Discriminazione razziale e propaganda, obblighi di valutazione del contesto e critica politica tra diritto interno e diritto internazionale

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Corte di Cassazione, sez. I penale, 16 gennaio 2020, n. 1602

Corte di Cassazione, sez. V penale, 30 luglio 2019, n. 34815

 

Nel decidere la condanna in base alla legge n. 654/1975 per propaganda di idee discriminatorie e per istigazione all’odio razziale nei confronti di migranti, i giudici nazionali devono fornire una motivazione volta a ricostruire il contesto nel quale le dichiarazioni sono rese. In questo modo, è infatti assicurato un giusto bilanciamento tra libertà di espressione e divieto di discriminazione.

Un uomo politico, condannato per diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione etnica e razziale, che divulga attraverso una radio nazionale frasi contro un ministro per ragioni legate al colore della pelle o alla razza non può godere della scriminante del diritto di critica politica.

 

Sommario: 1. L’applicazione della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione in due pronunce della Corte di Cassazione. – 2. Il quadro internazionale sul divieto di propaganda finalizzata alla discriminazione. – 3. L’attuazione in Italia degli atti internazionali sul divieto di diffusione di idee discriminatorie. – 4. La propaganda con finalità di discriminazione e l’obbligo di valutazione del contesto. – 5. L’impossibilità di applicare la scriminante della critica politica.

 

 

  1. L’applicazione della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale in due pronunce della Corte di Cassazione

La proliferazione, in ogni parte del mondo, di manifestazioni di odio razziale e di discriminazioni nei confronti di determinati gruppi etnici o in generale di migranti, ha condotto, da un lato, al maggiore impegno nell’individuazione di strumenti, anche legislativi, per fronteggiare questi fenomeni e, dall’altro lato, a interventi dei giudici nazionali che sempre più di frequente si rivolgono al diritto internazionale per la corretta interpretazione delle norme interne che spesso sono adottate per assicurare l’attuazione effettiva di obblighi assunti sul piano internazionale.

In questa direzione appare interessante considerare due pronunce della Corte di Cassazione che permettono di svolgere alcune considerazioni sulla normativa italiana sui reati d’odio, con particolare riferimento al caso della propaganda discriminatoria e sull’attuazione del diritto internazionale sul piano interno con riguardo agli elementi necessari per accertare la commissione di un reato legato alla propaganda della discriminazione razziale. Si tratta, in particolare, della sentenza della I sezione penale, n. 1602/20, depositata il 16 gennaio 2020, relativa a un caso di propaganda di idee fondate sull’odio e della pronuncia n. 34815 resa dalla V sezione penale il 30 luglio 2019 che ha al centro un caso di diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione etnica e razziale che – come precisato dalla Suprema Corte – ha la stessa offensività del reato di propaganda razziale, permettendo, così, talune valutazioni d’insieme partendo da entrambe le pronunce[1].

Con la prima delle indicate sentenze, la Suprema Corte ha stabilito che le espressioni violente che invocano in modo cruento e plateale l’applicazione della pena capitale, riportate in alcuni manifesti, non sono ex se attività discriminatoria e il giudice di merito è tenuto a motivare la condanna degli autori di dette espressioni non limitandosi a indicare il manifesto, ma piuttosto procedendo a una ricostruzione del contesto, passaggio necessario per provare il contenuto discriminatorio di un messaggio e giustificare la condanna penale. Ed invero, per la Cassazione, la pronuncia della Corte di appello di Milano, che aveva condannato gli imputati per istigazione all’odio razziale in base alla legge n. 654/1975 (di ratifica della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, sulla quale ci soffermeremo nel secondo paragrafo), come modificata in varie occasioni, doveva essere annullata, con rinvio per un nuovo giudizio ad altra sezione, perché i giudici di secondo grado sono tenuti a procedere a un’adeguata ricostruzione della vicenda e a indicare come la manifestazione di odio in discussione provochi un concreto pericolo di comportamenti discriminatori in un determinato contesto. I giudici di merito avevano condannato due cittadini italiani che avevano esposto su un camion pubblicitario un manifesto con il messaggio “clandestino uccide tre italiani a picconate – pena di morte subito”. Il testo era accompagnato da un’immagine ancora più forte costituita da una ghigliottina con una lama grondante di sangue, l’immagine della testa di un uomo di colore decapitato e, in primo piano, la scritta pubblicitaria del negozio. Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza del 15 novembre 2017, aveva condannato i responsabili per aver propagandato idee fondate sull’odio razziale a 6 mesi di reclusione, con la concessione di alcuni benefici. La Corte di appello di Milano, con la pronuncia del 14 febbraio 2019, aveva confermato il verdetto e, quindi, i due autori avevano presentato ricorso in Cassazione sostenendo di essere stati condannati per il reato di cui all’art. 6 del d.l. n. 122 del 1993 («Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa»)[2], ma non per quello previsto dalla legge n. 654 del 1975 che era stato loro contestato, con violazione del contraddittorio ed errore nel trattamento sanzionatorio. Tra gli altri motivi, i ricorrenti sostenevano che fosse stato violato l’art. 21 della Costituzione che assicura la libera manifestazione del pensiero.

