Esposto a un ordine professionale: quali confini per il diritto di critica

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Corte di Cassazione, sez. V penale, 11 febbraio 2021, n. 9803

In tema di diffamazione mediante esposto inviato ad un organo di disciplina, sussiste il diritto di critica laddove l’agente abbia assolto l’onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi, al fine di ottenere un controllo sulla violazione delle regole deontologiche in relazione all’operato del professionista.

 

Sommario. 1. La vicenda – 2. La comunicazione “con più persone” – 3. Diritto di critica ed esposto all’Ordine professionale – 3.1 Il limite della verità – 3.2 Il limite della continenza espressiva – 4. In conclusione

 

  1. La vicenda

Un cliente, con esposto diretto al Consiglio dell’Ordine degli avvocati, contesta l’operato del proprio legale, il quale avrebbe tenuto condotte in violazione delle regole deontologiche, in particolare fornendo «informazioni eticamente non corrette non nell’interesse del cliente, ma nell’interesse dell’amico avvocato medico con cui condivide laute parcelle».

Il Giudice di pace condanna il cliente per il delitto di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. per le affermazioni contenute nella segnalazione all’Ordine.

L’imputato ricorrente deduce, tra l’altro, carenza di motivazione in relazione all’esclusione della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica: il giudice di prime cure avrebbe omesso di argomentare in punto di veridicità e continenza espositiva delle espressioni diffamatorie.

Nell’accogliere il ricorso dell’imputato, la Cassazione, con la sentenza in commento, si pronuncia su alcune questioni relative alla configurabilità del delitto di diffamazione ai danni di un avvocato nel caso di esposto al Consiglio dell’Ordine, con particolare riguardo ai limiti al diritto di critica.

  1. La comunicazione “con più persone”

Prima di occuparsi del “buon uso” dei principi stabiliti dalla giurisprudenza in tema di diffamazione e diritto di critica, la Corte ritiene opportuno fugare ogni dubbio in relazione a un profilo che non costituisce motivo di doglianza da parte del ricorrente, ossia il requisito oggettivo del delitto di diffamazione: la comunicazione “con più persone”[1].

Come noto, la condotta che integra il delitto di cui all’art. 595 c.p. – recare offesa all’altrui reputazione – deve realizzarsi attraverso una comunicazione rivolta a più persone, circostanza che avviene qualora due o più persone abbiano notizia dell’offesa, contemporaneamente o anche in momenti successivi[2].

La Cassazione coglie dunque l’occasione per ribadire un principio già consolidato in giurisprudenza: la comunicazione “con più persone” può ritenersi sussistente in re ipsa, quando, per la natura della comunicazione, la stessa sia “ontologicamente” destinata ad essere diffusa tra più persone[3].

D’altro canto, il principio era già stato affermato proprio in tema di diffamazione realizzata mediante segnalazioni indirizzate ad organi di disciplina[4]. La condotta di comunicazione con più persone è integrata non solo nei casi in cui sia direttamente riscontrabile la volontà, da parte dell’agente, di divulgare a più persone le proprie dichiarazioni, ma anche nel caso in cui, per il carattere della comunicazione, questa sia “ontologicamente” destinata alla divulgazione a più parti: proprio come accade allorché taluno operi un esposto all’Ordine, circostanza di per sé propulsiva di un procedimento disciplinare e, dunque, costitutiva di una comunicazione che viene naturalmente portata a conoscenza di terzi.

  1. Diritto di critica ed esposto all’Ordine professionale

Esaurita la questione, non particolarmente problematica come s’è visto, del requisito della comunicazione con più persone in caso di esposto all’Ordine, la Corte si occupa del primo (e assorbente rispetto agli altri proposti) motivo di doglianza: l’(in)sussistenza della causa di giustificazione del diritto di critica.

È bene tra l’altro precisare come, in un iniziale passaggio della sentenza in commento, la Cassazione afferma la possibilità di rilevare ex officio, oltre alla predetta causa di giustificazione, alternativamente la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p.[5], ossia il diverso istituto[6] che rende non punibili le condotte diffamatorie contenute in scritti e discorsi diretti all’autorità giudiziaria o a quella amministrativa. Nel prosieguo della pronuncia, ad ogni modo, la Corte sembra fare esclusivo riferimento alla causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., senza soffermarsi sulla configurabilità della speciale causa di non punibilità, la cui applicabilità, in sede di esposti agli ordini professionali, non è del tutto pacifica in giurisprudenza.

