Notazioni minime sulle novità normative in tema di manifestazioni a premio

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Se la pubblicità è l’anima del commercio, la ripresa economica passa anche per un rilancio delle iniziative promozionali, specie quelle più innovative e afferenti al mondo digitale.

Sembra esser stata questa la ratio per cui il legislatore, sul finire dello scorso anno, ha modificato la disciplina le manifestazioni a premio, introducendo nel D.P.R. 430/2001 – mediante il cosiddetto Decreto Competitività (D.L. n. 91/2014 convertito in L. 116/2014) – una nuova fattispecie di manifestazione promozionale esclusa dall’ambio dello stesso D.P.R. e, quindi, anche dagli obblighi, dalle restrizioni e dai relativi adempimenti burocratici.

Così la nuova lettera c-bis dell’art. 6 del D.P.R. stabilisce che non debbano considerarsi né operazioni né concorsi a premio «le manifestazioni nelle quali, a fronte di una determinata spesa, con o senza soglia d’ingresso, i premi sono costituiti da buoni da utilizzare su una spesa successiva nel medesimo punto vendita che ha emesso detti buoni o in un altro punto vendita facente parte della stessa insegna o ditta».

La nuova disposizione ha immediatamente suscitato, tra gli operatori della comunicazione commerciale, numerosi quesiti. Di che buoni parla la norma? È consentito l’uso di voucher digitali? Possono essere spesi anche online? Dove possono essere spesi?

Per rispondere a questi dubbi interpretativi, il 20 novembre 2014 la Divisione x del Ministero dello Sviluppo Economico (d’ora in avanti, per brevità, MISE) ha emesso una nota esplicativa (link: http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/normativa/applicazione%20art.6%20comma1.pdf) rivolta, da un lato, ai più rappresentativi operatori del commercio italiano (UPA, Federdistribuzione, Confcommercio, etc.) e, per conoscenza, a Unioncamere e all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, all’Agenzia delle Entrate (soggetto, quest’ultimo, interessato dalle possibili implicazioni fiscali della nuova disciplina).

 

La nota del MISE fornisce indicazioni e spunti di riflessione sui quali è utile soffermarsi.

 

L’interpretazione restrittiva del D.P.R. 430/2001

 

La Nota si apre con un riferimento all’art. 1, comma 2, del c.d. Decreto Liberalizzazioni (D.L. 1/2012), in base al quale «le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica».

Si tratta all’apparenza di una mera riaffermazione del principio di legalità formale, in base al quale le norme compressive di diritti di libertà (in questo caso economica) devono essere applicate restrittivamente, in ossequio al favor libertatis che informa i moderni ordinamenti democratico-liberali. Sotto tale profilo il Decreto Liberalizzazioni non sembra del resto avere apportato effettive innovazioni all’ordinamento.

Il richiamo contenuto nella nota del MISE sembra quindi doversi interpretare più che altro come un’espressione di favor del MISE stesso nei confronti di un’applicazione più elastica del D.P.R. 430/2001 e, contestualmente, di un’interpretazione più estensiva – se non addirittura analogica – delle fattispecie di esclusione di cui all’art. 6 del D.P.R. (tra cui, e forse soprattutto, quella di recente introdotta dal Decreto Competitività).

Un approccio, quest’ultimo, che, qualora fosse confermato, come sembra, dalla prassi applicativa, potrebbe segnare una positiva e auspicabile apertura a nuove forme di promozione innovativa e out-of-the-box e trasmettere un segnale di fiducia agli operatori economici del commercio e della fornitura di servizi.

 

Ambito di applicazione della nuova esclusione: le operazioni a premio

La nota interpretativa del MISE chiarisce poi che «le manifestazioni cui la nuova disposizione di esclusione trova applicazione [sono]solo le operazioni a premio», e non quindi anche i concorsi a premio.

La prima considerazione, a proposito di tale precisazione, è che – nonostante la nota stessa affermi a pag. 8 che «la presente nota è indirizzata inoltre per conoscenza […] all’Agenzia delle dogane e dei monopoli […] al fine di consentire all[a]stess[a]di far conoscere le proprie eventuali diverse o aggiuntive valutazioni per gli aspetti di specifica competenza» – in linea teorica la competenza dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli a pronunciarsi dovrebbe essere esclusa.