La Corte di Cassazione, come detto, ha accolto il ricorso nella parte in cui i giudici di merito non hanno adeguatamente motivato l’accertamento dell’esistenza di una propaganda discriminatoria per l’esposizione dei manifesti pubblicitari, aspetto sul quale intendiamo soffermarci nel prosieguo.

La propaganda discriminatoria per motivi legati alla razza è venuta in rilievo anche con la sentenza n. 34815 depositata il 30 luglio 2019 dalla V sezione penale. In questo caso, la Cassazione ha confermato la condanna disposta dalla Corte di appello di Milano per diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione etnica e razziale perpetrata dall’allora parlamentare europeo Mario Borghezio che, nel corso di una trasmissione radiofonica, aveva commentato la nomina di Cecile Kyenge a Ministro dell’integrazione definendola “del bonga bonga” e aggiungendo espressioni “noi non siamo congolesi”. In questo caso, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso dell’ex parlamentare infondato rilevando che la diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 3, comma 1 della l. 205/1993[3] è una “species” del più ampio genus dei discorsi di propaganda razziale ex art. 3, 1° comma, lett. a) della legge 654/1975 chiarendo, inoltre, che la propaganda di idee finalizzata all’odio razziale o etnico deve essere integrata non da «qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione ma solo da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori», specificando che «la ‘discriminazione per motivi razziali’ è quella fondata sulla qualità personale del soggetto e non – invece – sui suoi comportamenti». L’aggravante, quindi, opera solo nei casi in cui si manifesti un’azione che ha in sé un esplicito pregiudizio di inferiorità di una razza che si concretizza «nell’intenzionale esternazione del medesimo sentimento ed alla volontaria provocazione in altri di analogo sentimento di odio fino a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori», mentre non ha rilievo il fine specifico di incitamento all’odio razziale. La Cassazione, inoltre, ha ritenuto che i giudici di merito avessero valutato correttamente il contenuto integrale dell’intervista considerando il complessivo contesto comunicativo. È stata altresì respinta l’applicazione della scriminante del diritto di critica politica, sulla quale torneremo successivamente[4], anche per l’assenza della necessaria continenza espressiva.

Le due sentenze permettono, così, di svolgere alcune osservazioni sul reato di propaganda di idee finalizzata alla discriminazione razziale in relazione ai limiti e agli obblighi posti dal diritto internazionale. Pertanto, prima di alcune considerazioni sulle pronunce, è necessario precisare il quadro internazionale esistente, seppure nei limiti legati alle sentenze in esame.

 

  1. Il quadro internazionale sul divieto di propaganda finalizzata alla discriminazione

Un ruolo di primo piano in quest’ambito è svolto, infatti, da atti internazionali come, per limitarci a quelli di portata universale e a quelli più significativi in relazione ai casi qui esaminati, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, il 9 dicembre 1948, la quale prevede, oltre all’uguaglianza di ogni essere umano (art. 1), che ogni individuo ha diritto a una eguale tutela contro la discriminazione nonché contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione (art. 7)[5] e che i diritti inclusi in tale atto non possono essere esercitati in modo contrario ai fini e ai principi delle Nazioni Unite (art. 29, 3° comma), che incoraggiano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione. Centrale, come visto nelle due sentenze della Cassazione, è stata ed è la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, adottata a New York il 21 dicembre 1965, in vigore sul piano internazionale dal 4 gennaio 1969 e ratificata dall’Italia con la legge 13 ottobre 1975 n. 654, che contiene anche l’ordine di esecuzione (in vigore per l’Italia dal 4 febbraio 1976)[6]. Tale atto dispone che è vietata «ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e discriminazione razziale» (art. 4). Inoltre, secondo la Convenzione, gli Stati sono tenuti ad adottare anche misure positive per realizzare gli obblighi convenzionali[7].