In tema di applicabilità dell’esimente di cui all’art. 598 c.p. in sede di esposti a ordini professionali si registrano infatti due indirizzi giurisprudenziali. Secondo un primo, minoritario orientamento, l’esimente in parola è applicabile in questo contesto, poiché l’autore della segnalazione deve essere considerato “parte” del procedimento disciplinare, in quanto titolare di un interesse tutelato[7]. Un secondo orientamento, più fedele alla lettera della legge, ritiene invece l’esimente non applicabile alle offese veicolate in sede di segnalazioni all’ordine. Secondo quest’ultimo indirizzo, infatti, l’autore dell’esposto non è tecnicamente “parte” dell’instaurando procedimento disciplinare, trattandosi di un soggetto che si limita a sollecitare l’esercizio di una potestà pubblicistica, senza divenire contraddittore[8].

Tornando alla pronuncia in esame, la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica, espressione del principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero, viene come noto frequentemente in rilievo nell’ambito della tutela penale della reputazione[9]. La possibilità di ravvisare la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica, e dunque di considerare il fatto di diffamazione lecito all’interno dell’ordinamento, si delinea in presenza dei noti “limiti” elaborati dalla giurisprudenza sul tema: la verità del fatto narrato, la correttezza espressiva, la pertinenza in relazione all’interesse per l’opinione pubblica[10] .

Nella sentenza in commento, la Corte afferma che, in caso di dichiarazioni offensive contenute in un esposto ad un ordine professionale, è necessario verificare la possibilità di ravvisare la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.[11], ricorrendo la scriminante del diritto di critica «quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità» (§ 1.2). Nel peculiare ambito della diffamazione commessa a mezzo di esposto all’Ordine, il diritto di critica «si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto della prospettazione critica ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto alle censure espresse» (§ 1.3).

Ebbene, secondo la Corte di Cassazione, il Giudice di pace nella sentenza impugnata non avrebbe reso una motivazione rappresentativa della corretta applicazione di tali principi.

3.1 Il limite della verità

I rilievi sull’operato del giudice di prime cure sono svolti dalla Corte principalmente in tema di giudizio di verità delle dichiarazioni rese dall’imputato.

Nel censurare la sentenza impugnata, la Corte da un lato afferma che il Giudice di pace avrebbe impropriamente valutato l’(in)fondatezza delle accuse rivolte all’avvocato sulla base degli esiti del successivo procedimento disciplinare, instaurato a seguito dell’esposto, quindi con una valutazione ex post, così sovrapponendo «alla delibazione della soggettiva prospettazione il successivo esito del procedimento» (§ 2.1); dall’altro, il giudice avrebbe totalmente omesso «la disamina delle coordinate di fatto relative ai rapporti tra le parti, ampiamente circostanziate dalla difesa […] in correlazione a ciascuna delle espressioni offensive censurate» (§ 2.1).

Il primo tema censurato dalla Cassazione attiene dunque alla prospettiva temporale con cui il giudice valuta il requisito della verità delle affermazioni offensive.

Il giudice, afferma la Corte, deve determinare la veridicità delle dichiarazioni con un procedimento logico ex ante e in concreto, “ritagliato” sul soggetto dichiarante e sulle conoscenze di questi al momento in cui manifesta il proprio pensiero. In altre parole, il giudizio deve essere effettuato dal punto di vista del soggetto agente in relazione alla consapevolezza circa la verità dei fatti dichiarati e al momento delle affermazioni offensive. Il giudizio non può dunque essere “appiattito” su una verità “processuale” come quella scaturente all’esito del procedimento disciplinare, né essere tantomeno riferito ad una realtà che è “vera” solamente in un momento successivo, quale, per esempio, quello della valutazione disciplinare avvenuta a seguito dell’esposto.

Diversamente ragionando, come nel caso in esame, si perverrebbe ad escludere «del tutto apoditticamente e con valutazione postuma, il requisito della verità dei fatti – e dunque del fondamento di veridicità delle segnalate irregolarità – come postulato in tema di elaborazione critica»[12].

La necessità che la critica appaia “vera” al momento del fatto e non ex post, è questione peraltro già affrontata dalla giurisprudenza di legittimità[13], anche nell’ambito della stessa casistica della diffamazione a mezzo esposto all’Ordine professionale[14].

Il secondo tema affrontato dalla Corte in materia di veridicità delle affermazioni è quello della necessità che il giudice operi un vaglio sulle circostanze di fatto relative ai rapporti tra le parti, ossia sulle «specifiche circostanze del concreto contesto» (§ 2.2).

