DSA: obiettivi, criticità e nodi da sciogliere

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È ormai imminente la proposta che la Commissione Europea presenterà sul Digital Services Act (DSA), una delle iniziative più importanti e ambiziose lanciate dall’Unione Europea nel più ampio quadro delle strategie per la creazione del mercato unico. L’obiettivo è di favorire la competitività delle imprese europee nel contesto globale, attraverso i servizi digitali e l’innovazione, attraverso un pacchetto d’interventi in cui una parte non secondaria è legata alla regolamentazione delle piattaforme digitali online, inclusi le piattaforme di social media, i motori di ricerca, le piattaforme di videogiochi e altri servizi della società dell’informazione e di Internet.

Essendo il primo importante atto legislativo per il settore dalla Direttiva sul commercio elettronico del 2000, definirà anche cosa sarà Internet per gli anni a venire e sarà destinato ad avere un impatto sulla governance di Internet, non solo in Europa, ma a livello globale. Oltre alle regole generali applicabili a tutte le piattaforme, si ritiene che saranno applicati obblighi specifici alle “piattaforme online di grandi dimensioni”.

L’iniziativa arriva in un momento focale e particolarmente critico, poiché il COVID-19 ha reso evidente quanto cittadini, lavoratori, consumatori e imprese dipendano dai servizi digitali e dalle piattaforme digitali online. Le piattaforme digitali online consentono lavori basati sul web o lavoro digitale. Questo aspetto chiave, anche se non coperto dal pacchetto DSA e che sarà affrontato attraverso un “quadro rafforzato” nel 2021, costituisce peraltro la sua premessa e la sua ragion d’essere.

Il contesto di riferimento

I grandi benefici apportati al sistema economico e sociale anche in Europa dall’economia digitale e dalle piattaforme online, che ne hanno fin qui costituito il principale motore di crescita, le cui applicazioni si sono dimostrate fondamentali in molti settori anche nella resilienza al Covid-19 (salute, infrastrutture, ecc..), hanno evidenziato al contempo potenziali fattori critici e di rischio, riguardanti in particolare proprio il ruolo delle piattaforme online.

Secondo la Commissione, se da un lato queste producono innegabili vantaggi anche nel mercato interno dell’Unione Europea, grazie alla vasta gamma di efficienze determinate dall’innovazione che producono e che mettono a disposizione delle aziende europee, facilitando il commercio transfrontaliero all’interno e all’esterno dell’Unione e aprendo opportunità commerciali completamente nuove a una varietà di imprese, facilitando così la loro espansione e l’accesso a nuovi mercati, dall’altro sempre secondo la Commissione, queste piattaforme online opererebbero come gatekeeper tra imprese e cittadini, beneficiando di consistenti effetti di rete. In ragione di ciò, queste grandi piattaforme online eserciterebbero il controllo su interi ecosistemi, sostanzialmente impossibili da contestare da parte di operatori di mercato esistenti o nuovi, indipendentemente da quanto innovativi ed efficienti possano essere.

Questo contesto renderebbe dunque necessario un intervento regolatorio, che è dunque al centro dell’iniziativa del pacchetto DSA.

Sotto questo aspetto, le questioni più rilevanti e critiche che il DSA dovrà affrontare e risolvere sono quelle che riguardano il tema della responsabilità degli intermediari (le piattaforme) e il tema della regolamentazione ex ante.

La responsabilità degli intermediari

C’è da tenere presente un elemento di complessità che riteniamo derivi dall’attuale quadro e risiede nel modo in cui conciliare ciò che è generalmente previsto dalla Direttiva sul commercio elettronico (ECD) e ciò che è specificamente stabilito dalle più recenti disposizioni normative che hanno un impatto sulla responsabilità degli intermediari (Copyright nella Direttiva DSM, AVMS sui servizi media e la Guida all’interpretazione della Direttiva sulle pratiche commerciali scorrette).

In questo senso, la Direttiva sul commercio elettronico fornisce una salvaguardia che possiamo definire orizzontale, cioè indipendente dal settore, mentre i regimi verticali fissano obblighi a seconda della domanda di settore. Le due serie di regole – generale e settoriale – a volte sembrano essere incoerenti.

Indipendentemente dalle scelte di merito che verranno adottate, dall’approccio più severo rispetto all’ECD, con riferimento alla responsabilità degli intermediari in relazione a un provato mutato ruolo come fornitore di servizi di intermediazione (piattaforma) o quello più flessibile e quindi in grado di usare strumenti come l’auto-regolazione e la co-regolazione, l’auspicio è di mantenere un approccio orizzontale, salvo casi eccezionali, in grado di dare garanzie legali superiori, maggiori certezze e maggiore libertà di espressione agli utenti, non mettendo nelle mani di intermediari responsabilità eccessive a cui conformarsi e che in ultima analisi possono portare a un filtraggio più intenso rispetto a quello legale necessario.

La regolamentazione ex ante: obblighi di accesso e il modello delle telecomunicazioni

Il secondo aspetto riguarda la necessità, ravvisata dalla Commissione, di considerare le grandi piattaforme online come controllori / gatekeeper tra imprese e cittadini, beneficiando di consistenti effetti di rete e impedendo in questo modo ai concorrenti, incluse le imprese europee, di poter competere, indipendentemente da quanto innovative ed efficienti possano essere.