Grazie all’art. 8 è stato istituito un Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale con il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione da parte degli Stati e, previa dichiarazione di accettazione di competenza sempre ad opera degli Stati parti, con il compito di ricevere ed esaminare comunicazioni di persone o gruppi di persone che si lamentino di essere vittime di una violazione di uno dei diritti stabiliti nella Convenzione[8]. A tale Trattato è seguito il Patto sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966[9]: l’art. 26 impone agli Stati di punire «ogni discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione» e, inoltre, in modo innovativo per quei tempi, l’art. 20 sancisce il divieto per coloro che esercitano la libertà di espressione di «ogni appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza»[10], così come ogni propaganda a favore della guerra. A sottolineare l’importanza di impedire forme di discriminazione che portano a compromettere ogni diritto umano, vale la pena ricordare l’art. 4 che ammette la possibilità per gli Stati di prendere talune misure, in caso di pericolo pubblico eccezionale, per derogare agli obblighi imposti dal Patto, ma a condizione che dette misure non comportino una discriminazione fondata sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale.

Sul piano regionale, limitando l’analisi al contesto europeo, giova ricordare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, citata nella sentenza Borghezio, il cui art. 14 dispone che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella Convenzione deve essere assicurato senza distinzione di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale etc., norma che opera solo in collegamento con la violazione di altri diritti sostanziali riconosciuti nella Convenzione. Tuttavia, con il Protocollo n. 12, adottato il 4 novembre 2000 (in vigore sul piano internazionale dal 1° aprile 2005) – che non è stato ratificato da tutti gli Stati del Consiglio d’Europa, inclusa l’Italia -, il divieto generale di discriminazione ha assunto una portata autonoma, prevedendo, altresì, che «nessuno può essere oggetto da parte di un’autorità pubblica di una qualunque discriminazione fondata in particolare sui motivi elencati al paragrafo 1», il quale dispone il divieto di discriminazione fondato «sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o sociali, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra situazione».

Rispetto al Patto sui diritti civili e politici, la Convenzione europea non esplicita, nel riconoscimento del diritto alla libertà di espressione di cui all’art. 10[11], il divieto di hate speech, prevedendo, però, che tale libertà, «comportando doveri e responsabilità», possa essere sottoposta «a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». Tuttavia, grazie alla giurisprudenza della Corte europea, sin dalla sentenza del 23 settembre 1994, Jersild c. Danimarca[12], è stato stabilito che l’incitamento all’odio è in contrasto con i principi e i valori affermati dalla Convenzione e non rientra nell’ambito del diritto alla libertà di espressione. Tra l’altro, la Corte europea ha fornito indicazioni agli Stati precisando che un discorso o un articolo costituiscono un incitamento all’odio in presenza di due requisiti che devono essere cumulativamente presenti: l’utilizzo di espressioni che minano la dignità umana, con un carattere discriminatorio e il particolare contesto nel quale i discorsi sono pronunciati, anche se tale ultimo elemento non è stato considerato in presenza di un evidente incitamento all’odio in grado di fare apparire subito il contrasto delle dichiarazioni rese con i valori fondamentali come la tolleranza, la pace sociale e la non discriminazione[13]. Così, ad esempio, nella sentenza del 4 dicembre 2003, Gündüz c. Turchia, ricorso n. 35071/97, la Corte ha osservato che un discorso va inquadrato tra i casi di incitamento all’odio in presenza di espressioni che minano la dignità umana, con un carattere discriminatorio e del particolare contesto nel quale i discorsi sono pronunciati. In quell’occasione, la Corte ha ritenuto che la condanna del ricorrente pronunciata dai tribunali turchi fosse in contrasto con la Convenzione perché, pur essendo presente il primo requisito indicato, valutando il contesto, non si poteva ritenere che vi fosse stato un caso di hate speech. Nella decisione sulla ricevibilità del 20 febbraio 2007, Ivanov c. Russia, ricorso n. 35222/04, la Corte, invece, ha dichiarato irricevibile il ricorso perché la pubblicazione degli articoli che incitavano all’odio contro gli ebrei non poteva usufruire della protezione di cui all’art. 10 in quanto in contrasto con valori fondamentali come la tolleranza, la pace sociale e la non discriminazione, rilevando, però, che non era necessario valutare il contesto a causa del carattere marcatamente antisemita delle dichiarazioni.

