituito ai sensi dell’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della legge 31 luglio 1997, n. 249, non possono né direttamente, né attraverso soggetti controllati o collegati ai sensi dei commi 14 e 15, conseguire ricavi superiori al 20 per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni».

[21] Come accertato dall’AGCOM con delibera n. 10/17/CONS nell’ambito della periodica attività, svolta con cadenza annuale, di quantificazione del SIC e delle posizioni in esso detenute dai principali operatori.

[22] Così AGCOM, delibera n. 178/17/CONS, 41.

[23] Cfr. Commissione europea, decisione del 30 maggio 2017 nel caso M.8465, Vivendi/Telecom Italia: «even though it did not achieve a majority of votes at the shareholders’ meeting of 4 May 2017, Vivendi was still in a position to appoint the majority of the board of directors, which is in charge of taking TIM’s strategic decisions. Therefore, […] the Commission considers that, at the very latest at the shareholders’ meeting of 4 May 2017, Vivendi acquired de facto sole control of TIM»; CONSOB, comunicazione n. 0106341 del 13 settembre 2017: «a seguito dell’assemblea dei soci del 4 maggio 2017 con la quale la Vivendi ha nominato la maggioranza dei consiglieri di amministrazione di TIM – la medesima Vivendi esercita il controllo su TIM ai sensi degli artt. 2359, comma 1, n. 2, del codice civile e 93 TUF, nonché ai sensi del Regolamento Consob OPC».

[24] AGCOM, delibera n. 178/17/CONS, 7.

[25] Ivi, 38.

[26] TAR Lazio, sez. III, ord. 10654/2018, depositata il 5 novembre 2018.

[27] Cfr. F. Barzanti, La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di pluralismo dell’informazione: acquisizioni e prospettive, in R. Pisillo Mazzeschi – A. Del Vecchio – M. Manetti – P. Pustorino (a cura di), Il diritto al pluralismo dell’informazione in Europa e in Italia, Roma, 2012, 205 ss.

[28] Su pluralismo dell’informazione nel diritto dell’Unione europea e come motivo imperativo di interesse generale, si vedano R. Mastroianni, La dimension europeenne de la regulation audiovisuelle: vers une nouvelle directive sur le pluralisme de l’information?, in Astrid – Rassegna, 17, 2013, 1 ss. e P. Caretti, Pluralismo informativo e diritto comunitario, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione, Bologna, 2007, 415 ss.

[29] § 76 della sentenza; cfr. anche la nota 25 delle Conclusioni dell’Avvocato Generale.

[30] § 65 della sentenza, che riecheggia il § 74 delle Conclusioni dell’Avvocato Generale.

[31] Sembra invece radicale nell’escludere l’imposizione di limiti differenziati alle imprese che detengono una posizione qualificata nel settore delle telecomunicazioni il Prof. Giuseppe Tesauro, allora Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che nella segnalazione del 19 dicembre 2002 avente ad oggetto l’“Assetto del sistema radiotelevisivo e della società RAI – Radiotelevisione Italiana (AS 247)”, ricordata nella nota 46 delle Conclusioni dell’Avvocato Generale, afferma quanto segue: «risulta priva di una valida giustificazione la previsione di un diverso e più stringente limite, pari al 10 %, della raccolta delle risorse nel sistema integrato delle comunicazioni, in capo agli organismi i cui ricavi nel mercato dei servizi di telecomunicazioni siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale ultimo mercato. In considerazione del fatto che tale norma prevede l’applicazione di limiti più rigidi ad un operatore in virtù della sua posizione competitiva in un mercato distinto e non strettamente connesso, detta previsione appare ultronea. Le attività di un operatore in posizione dominante nel settore delle telecomunicazioni sono e devono essere regolamentate con riferimento a quello specifico comparto».

[32] § 69 della sentenza.

[33] Va però segnalato che, sia pure sinteticamente, l’AGCOM, nel proprio provvedimento, aveva evidenziato la concreta possibilità che si determinassero sinergie tra le attività di Telecom e di Mediaset: vedi delibera n. 178/17/CONS, spec. 37 e 43.

[34] Nello stesso senso, si vis, cfr. E. Apa, voce Radiotelevisione [dir. cost], in Enciclopedia Treccani “Diritto OnLine”, 2014, in treccani.it.

[35] § 75 della sentenza.

[36] Quest’ultima osservazione è in realtà macroscopicamente erronea, in quanto trascura di considerare che l’art. 43, c. 9, del TUSMAR esordisce con un chiaro «[f]ermo restando il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni».

[37] § 7.5 della sentenza.

[38] § 5.1 della sentenza.

[39] Così M. Orofino, SIC, cit., 216.

[40] Ibidem.