Infatti, come è noto, la competenza dell’Agenzia relativamente alle manifestazioni a premio è funzionalizzata a verificare e impedire che «si verifichino fenomeni elusivi della riserva statale relativa al lotto e alle lotterie» (come ricordato dalla stessa nota MISE a pag. 3) e dunque dovrebbe essere esclusa in una fattispecie, come quella di cui alla nuova lettera c-bis dell’art. 6 del D.P.R. 430/2001, che non si applica ai concorsi, che per loro natura – cioè per il fatto di prevedere l’attribuzione del premio sulla base della sorte e/o delle capacità dei concorrenti – sono le manifestazioni a premio che più si prestano a essere strumentalizzate per aggirare la riserva statale relativa ai giochi con vincite in denaro.

Pertanto sembra più ragionevole che l’oggetto del parere che i Monopoli di Stato sono stati chiamati a dare ai sensi della nota MISE debba limitarsi esclusivamente alla conferma (o, teoricamente, alla smentita) della circostanza che la nuova esclusione di cui alla lettera c-bis riguardi soltanto le operazioni a premio e non anche i concorsi a premio (circostanza che, di per sé, varrebbe a escludere ogni futuro interessamento dei Monopoli di Stato alle fattispecie rientranti nella suddetta lettera c-bis).

Tanto posto, veniamo adesso a una lettura più specifica del nuovo disposto normativo.

 

«… i premi sono costituiti da buoni…»

I premi di cui alla novella sono costituiti da buoni sconto e buoni acquisto, «indipendentemente dalla forma di veicolazione […] ovvero indifferentemente dal fatto che essi vengano corrisposti in forma materiale o digitale, quali codici promozionali, codici sconto, coupon elettronici, ecc., consistenti sostanzialmente in stringhe alfanumeriche», come chiarito dalla nota MISE.

Se ne deduce che i buoni di cui si tratta sono quelli che ricadono di norma nella definizione di premio fornita dal D.P.R. 430/2001, inclusi quelli che consistono in sconti di prezzo o documenti di legittimazione di cui all’articolo 2002 c.c., suscettibili di valutazione economica, assoggettati all’imposta sul valore aggiunto o alla relativa imposta sostitutiva. Laddove, infatti, i buoni in questione non costituissero premi ai sensi del D.P.R. non ci si trova in presenza di una manifestazione a premio non per via del disposto della lettera c-bis del comma 1 dell’art. 6 del D.P.R., ma perché, più banalmente, non sussiste uno dei requisiti fondamentali che integra la fattispecie di manifestazione a premio (cioè, appunto, il premio).

La nota MISE fornisce però anche altri importanti informazioni che consentono di inquadrare l’esatta tipologia di beni sul cui acquisto è esercitabile il buono di cui sopra. In particolare, dalla lettura della nota MISE sembra di poter affermare che per organizzare una manifestazione esclusa dal D.P.R. 430/2001 ai sensi della nuova lettera c-bis sia necessario attenersi quantomeno alle seguenti regole:

  • il bene il cui acquisto dà diritto allo sconto può essere un singolo, specifico prodotto (ad es. una forma di parmigiano reggiano di marca ABC), quindi può beneficiare direttamente dell’effetto pubblicitario derivante dalla promozione, senza che ciò implichi di per sé l’applicazione del D.P.R.;
  • al contrario, il buono sconto/acquisto non può essere spendibile soltanto su uno specifico, singolo prodotto (ad es. una bottiglia da 33 cl di Birra XYZ). Infatti, se acquistando una forma di parmigiano ABC si potesse ottenere un buono sconto/acquisto spendibile soltanto su una bottiglia da 33 cl di Birra XYZ, l’operazione ricadrebbe nella fattispecie tipica dell’operazione a premio e l’applicazione a questa ipotesi di un’esclusione dal D.P.R. comporterebbe, di fatto, la neutralizzazione del D.P.R. stesso;
  • è quindi necessario che i prodotti acquistabili usando il buono sconto/acquisto siano tutti i prodotti disponibili nel medesimo punto vendita che ha emesso detti buoni o in un altro punto vendita facente parte della stessa insegna o ditta, o, quantomeno, certe «categorie di prodotti», in modo tale che il consumatore abbia «ampia libertà di scelta alla spesa successiva».

