Per un’Italia radicata in Europa

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da Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2016

L’approssimarsi del referendum tende a semplificare le argomentazioni delle parti. Così, si va ripetendo che «è l’Europa a chiederci la riforma». Chi sostiene il sì spesso prefigura in caso di voto negativo un tracollo economico e una deriva isolazionista; i detrattori evocano invece complotti e pressioni da parte dell’Unione e di incombenti poteri forti internazionali, per rendere più fragile e asservita la nostra democrazia.

Sono evidenti semplificazioni: la vittoria del sì o del no sarà l’esito di un processo di decisione democratica di matrice nazionale. Tuttavia, è vero che la scelta degli elettori non avrà un impatto esclusivamente domestico, ma, per forza di cose, anche “europeo”. Meglio, un impatto che influirà con ogni probabilità sulla posizione dell’Italia in Europa.

Si pensi, innanzitutto, all’obiettivo, chiaramente perseguito dalla riforma costituzionale, di assicurare una maggiore governabilità e una tendenziale stabilità della maggioranza parlamentare. Non ci sono dubbi che governabilità e stabilità avrebbero ripercussioni sulla credibilità politica dell’Italia in Europa; presidente del consiglio e ministri avrebbero una legittimazione più forte e gli interlocutori europei potrebbero contare su indirizzi politici non smentiti, qualche tempo dopo, dal nuovo, inatteso, inquilino di Palazzo Chigi. I dati in effetti mostrano, in effetti, una anomalia italiana: dalla data simbolica del 7 febbraio 1992, giorno della firma del trattato di Maastricht, abbiamo avuto 16 governi e 10 presidenti del consiglio, da Andreotti a Renzi; in Germania 7 esecutivi con 3 cancellieri, in Spagna 8 governi e 4 presidenti, nel Regno Unito 5 primi ministri. Allo stesso modo, una maggiore speditezza del processo legislativo dovrebbe consentire di ridurre le procedure di infrazione a carico dell’Italia per il mancato recepimento delle direttive europee, oggi assai numerose.

Contestualizzare la riforma costituzionale all’interno della dimensione europea può anche servire a stemperare i toni del dibattito attorno al passaggio dal bicameralismo paritario a quello asimmetrico. Studiando i lavori della Costituente, non è difficile convincersi che la principale – forse l’unica – ragione del bicameralismo paritario sia stata quella di far sì che il Senato potesse svolgere una funzione ritardante, di “camera di riflessione”, per impedire gli abusi di potere da parte dell’esecutivo, ben presenti nella memoria di tutti i costituenti. Oggi, a distanza di quasi 70 anni, guardando al ruolo giocato, in molte materie, dal legislatore dell’Unione e, in particolare, dal Parlamento europeo, si può ritenere che quella funzione di bilanciamento dei poteri e di mediazione politica sia esercitata anche da quest’ultimo. A un bicameralismo di natura orizzontale se ne è affiancato uno di matrice verticale, che ha come centri nevralgici, oltre a Roma, Bruxelles e Strasburgo, le due sedi del Parlamento europeo.

Ancora, se il Senato diverrà la camera di mediazione politica dei conflitti tra Stato e Regione, oggi scaricati sulla Corte costituzionale, la diminuzione di tale contenzioso potrebbe consentire alla Corte stessa, meno impegnata nel compito di arbitro tra poteri, di avere un ruolo più incisivo nelle sue vesti di giudice dei diritti fondamentali. Specialmente di quei diritti, relativi alla vita e alla morte, alle libertà individuali, alla salute, alle famiglie, alla privacy, al lavoro, oggi più che mai all’incrocio tra i livelli nazionale, europeo ed internazionale e al centro della nuova stagione del costituzionalismo cooperativo multilivello in Europa.

Dunque, l’appartenenza all’Unione incide sul giudizio complessivo sulla riforma. L’Europa preferisce governi “forti”, stabili, iter legislativi rapidi e istituzioni nazionali e regionali capaci di contribuire seriamente ai processi decisionali europei, sia nella fase preparatoria che in quella di attuazione. D’altra parte, l’Unione costituisce un formidabile limite al potere degli Stati e forse la massima garanzia contro le emergenti tentazioni illiberali. Così, chi crede nella complessiva bontà della riforma costituzionale deve credere anche nella irreversibilità del processo di integrazione verso un’Unione sempre più stretta tra i popoli europei. Per chi immagina un futuro della nostra democrazia che possa prescindere dal collante europeo, forse però non basta la conferma dello status quo. Senza Europa, occorrerebbe riflettere su come proteggere e radicare saldamente al suolo costituzionale le fondamenta di una democrazia che si troverebbe, inevitabilmente e pericolosamente, a “ballare da sola”.

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