[41] AGCOM, delibera n. 178/17/CONS, 39.

[42] Cfr. M. Notari, La nozione di controllo nel diritto antitrust, Milano, 1996, passim e in particolare 182 ss., nonché i numerosi riferimenti dottrinali ivi citati.

[43] Cfr. ivi, 190, evidenziando anche come l’art. 2359 non si ponga in rapporto di genus a species con le norme settoriali, in quanto queste ultime descrivono fattispecie più ampie, hanno «un’estensione concettuale maggiore» (p. 199), esattamente come accade nel caso dell’art. 43 TUSMAR.

[44] Così M.S. Spolidoro, Il concetto di controllo nel codice civile e nella legge antitrust, in Rivista delle Società, 2, 1995, 477.

[45] Il riferimento è a G. Guizzi, Gli incerti confini del “collegamento societario”: l’AGCOM e il caso Vivendi/Mediaset, in il Corriere giuridico, 2017, 1033 ss.

[46] Si veda G. Guizzi, Gli incerti confini del “collegamento societario”, cit., 1037 s., che continua argomentando che «l’esistenza di un’influenza dominante, che è la posizione di potere tipica del primo, esclude e neutralizza in via di principio la possibilità di riconoscere ad altri la possibilità di esercitare quell’influenza notevole che è l’elemento essenziale e necessario per riconoscere l’esistenza del secondo».

[47] Ivi, 1038.

[48] Ivi, 1040.

[49] In questo senso si esprimono lo IAS n. 28 e l’Allegato 1 del Regolamento CONSOB n. 17221/2010, entrambi puntualmente richiamati da G. Guizzi, Gli incerti confini del “collegamento societario”, cit., 1038, in nota.

[50] § 77 della sentenza della Corte di giustizia.

[51] Cfr. D.U. Santosuosso, Sul collegamento societario nell’ambito dei poteri di fatto di società su società, in Giurisprudenza commerciale, 2002, 712 ss. e la dottrina ivi citata.

[52] D.U. Santosuosso, ivi, 716 ipotizza che un socio di minoranza possa esercitare un’influenza notevole anche solo ponendosi come suggeritore del socio di controllo e ispirandone le politiche gestionali, ove si possa constatare che i suggerimenti del socio di minoranza risultano in concreto con l’essere normalmente seguiti. La tesi della possibile coesistenza di controllo e collegamento lascerebbe in vita un residuo profilo di illegittimità della norma segnalato dalla Corte di giustizia, ossia l’eventualità che i ricavi della società del SIC siano imputati simultaneamente sia alla controllante che alla collegata. Pertanto, una interpretazione conforme dovrebbe assumere che non si possa esercitare un’influenza notevole su una società controllata da altro soggetto, secondo la tesi Guizzi ampiamente richiamata in questo paragrafo.

[53] § 7.6 della sentenza del TAR Lazio.

[54] Deve quindi piuttosto convenirsi con M. Orofino, SIC, cit., 217: «non c’è dubbio che il reasoning della Corte di giustizia metta facilmente in crisi il sistema in sé del SIC e delle soglie come strumento per tutelare il pluralismo, negando alla radice il fatto che esso sia idoneo al raggiungimento dell’obiettivo che con esso il Legislatore si prefiggeva».

[55] Per una efficace sintesi, si veda F. Donati, L’evoluzione del quadro normativo dei servizi di media audiovisivi, in Astrid – Rassegna, 2020, 1 ss.

[56] Direttiva (UE) 2018/1808 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, recante modifica della direttiva 2010/13/UE. Per un primo commento alla nuova direttiva, si veda G. Abbamonte – E. Apa – O. Pollicino (a cura di), Il nuovo quadro regolamentare europeo dell’audiovisivo, Torino, 2019.

[57] Art. 3, c. 1, lett. a) del disegno di legge recante “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2019-2020”, approvato in prima lettura dal Senato il 29 ottobre 2020 e attualmente all’esame della Camera dei deputati.

[58] Sul punto, si rinvia alle considerazioni svolte in E. Apa – O. Pollicino, Il pluralismo nel mare magnum di Internet: il faro della tradizione illumina ancora?, in C. Contessa – P. Del Vecchio (a cura di), Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, Piacenza, in corso di pubblicazione.

[59] Cfr. G. Morbidelli – F. Donati (a cura di), Comunicazioni: verso il diritto della convergenza?, Torino, 2003, e in particolare l’intervento conclusivo di Enzo Cheli, allora presidente dell’AGCOM.

[60] Cfr. A. Perrucci, L’accesso ai contenuti nelle strategie di sviluppo degli operatori di telecomunicazioni, in E. Apa – O. Pollicino (a cura di), La regolamentazione dei contenuti digitali. Studi per i primi quindici anni dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (1998-2013), Roma, 2014, 169 ss. (spec. 196 ss.).