Nella sentenza impugnata sarebbe infatti mancata qualsiasi «disamina delle coordinate di fatto relative ai rapporti tra le parti […] in correlazione a ciascuna delle espressioni offensive censurate, sì da ancorare la valutazione dell’antigiuridicità del fatto a specifiche circostanze, rispetto alle quali il giudizio di veridicità, come quello di pertinenza e continenza espositiva, deve essere svolto» (§ 2.1). Il Giudice di pace, in altri termini, avrebbe mancato di operare qualsiasi valutazione in relazione alle «specifiche circostanze del concreto contesto, così escludendo, del tutto apoditticamente e con valutazione postuma, il requisito della verità dei fatti» (§ 2.2).

Né, d’altro canto, il giudice avrebbe proceduto ad una simile verifica in termini di putatività[15] «dell’esercizio del diritto di critica, applicandosi la relativa esimente nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell’altrui reputazione, anche se di essa non sussista certezza processuale» (§ 2.2).

Viceversa, dalla sentenza in commento emerge come il ricorrente avesse puntualmente circostanziato i rapporti intercorsi con il legale, in particolare dettagliando come quest’ultimo avesse, tra l’altro, richiesto una consulenza, senza specificare la necessità di una remunerazione diretta del professionista. L’imputato, dunque, per quanto ci è dato sapere, aveva correttamente allegato le specifiche circostanze concrete a fondamento della critica all’operato del proprio legale.

Nella pronuncia in commento la Corte ricostruisce dunque condivisibilmente l’iter logico-argomentativo che il giudice deve seguire per affermare il requisito della verità dei fatti esposti dall’agente: il giudizio deve essere operato ex ante, riportandosi al momento delle dichiarazioni offensive, per la valutazione delle quali sono necessari riscontri fattuali che fungano da base per le opinioni espresse dall’agente.

3.2 Il limite della continenza espressiva

Il secondo limite al diritto di critica oggetto di censure da parte della Corte è quello relativo alla “continenza” delle espressioni utilizzate, ossia alla circostanza che la critica sia operata con una forma espositiva proporzionata, «’corretta’ in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere»[16].

Anche in tema di continenza espressiva la Cassazione censura l’operato del giudice di prime cure, che non avrebbe fatto buon governo del principio secondo cui «il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione»[17].

È principio ormai noto che «l’esercizio del diritto di critica trova un limite immanente nel rispetto della dignità altrui, non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale»[18]. La Corte si riporta qui al consolidato orientamento secondo cui il requisito della continenza «non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato […] rispetto al quale assume rilevanza il profilo soggettivo del dichiarante»[19].

Ebbene, la Corte nella sentenza in commento appare pienamente consapevole del fatto che, in tema di esposti all’Ordine, massima è la frizione tra il diritto alla libera manifestazione del pensiero e la tutela della dignità altrui.

Considerando il mezzo e soprattutto le finalità con cui le affermazioni offensive sono portate a conoscenza di terzi, l’esposto ad un ordine professionale mira infatti di per sé, com’è ovvio, a rendere noto gli organi competenti una manifestazione d’opinione critica sull’operato del professionista, di cui si chiede una verifica in ordine ad eventuali infrazioni.

La Cassazione dunque ricorda che in questo, come in altri frangenti, le espressioni utilizzate devono essere lette nell’ambito della loro «concreta articolazione e nella complessiva portata significativa» (§. 2.3) delle stesse.

Nel caso di specie, le dichiarazioni offensive non possono allora che essere lette nell’ottica della finalità nell’ambito della quale sono state enucleate: quella di far emergere le criticità dell’operato del professionista, di cui si chiede un giudizio in termini di violazione delle regole deontologiche. La causa di giustificazione in esame deve dunque ritenersi sussistente laddove il soggetto abbia «assolto l’onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti».

Il requisito della continenza deve essere pertanto valutato tenendo conto «del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano invece, comunque pertinenti al tema in discussione (…) ed alla sede dell’esternazione, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione» (§. 1.3).

Ebbene, il giudice di prime cure, oltre a non aver opportunamente indicato quali espressioni fossero da ritenere non continenti, non ha, secondo la Corte, fatto buon governo dei principi sopra richiamati in tema di continenza espressiva, avendo ritenuto superato il requisito della continenza «per il solo fatto dell’utilizzo di termini […] indubitabilmente offensiv[i]» (§ 2.3), senza un’opportuna verifica del contesto dialettico nell’ambito del quale gli stessi erano stati utilizzati.