Purtroppo, l’espressione «ampia libertà di scelta» è del tutto atecnica, da valutare, in mancanza di una qualsivoglia direttiva interpretativa oggettiva, secondo buon senso e diligenza professionale.

«… facente parte della stessa insegna o ditta…»

I buoni, nella nuova ipotesi di esclusione, devono essere utilizzabili su una spesa successiva nel medesimo punto vendita che li ha emessi o in un altro punto vendita facente parte della stessa insegna o ditta. È quindi necessario ricorrere ad alcune nozioni-base del diritto commerciale per poter individuare i punti vendita in questione.

Nel linguaggio giuridico, l’insegna è un segno distintivo dell’attività di impresa che può essere nominativa (quando è costituita da singole parole o locuzioni linguistiche), emblematica (quando è composta da numeri e/o immagini) o mista (numeri, immagini e/o parole insieme). L’insegna può anche riprodurre le parole che compongono la ditta, se quest’ultima è nuova e originale.

L’insegna ha una funzione distintiva e, per poter essere tutelata, deve essere originale, cioè non troppo generica (come insegne quali “Bar”, “Parrucchiere”, “Macelleria”, etc.) e nuova, cioè dissimile da qualsiasi altra insegna precedentemente utilizzata.

La ditta invece è quel vocabolo o quell’insieme di vocaboli utilizzati dall’imprenditore come nome commerciale per distinguere la propria impresa dalle altre e attrarre i terzi. In merito alla ditta valgono i principî di verità (di cui all’art. 2563 c.c.: «la ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore, salvo quanto è disposto dall’articolo 2565») e libertà, che si sostanzia nella possibilità di aggiungere nella ditta anche un’altra parte, liberamente scelta, che sia composta di una più parole esistenti o eventualmente anche inventate.

Alla verità e alla libertà si aggiunge infine il principio di novità della ditta, necessitato dal fatto che, come si è appena detto, la ditta assolve (anche) una funzione di differenziazione e dunque deve necessariamente essere diversa – cioè non uguale né simile – da tutte le altre ditte (cfr. l’art. 2564 c.c.).

Alla luce di quanto detto, sembra di poter dire che il riferimento alla ditta e all’insegna, inserito nel D.P.R. 430/2001, sia caratterizzato da una certa limitatezza, che appare ancora più evidente quando ci si riferisce a realtà commerciali strutturate, articolate e complesse che fondano il proprio business su complessi accordi di franchising con numerosi gestori in tutto il territorio nazionale, come quelli che maggiormente operano nell’ambito promozionale qui di interesse.

Soccorre tuttavia l’interpretazione fornita dalla nota MISE, il cui elemento centrale sembra essere il seguente: «si ritiene che l’ulteriore vincolo che deriva da tale disposizione [relativa alla medesima ditta o insegna]sia solo quello che l’operazione a premio esente preveda l’emissione di buoni da parte dei punti vendita delle imprese promotrici o associate ed il loro successivo utilizzo nell’ambito complessivo dei punti vendita delle medesime imprese promotrici o associate» (pag. 5).

Va a tal proposito ricordato che le imprese promotrici – ai sensi dell’art. 5, comma 1, del D.P.R. – sono quelle che producono e/o distributrice i beni e/o i servizi promozionati.

 

Conclusioni

La previsione di una nuova fattispecie di manifestazione esclusa dall’ambito di applicazione del D.P.R. 430/2001 può essere vista favorevolmente in quanto, da un lato, sembra segnare la presa d’atto, da parte del legislatore, della necessità dell’aggiornamento di una disciplina che è ormai manifestamente inadeguata alle mutate condizioni del mercato, alle nuove tecnologie digitali e persino al modo in cui gli stessi consumatori percepiscono e vivono l’esperienza del marketing moderno.

Dall’altro, alcune ambiguità nel wording utilizzato potrebbero, nonostante gli sforzi chiarificatori del MISE, continuare a creare incertezze applicative e prestarsi anche al rischio di interpretazioni forse non del tutto adeguate alle realtà economiche più complesse e alle loro strategie promozionali.

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