I principi affermati dalla Corte sono stati enunciati dal Comitato dei Ministri nella raccomandazione R(97)20 del 30 ottobre 1997 con la quale il Comitato ha chiesto agli Stati di combattere l’hate speech che riguarda «all forms of expression which spread, incite, promote or justify racial hatred, xenophobia, anti-Semitism or other forms of hatred based on intolerance…».

Per quanto riguarda l’Unione europea è da ricordare l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali in base al quale «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale»[14]. Tra gli atti di diritto comunitario derivato si può ricordare, tra i tanti, la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica[15] e la decisione quadro 2008/913/Gai del 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale[16].

 

  1. L’attuazione in Italia degli atti internazionali sul divieto di diffusione di idee discriminatorie

 Il quadro normativo nazionale, come detto, è in gran parte fondato sulla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale e, quindi, sulla citata legge n. 654/1975 il cui originario art. 3 ha introdotto il reato di diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, nonché l’incitamento a commettere atti di violenza o di provocazione alla violenza «nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale». La pena prevista era la reclusione da uno a quattro anni. Successivamente, con la legge 25 giugno 1993, n. 205 (nota come legge Mancino) di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 122/1993 «recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa»[17], la sanzione è passata alla reclusione sino a 3 anni. Inoltre, ai casi di incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, è stato aggiunto quello per motivi religiosi[18]. Ulteriori modifiche nel segno dell’alleggerimento della pena sono state apportate con l’art. 13, comma 1 della legge 24 febbraio 2006 n. 85 (con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro per la propaganda, che ha sostituito la diffusione di idee ed istigazione, termine che ha sostituito l’incitamento). Successivamente, con la modifica apportata con la legge 16 giugno 2016 n. 115, l’art. 3 è stato inserito all’interno del codice penale con il d.lgs 1° marzo 2018 n. 21 e, in particolare, negli artt. 604-bis e 604-ter dedicati al divieto di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa[19]. Inoltre, a completare il quadro, è intervenuta la legge 25 ottobre 2017 n. 163 «Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017», con la quale, per assicurare la completa attuazione della citata decisione quadro 2008/913/GAI, è stata modificata l’aggravante del negazionismo aggiungendo i casi di minimizzazione grave o l’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità, dei crimini di guerra come stabiliti nello Statuto della Corte penale internazionale. L’indicata decisione quadro impone agli Stati di punire in sede penale, tra gli altri, i reati di «istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica» (art. 1, lett. a)[20].

 

  1. La propaganda con finalità di discriminazione e l’obbligo di valutazione del contesto

Ricostruito il quadro esistente, seppure sommariamente e per i soli fini di analisi delle sentenze in oggetto, passiamo ad analizzare le questioni problematiche in relazione all’applicazione delle regole internazionali indicate, sollevate dalle due citate pronunce tenendo conto che in entrambe le sentenze si è posta la questione di individuare gli elementi costitutivi del reato di propaganda di idee fondate sull’odio razziale e di fissare il punto di equilibrio tra diritto alla libertà di espressione e divieto di discriminazione. Precisato che “diffusione di idee” e “propaganda” vanno interpretate nel senso di una continuità della fattispecie[21], nella sentenza n. 1602/20, la Cassazione ha considerato errato il percorso logico giuridico seguito dai giudici di merito secondo i quali il richiamo “in modo cruento e plateale” all’applicazione della pena di morte è di per sé un’attività discriminatoria in quanto collegata al colore della pelle dell’uomo accusato di omicidio. La mancata ricostruzione del contesto da parte dei giudici di primo e di secondo grado impedisce – osserva la Cassazione – la comprensione del carattere “discriminatorio della pubblicità esposta sul camion” che sembra legata ai comportamenti degli individui oggetto del manifesto, accusati di triplice omicidio, piuttosto che alla qualità personale del soggetto destinatario dei messaggi discriminatori e, quindi, in sostanza, all’individuo in quanto appartenente ad un gruppo. Ci sembra, inoltre, in aggiunta a quanto sostenuto dalla Cassazione, che solo un’adeguata motivazione permette di cogliere la matrice discriminatoria e razzista del fatto e di procedere a una corretta imputazione e condanna che poi regga anche al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, in diverse occasioni, ha sottolineato che nei casi di ricorsi per violazione dell’art. 10 della Convenzione in caso di condanne per diffamazione o incitamento alla discriminazione va tenuto conto del contesto nel quale le manifestazioni sono rese proprio per raggiungere un giusto bilanciamento tra i diritti in gioco.