  1. In conclusione

La Corte, nella sentenza in commento, sembra fare buon uso dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di limiti al diritto di critica.

La decisione appare equilibrata e tutelativa del diritto dei cittadini di sollecitare, liberamente, un controllo sulle violazioni da parte del professionista, a patto che la segnalazione sia puntuale, documentata e veritiera, nel senso sopra precisato. Su tali circostanze non può che pronunciarsi il giudice nel caso concreto, operando il consueto bilanciamento tra interessi in gioco.

Sembra infine condivisibile il passaggio di una più risalente pronuncia che, in un caso simile, aveva già affermato come «una risposta diversa si tradurrebbe in un inconcepibile divieto, per gli interessati, di chiedere il controllo sul livello deontologico, nei confronti di soggetti, la cui attività di liberi professionisti o di lavoratori dipendenti, può profondamente incidere sui propri diritti personali e patrimoniali»[20].

 

 

 

[1] Il primo comma dell’art. 595 c.p. prevede infatti che «Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito […]».

[2] Così, tra le molte, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 2010, n. 7408, CED 249599.

[3] Il principio è stato più volte affermato in giurisprudenza e in un’ampia casistica. Si pensi ad esempio a  Cass. pen., sez. V, 6 luglio 2015, n. 3963, CED 265815, che ha ritenuto integrato il delitto di diffamazione in un caso di espressione offensiva contenuta in un registro per sua natura destinato ad essere normalmente visionato da più persone, come quello dello delle iscrizioni nel registro cronologico utilizzato negli uffici giudiziari per annotare le somme riscosse dai dipendenti per i diritti di trasferta; o ancora, in precedenza, nel caso di frasi offensive contenute in un telegramma (Cass. pen., sez. V, 13 aprile 2007, n. 19559, in Riv. pen., 2008, 3, 318), o inviate a mezzo telefax (Cass. pen., sez. V, 24 aprile 2003, n. 30819, in Riv. pen., 2005, 357), dovendosi considerare tra le “più persone” anche i soggetti che vengano a conoscenza dei contenuti offensivi per la mansione che stanno svolgendo, come ad esempio l’impiegato del telegrafo. Sono dunque le caratteristiche intrinseche di tali mezzi che li rendono idonei alla diffusione del contenuto della comunicazione a “più persone”.

[4] In questo senso, oltre ai precedenti richiamati dalla Cassazione nella sentenza de qua (Cass. pen., sez. V, 29 aprile 2014, n. 26560, CED 260229, relativa ad un invio di missiva all’Ordine dei medici e Cass. pen. sez. V, 6 aprile 2011, n. 23222, CED 250458 ancora in tema di missiva all’Ordine degli avvocati), si segnalano anche Cass. pen., sez. V, 26 settembre 2014, n. 47103, in DeJure; Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2007, CED 238909. Contraria a questo indirizzo, invece, ed in modo isolato, Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2009, n. 19396, CED 243606, secondo cui non sussiste il requisito della comunicazione con più persone in caso di lettera al Presidente dell’Ordine degli avvocati contenente espressioni offensive e segnalazione di comportamenti deontologicamente scorretti tenuti dal difensore, laddove la successiva comunicazione sia avvenuta per esclusiva iniziativa del destinatario.

[5] Il cui primo comma recita «Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo».

[6] Come ricordato da Cass. pen., sez. V, 6 luglio 2018, n. 39486, CED 273888 «in tema di diffamazione, la causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p., e la scriminante di cui all’art. 51 c.p., operano su piani diversi; la prima non esclude l’antigiuridicità del fatto ma solo l’applicazione della pena e ricomprende anche condotte di offesa non necessarie, purché inserite nel contesto difensivo; la seconda si ricollega, invece, all’esercizio del diritto di difesa richiede il requisito della necessarietà ed il rispetto dei limiti di proporzionalità e strumentalità» (corsivi aggiunti). Dello stesso tenore, in precedenza, anche Cass. pen., sez. V, 7 marzo 2017, n. 14542, CED 269734.

[7] Così ad esempio Cass. pen., sez. V, 25 settembre 2008, n. 44148, CED 241806.

[8] Per questo secondo orientamento, che appare maggioritario, cfr. ad esempio Cass. pen., sez. V, 6 luglio 2018, n. 39486, cit., e Cass. pen., sez. V, 16 ottobre 2002, n. 40725, in Riv. pen., 2003, 909.

