SentenzeWeb: ricerca libera tra le sentenze della Corte

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Così titola il sito della Corte di Cassazione, consultabile all’indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it/sncass.

Si tratta di un sistema che consente di ricercare e scaricare liberamente le sentenze emanate dai Giudici di legittimità.

Le sentenze sono pubblicate integralmente, ovverosia con tanto di nomi e cognomi di tutte le persone coinvolte nei processi: giudici, avvocati, consulenti, parti, testimoni e tutti quei soggetti che, per accidente, sono finiti nelle maglie della giustizia.

Ad oggi sono state caricare circa 160.000 sentenze civili, ma l’apertura degli archivi alla libera consultazione è stata annunciata anche per le sentenze penali.

L’operazione viene illustrata come un’espressione del principio di trasparenza finalizzato a rendere più accessibile ai cittadini il patrimonio giuridico costituito dalle sentenze della Corte.

Il 6 ottobre scorso, il Garante privacy ha inviato una lettera al Primo Presidente della Cassazione in cui ha manifestato “più di una preoccupazione in ordine alla garanzia del diritto alla protezione dei dati personali (spesso anche sensibili e giudiziari) degli interessati”.

Le preoccupazioni del Garante sono più che fondate e, francamente, visti i diritti in gioco, stupisce non poco il tenore reverenziale della missiva.

La questione, che era già emersa in alcuni contributi online, è assai delicata.

Sappiamo che il CED della Cassazione, prima di implementare il sistema, ha studiato con attenzione la questione ma, allo stato della normativa, a mio parere, rimane davvero inspiegabile come siano stati superati, nell’interpretazione della Corte, alcune disposizioni cogenti.

Sulla scorta di recenti pronunce (cfr. Cass, I sez. pen., n.34160/14), pare verosimile ipotizzare che la base normativa del trattamento sia stata individuata dal CED nell’art.52 del codice privacy, il cui ultimo comma prevede che, fuori dai casi indicati (richiesta di oscuramento delle generalità da parte dell’interessato, dati identificativi delle persone offese di violenza sessuale, dei minori e delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone), è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze o di altri provvedimenti giurisdizionali, per finalità di informazione giuridica.

La ratio dell’art.52 è chiara: la disposizione si applica alla diffusione di determinate sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali (non tutto l’archivio!) e solo per finalità di informatica giuridica.

Non a caso, l’art.3 del D.P.R. n.195/2004 (regolamento del CED, tutt’oggi in vigore) prevede che non possa esser fatto uso dei dati personali contenuti negli archivi per scopi diversi da quelli del servizio del CED (servizio pubblico di informatica giuridica) e che l’accesso al servizio sia subordinato a registrazione, con annotazione dei dati identificativi dell’utente.

Non solo. Il sistema non tiene conto di quanto rilevato dal Garante privacy nel 2010 a proposito della diffusione di sentenze contenenti dati sensibili (e, aggiungerei, dei dati giudiziari che, come noto, il codice privacy equipara a quelli sensibili).

Nelle linee guida del 2010, infatti, il Garante aveva sottolineato come l’art.52, comma 2, faccia carico l’Autorità giudiziaria di una specifica responsabilità di disporre d’ufficio l’anonimizzazione dei dati a tutela dei diritti o della dignità degli interessati.

Tale onere, a parere dell’Autorità, deve essere interpretato come un vero e proprio obbligo di disporre, da parte del Giudicante, l’oscuramento dei dati sensibili e, in particolare dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale per i quali il codice prevede un divieto assoluto di diffusione e una maggior tutela anche in relazione al loro trattamento per fini difensivi (cfr. art.26, comma 4, lett. c), codice privacy).

Ebbene, è sufficiente fare una ricerca su SentenzeWeb inserendo nel motore il termine “HIV”, per trovare ben 173 documenti integrali in cui si legge nome e cognome delle persone che hanno chiesto il risarcimento dei danni per aver contratto l’infezione.

Dobbiamo forse ipotizzare che per ogni singolo provvedimento dei 173 pubblicati i Giudici abbiano fatto la valutazione ex art.52, comma 2, sancendo la soccombenza del diritto alla riservatezza, alla protezione dei dati personali e più in generale della dignità dell’interessato rispetto all’”obiettivo di rendere più trasparente e fruibile il servizio giustizia”?

E se invece non l’hanno fatta, è legittimo che quei dati siano pubblicati senza indugi?

In realtà, la distinzione tra il concetto di diffusione sotteso all’art.52 e la pubblicazione integrale di tutto l’archivio della Cassazione, emerge evidente dalla comparazione della norma con altri due riferimenti normativi: gli artt.545 c.p.p. e 35 c.p.

Il primo, in virtù del secolare principio secondo cui la giustizia è amministrata (salvo ipotesi eccezionali) in udienza pubblica e nel nome del popolo, stabilisce che la pubblicazione della sentenza consiste nella lettura in udienza del dispositivo.

Il secondo, modificato dalle leggi n.69/2009 e n.111/2011, prevede, quale pena accessoria, la pubblicazione per estratto (salvo che il giudice la disponga per intero) della sentenza di condanna.

La pubblicazione viene eseguita sul sito Internet del Ministero della giustizia ed ha una durata non superiore a trenta giorni.

Non solo. La pubblicazione può essere disposta solo per le condanne all’ergastolo e in altre poche e  predeterminate ipotesi individuate dalla legge. Tra questi, pare meritevole di citazione l’art.186 c.p. il quale prevede, analogamente a quanto disposto dall’art.120 c.p.c., la pubblicazione della sentenza di condanna qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato: in altri termini, anche in questo caso, una forma di sanzione.

Sintetizzando, possiamo dire che la pubblicazione delle sentenze di condanna (non di assoluzione!), è una sanzione che viene applicata in pochi casi espressamente previsti dalla legge, viene ordinariamente fatta per estratto ed ha una durata assai limitata nel tempo (proprio in relazione alla natura affittivo-sanzionatoria dell’istituto).

Com’è dunque possibile considerare legittima una sanzione indiscriminata, ingiustificata (ai sensi dell’art.27, comma 3, Cost.) e senza limiti temporali quale quella che deriva dalla pubblicazione di tutte le sentenze della Cassazione sul sito SentenzeWeb?

Il nocciolo della questione, a mio giudizio, sta nel fatto che la finalità di trasparenza dell’amministrazione della giustizia con i connessi diritti di accesso e conoscenza va ben oltre la finalità di informazione giuridica prevista dagli artt.51 e 52 del codice privacy.

Tale finalità, senz’altro condivisibile e da implementare, non può non rispettare il principio di necessità di cui all’art.3 del codice privacy, in base al quale i sistemi informativi debbono essere configurati riducendo al minimo l’utilizzazione di dati personali e dati identificativi quando le finalità, nei singoli casi, possano essere perseguite mediante dati anonimi od opportune modalità che permettano di identificare l’interessato solo in caso di necessità.

L’anonimizzazione dei dati identificativi delle parti e di soggetti terzi coinvolti nei processi è imprescindibile.

Se, infatti, la finalità della pubblicazione delle sentenze è sapere quante condanne per sfratto sono state emesse dalla Corte e quali sono gli orientamenti delle singole sezioni, è evidente che i nomi non servono.

Se, invece, la finalità è sapere se Tizio, che sto per assumere, ha mai intentato e per quali motivi una causa di lavoro, è evidente che basterà inserire nel motore di ricerca nome e cognome dell’interessato; solo che, in questo caso, sto indiscutibilmente facendo un trattamento dei dati personali non scriminato da nessuna delle ipotesi di esclusione del consenso di cui all’art.24 codice privacy.

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