Per quanto riguarda la necessità di fare riferimento alla qualità personale del soggetto che viene colpito per ciò che rappresenta e non per i suoi comportamenti, la Cassazione ha evidenziato il rilievo di tale aspetto anche nella pronuncia Borghezio nella quale è stato rilevato che non è necessario il fine specifico di un incitamento all’odio, ma è sufficiente l’esternazione di una condizione di inferiorità «attribuita a soggetti determinati e fatta derivare dall’appartenenza ad una determinata razza».

In sostanza, per accertare l’effettiva commissione del reato o dell’aggravante nel caso di diffamazione, è necessario individuare un preciso collegamento tra qualità del soggetto che viene colpito in base a una sua specifica caratteristica, come l’appartenenza a un gruppo, e il messaggio, mentre non rilevano i suoi comportamenti. Nel caso Borghezio, le dichiarazioni dell’ex parlamentare europeo avevano al centro proprio l’etnia e la razza, mentre nel caso del manifesto pubblicitario, a causa della mancata analisi del contesto, non è stato chiarito se il manifesto pubblicitario fosse legato al dato fattuale del reato presumibilmente commesso dai tre migranti o alla sola razza dei tre individui.

È poi rilevante, come detto, il contesto in cui si colloca la singola condotta che serve, altresì, ad «assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione» (sentenza n. 1602, par. 3.1). La Cassazione, proprio nel caso del manifesto pubblicitario, ritiene necessario che i giudici di merito non si limitino a stabilire che le espressioni riportate siano “ex se attività discriminatoria” in ragione della contrapposizione tra “clandestino”, di pelle nera, e gli italiani, anche in connessione all’esibizione di una ghigliottina con la testa decapitata di un uomo, perché nel giudizio di merito è necessario dimostrare che l’odio razziale o etnico sia integrato «da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, idoneità che nel caso di specie non è stata in alcun modo indagata dai giudici di merito e che viene, anzi, di fatto presunta in base alla circostanza dell’esposizione al pubblico del manifesto pubblicitario». Sembra evidente, quindi, che si debba dimostrare la concreta pericolosità del fatto non delimitata, però, al momento in cui la comunicazione controversa viene effettuata, consentendo così una più ampia applicazione, con un accertamento, però, del contesto.

Resta da vedere se la richiesta degli indicati elementi ai fini della punibilità sia conforme alla Convenzione del 1965 il cui art. 4 chiede agli Stati parti di procedere alla condanna di ogni propaganda basata sulla superiorità della razza o di un gruppo di individui «di un certo colore o di una certa origine etnica», precisando, alla lett. a), che va considerata punibile la diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale nonché ogni incitamento alla discriminazione, non legando la previsione del reato e l’esigenza punitiva necessaria anche come deterrente alla perpetrazione di comportamenti discriminatori, a una valutazione del contesto[22].

Tuttavia, taluni chiarimenti sulla norma in esame sono arrivati dal Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) che, nelle Osservazioni generali n. 35 presentate il 26 settembre 2013, relative all’art. 4[23] e intitolate “Combating racist hate speech”[24], precisato che malgrado la Convenzione non parli espressamente di hate speech è a questo che si intende fare riferimento[25], ha sottolineato che bisogna tener conto della natura del discorso e del suo contenuto, del contesto, dello status di chi compie il messaggio e della portata. L’art. 4 non fornisce un elenco o elementi per la qualificazione di un fatto come propaganda da proibire; tuttavia, il Comitato ha chiarito che discorsi che in determinato contesto sono neutri, in altri possono risultare pericolosi, provocando una progressione di eventi di matrice discriminatoria.