[9] Come altrettanto noto, il fondamento normativo del “diritto di critica” si rinviene, a livello penale, nell’art. 51 c.p., a livello costituzionale nell’art. 21 (per tutti, in tal senso, G. Vassalli, Libertà di stampa e tutela penale dell’onore, in Arch. pen., 1967, 34) e infine a livello convenzionale nell’art. 10 C.E.D.U.

[10] Per tutte v. Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 1999, n. 2144, in Foro it., 2001, II, 179.

[11] Di cui si riporta, per comodità del lettore, il primo comma: «L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità».

[12] § 2.2 della sentenza in commento. La Corte richiama sul punto il precedente conforme Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2017, n. 8721, CED 272432.

[13] Ad esempio, Cass. pen. Sez. feriale, 29 agosto 2017, n. 43139, in DeJure, richiamando l’arresto della CEDU, Zakharov c. Russia, ric. 14881/2003, in riferimento alla denunciata violazione dell’art. 10 della Convenzione, aveva affermato come la contestazione offensiva, per essere scriminata ai sensi dell’art. 51 c.p., debba apparire vera al momento del fatto e non ex post, dopo l’accertamento giudiziario.

[14] Ad esempio, Cass. pen., sez. V, 20 luglio 2016, n. 42576, in DeJure, aveva annullato la sentenza che aveva condannato, per il delitto di diffamazione, la controparte di un avvocato che aveva inviato un esposto al Consiglio dell’Ordine per manifestare dubbi sulla correttezza del collega, nonostante l’Ordine degli avvocati competente sulla questione avesse poi accertato l’infondatezza delle contestazioni mosse.

[15] Il quarto comma dell’art. 59 c.p. dispone infatti che: «Se l’agente ritiene per errore che esistano delle circostanze di esclusione della pena queste sono valutate sempre a favore di lui».

[16] Così, da ultimo, Cass. pen., sez. V, 18 gennaio 2021, n. 8898, in DeJure.

[17] §. 2.3. La Corte richiama a tal proposito il precedente Cass. pen., sez. V, 18 aprile 2019, n. 21445, CED 275554.  In precedenza, si veda inoltre, nello stesso senso, Cass. pen., sez. V,  6 luglio 2018, n. 39486, CED 273888, che ha escluso la possibilità di ravvisare la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica in un caso di esposto al Consiglio dell’Ordine degli avvocati mediante una «missiva gratuitamente denigratoria», contenente «espressioni gravemente e indubitabilmente offensive, oltretutto generiche, insuscettibili di verificazione e non riconducibili all’attribuzione di fatti determinati e concreti, da sottoporre a puntuale indagine deontologica, anche se espressi con asprezza e improprietà da un soggetto digiuno delle terminologie tecniche di un Ordine professionale». Alla stessa conclusione era giunta anche Cass. pen., sez. V, 29 gennaio 2019, n. 14644, in Leggi d’Italia, che ha ritenuto non censurabile la valutazione del giudice di seconde cure che aveva ritenuto lesivi della dignità morale di un avvocato, definito – sebbene nel diverso contesto del pezzo giornalistico – “rapinatore” e “gaglioffo” da parte del proprio cliente. La Corte in quell’occasione ha infatti ritenuto che tali epiteti fossero di per sé infamanti non rispettando il limite della continenza ed esorbitassero dunque dal diritto di critica.

[18] Cass. pen., sez. V, 29 gennaio 2019, n. 14644, cit.; in precedenza ex plurimis Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 2010, n. 4938, CED 249239.

[19] § 2.3. Anche in questo caso la Corte richiama precedenti conformi, tra cui Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2020, n. 17243, CED 279133.

[20] Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2010, n. 33994, in Giur. it., 2011, 2, 401 che prosegue chiosando «L’interrogativo sulla correttezza professionale di questi soggetti non può tradursi automaticamente, sempre e comunque, in una reazione punitiva dello Stato. La negativa evoluzione del costume, che porta a equiparare controllo/responsabilità, non può giustificare il divieto per i cittadini di chiedere nella sede istituzionale, senza anticipazioni di giudizio e senza devianti comunicazioni, l’esame di chi ha operato e opera nella loro sfera giuridica. Lo status di esaminandi, perenni, senza fine è razionalmente giustificato dai poteri che l’ordinamento conferisce ad alcune categorie di consociati».

 

 

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