In linea di principio e secondo la dottrina classica, la presenza di barriere all’ingresso e allo sviluppo, tali da determinare veri e propri fallimenti di mercato vanno sempre valutate con particolare attenzione e con alto grado di certezza, perché un intervento regolatorio ex ante è giustificato solo in caso appunto di fallimento di mercato. Questo perché in mancanza di evidenze empiriche, qualunque intervento ex ante rischia all’opposto di produrre effetti anti-concorrenziali sul mercato, per non parlare dell’ulteriore e ancor più grave vulnus di una regolazione non bilanciata in grado di ledere altri diritti fondamentali, che vanno nondimeno garantiti, come la tutela della libertà d’impresa e della privacy.

Una volta dimostrato questo (e ci auguriamo che nel documento del prossimo 9 dicembre vi siano anche le evidenze), si sostiene che l’esperienza derivante dalla regolamentazione ex ante dei servizi di telecomunicazione in materia di accesso all’infrastruttura (in questo caso immateriale) possa essere d’ispirazione, date le analogie esistenti con il controllo della rete e con gli effetti di rete. In tal senso si sostiene la possibile estensione degli obblighi relativi all’accesso e alla condivisione anche per le piattaforme online, che dispongano di un significativo potere di mercato, in virtù della superiore quantità di dati posseduti e delle maggiori capacità di acquisire e perfezionare, attraverso una migliore profilazione, le informazioni sugli utenti, mediante strumenti di analisi (algoritmi) e di elaborazione sempre più efficaci (Intelligenza Artificiale).

In Europa, in occasione del processo di liberalizzazione iniziato negli anni ’90, si è ritenuto ad esempio che la rete locale (ultimo miglio) di telecomunicazioni costituisse un monopolio naturale, dal momento che il ricorso alla rete locale è indispensabile per qualsiasi tipo di servizio da offrire all’utente finale. Da cui discende che l’utilizzo di un’infrastruttura non replicabile (nel senso che il costo della sua duplicazione sarebbe economicamente inefficiente) impone, attraverso prezzi regolati, l’obbligo di accesso ai concorrenti fornitori di analoghi servizi da parte del titolare dell’infrastruttura stessa.

Nel caso delle piattaforme online, l’analogia con le economie di rete è basata sul fatto che all’infrastruttura tradizionale della rete qui si sostituirebbe l’infrastruttura tecnologica attraverso la quale le grandi piattaforme digitali potrebbero disporre di un vantaggio competitivo collegato proprio ai notevoli investimenti “sopra la rete”, da qui la definizione over-the-top, anch’essi non facilmente replicabili, basati su elevati costi fissi irrecuperabili (sunk costs).

In questo specifico caso però anche le differenze sono molto marcate.

Nel caso delle reti di telecomunicazioni (e delle altre utilities) imporre l’obbligo d’accesso ad infrastrutture ritenute essenziali è apparso funzionale rispetto al fine di preservare lo sviluppo della concorrenza nei settori considerati. Nel caso delle public utilities (non necessariamente riconducibili a monopolio naturale) occorre anche considerare che spesso esse sono sorte grazie a forme di finanziamento pubblico e a sussidi di vario tipo. In tal caso, non si configurerebbe alcun esproprio, nella misura in cui il proprietario dell’infrastruttura non ha investito risorse proprie nell’attività che dovrebbe essere oggetto di condivisione e quindi non avrebbe ragione di opporsi al diritto d’accesso. Tale opposizione o determinerebbe l’esclusione dell’impresa dal mercato in cui intende competere o la obbligherebbe a sostenere con risorse proprie operazioni d’investimento che l’incumbent esistente ha finanziato con sussidi pubblici.

In tal senso, se una regolamentazione ex-ante può essere giustificata alle condizioni sopra indicate, imporre obblighi di accesso su infrastrutture immateriali appare come un limite eccessivo al diritto di chi le utilizza, di escludere dai frutti dei propri investimenti e più in generale da successo imprenditoriale, coloro che non avevano in alcun modo contribuito ad ottenerli [1].

Imporre un diritto all’accesso ex-ante ridurrebbe infatti drammaticamente l’incentivo ad investire (e ad innovare) che può conseguire dall’obbligo di concedere l’accesso. In tal senso potrebbe manifestarsi un classico trade-off fra efficienza statica e dinamica [2].

Ne discende che qualunque obbligo di accesso o condivisione dei dati debba essere valutato con particolare attenzione e prudenza e avallato solo in presenza di particolari condizioni, al fine di evitare di produrre effetti anticoncorrenziali sul mercato. Anche in questo caso, come nel precedente, la regolazione settoriale dovrà dunque essere limitata a circostanze eccezionali.

[1] Pur non rientrando a rigori nella fattispecie del free riding, la teoria della concorrenza cerca come noto di limitare comportamenti delle imprese riconducibili a fenomeni di parassitismo.

[2] Caillaud B., Tirole J., Essential facility financing and market structure, Journal of Public Economics, Elsevier, vol. 88 (3-4) 2004, pp. 667-694. https://ideas.repec.org/a/eee/pubeco/v88y2004i3-4p667-694.html

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