[61] Art. 4 bis del d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con modificazioni in legge 27 novembre 2020, n. 159.

[62] Cfr. G. Guizzi, Gli incerti confini del “collegamento societario”, cit., 1041.

[63] Va evidenziato che tali divieti sono ammessi in via di principio dalla Raccomandazione CM/Rec(2018)1 del Comitato dei Ministri degli Stati membri sul pluralismo dei media e sulla trasparenza della proprietà dei media adottata il 7 marzo 2018: «Media-ownership regulation can include restrictions on horizontal, vertical and cross-media ownership, including by determining thresholds of ownership in line with Recommendation CM/Rec(2007)2 of the Committee of Ministers to member states on media pluralism and diversity of media content».

[64] Legge 6 agosto 1990, n. 223; l’art. 37 è stato abrogato dall’art. 54, c. 1, lett. i), n. 13) del TUSMAR.

[65] Sia consentito rinviare a E. Apa, Osservazioni sul disegno di legge sulla disciplina del settore radiotelevisivo, cit., 15.

[66] Cfr. AC 2077, proposta di legge d’iniziativa dei deputati Beltrandi, Capezzone, D’Elia, Mellano, Mancini, Nucara, Poretti, Turco, “Nuove norme in materia di concorrenza e mercato nel settore delle comunicazioni sonore e televisive e delega al Governo in materia di uso efficiente dello spettro elettromagnetico”, presentata il 18 dicembre 2006, in particolare l’art. 6.

[67] AC 1825, “Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale”, disegno di legge presentato il 16 ottobre 2006 dall’allora Ministro delle Comunicazioni, on. Paolo Gentiloni Silveri; cfr., in particolare, l’art. 3, c. 8.

[68] In tal senso si muoveva la proposta di legge d’iniziativa dell’on. Tana De Zulueta AC 2502, “Nuove norme in materia di pluralismo informativo, di contenuti audiovisivi ed emittenti in tecnica digitale, nonché di riassetto del sistema nazionale delle frequenze”, presentata il 4 aprile 2007; si vedano, in particolare, i cc. 2, 3 e 4 dell’art. 2 dell’articolato. Secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Nota del 10 settembre 2003 sul d.d.l. n. 3184, 13 ss., tale soluzione ha trovato applicazione in alcuni dei principali Paesi europei. Sul progetto De Zulueta si veda F. Graziadei, Un vecchio tentativo di un soffio di novità nel panorama televisivo italiano, in DIMT – diritto mercato tecnologia, 2020.

[69] Cfr. A. Pace, La tutela giurisdizionale dell’utente radiotelevisivo, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1995, 570, con vasto seguito in dottrina.  Tale indicazione non sembra però ripetuta negli scritti più recenti dell’Autore.

[70] Come evidenziato da G. Gangemi, Exploring the Economic Aspects of Media Pluralism and Media Freedom in the European Union, in Aa. Vv., European Union Competencies in Respect of Media Pluralism and Media Freedom, RSCAS Policy Paper 2013/01, CMPF, 2013, 41: «The number of operators in the market should not be taken as a condition that is also sufficient for media pluralism for demand-side reasons, as media pluralism should not be measured only by the number of services available, but also by the level of consumption. The increased abundance on the supply-side does not necessarily correspond with a greater variety in consumption on the demand side». Cfr. anche M. Gambaro, Concorrenza e pluralismo nel mercato di internet: la prospettiva economica, in T.E. Frosini – O. Pollicino – E. Apa – M. Bassini (a cura di), Diritti e libertà in internet, Milano, 2017, 267 ss.

[71] Si vedano, al riguardo, le proposte di M. Cuniberti, Digitale terrestre e telecomando: il nuovo Piano di numerazione dei canali, occasione mancata?, in medialaws.eu, 6 dicembre 2012.

[72] Si rinvia alle diffuse argomentazioni di A. Pace – M. Manetti, Rapporti civili – La libertà di manifestazione del pensiero, in Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 2006, 716 ss.

[73] AGCOM, delibera n. 178/17/CONS, 35.

[74] Cfr. A. Cerri, TLC e diritti fondamentali, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1996, 805 e M. Cuniberti, Autorità indipendenti e libertà costituzionali, Milano, 2007, 200, cui adde, nello stesso senso, E. Apa, Il nodo di Gordio: informazione televisiva, pluralismo e Costituzione, in Quaderni costituzionali, 2, 2004, 337 ss. In giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 maggio 2002, n. 2869.

[75] Si rinvia alle considerazioni, ancora attuali, di R. Pardolesi, Pluralismo esterno (non più d’una rete a testa?) per l’etere privato, in Foro italiano, 1995.

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