Proprio la valutazione del contesto, a nostro avviso, è poi essenziale per contemperare l’esigenza di punire la propaganda di idee e la discriminazione per motivi razziali con la libertà di espressione. Ci sembra, quindi, che la richiesta di motivare, sulla base del contesto, le ragioni che portano a una condanna per propaganda con fine discriminatorio prospettata dalla Cassazione, come elemento per individuare anche la pericolosità del fatto, sia conforme alla Convenzione. D’altra parte, proprio perché è in gioco un bilanciamento tra diritti, poggiare una condanna sul solo dato formale ossia l’espressione riprodotta nel manifesto porterebbe a un ridimensionamento troppo forte del diritto alla libertà di espressione che in determinati Stati potrebbe dare vita ad abusi. In questo senso, si può richiamare quanto sostenuto da un componente del Comitato, Carlos Manuel Vazquez, nell’opinione dissenziente allegata alla Comunicazione TBB-Tukish in Berlin contro Germania[26] – con la quale il Comitato ha accolto il ricorso – il quale ha osservato che «…States parties should take account of the context and the genre of the discussion in which the statememts were made».

Nella stessa direzione è orientata la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con la citata sentenza Gündüz c. Turchia, ha chiarito che un discorso o un articolo costituiscono un incitamento all’odio in presenza di due requisiti che devono essere cumulativamente presenti: l’utilizzo di espressioni che minano la dignità umana, con un carattere discriminatorio, e il particolare contesto nel quale i discorsi sono pronunciati[27]. Tale orientamento è stato confermato in altre occasioni come ad esempio nella sentenza dell’11 gennaio 2000, News Verlags GmbH & CoKG c. Austria, ricorso n. 31457/96 e nella sentenza del 10 luglio 2008, Soulas e altri c. Francia, ricorso n. 15948/03, nella quale la Corte ha sottolineato che «L’ouvrage litigieux a été publié dans un contexte qui, en France, est particulier» (par. 52), giustificando così la condanna. Ancora più di recente, poi, la Corte, con la sentenza del 7 luglio 2020, Rashkin c. Russia, ricorso n. 69575/10, ha osservato che i giudici nazionali non avevano preso in considerazione il contesto nel quale il politico aveva reso le sue dichiarazioni e, così, la Corte ha accolto il ricorso del politico condannato per diffamazione con finalità discriminatorie a causa di alcune espressioni utilizzate durante un comizio elettorale[28], proprio a causa della mancata valutazione del contesto. Quest’ultima serve anche per graduare gli interventi punitivi, considerando che non in ogni occasione è necessario, per fronteggiare la diffusione di idee discriminatorie, procedere sul piano penale in quanto gli Stati, proprio perché tenuti ad adottare misure positive, devono individuare gli strumenti ritenuti migliori per raggiungere gli obiettivi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della stessa Convenzione. È stato lo stesso CERD, in varie occasioni, a rilevare che gli Stati devono accertare se la misura di natura penale sia necessaria e proporzionale e, nell’effettuare tale accertamento, devono tenere conto di numerosi fattori tra i quali la forma con la quale la dichiarazione è diffusa, le persone che possono essere raggiunte dalla comunicazione e se la dichiarazione offensiva è rivolta direttamente a un gruppo. Il test sulla proporzionalità e la necessarietà in una società democratica di una misura che incide sulla libertà di espressione, giustificata da un bisogno sociale imperativo costituito, in questi casi, dalla tutela della dignità umana, è centrale anche nella giurisprudenza della Corte europea.

Pertanto, la richiesta di una motivazione in ordine al contesto imposta dalla Cassazione ai giudici di merito è anche funzionale ad evitare condanne da Strasburgo tenendo conto che la stessa Corte europea procede a verificare che tale attività, come avvenuto con la sentenza del 23 luglio 2019 Gürbüz c. Turchia (ricorso n. 8860/13), sia stata svolta dai giudici nazionali tenuti a «porter attention aux termes employés et au contexte dans lequel leur publication s’inscrit» (par. 35). Nella stessa direzione, con la sentenza dell’11 febbraio 2020, Atamanchuk c. Russia (ricorso n. 4493/11), la Corte europea ha respinto il ricorso di un uomo d’affari condannato per incitamento all’odio e alla discriminazione sulla base dell’etnia perché i tribunali nazionali hanno attentamente valutato il contesto nel quale il limite alla libertà di espressione era stato applicato.

Alla luce di quanto detto, quindi, possiamo ritenere che le sentenze della Cassazione rispettino gli standard internazionali.

Un’unica affermazione della Corte di Cassazione, nella sentenza Borghezio, non ci sembra del tutto condivisibile ossia che, ad avviso della Suprema Corte, l’orientamento di Strasburgo sia cambiato nel senso che in passato i ricorsi per violazione dell’art. 10 in materia di istigazione all’odio razziale erano respinti e considerati inammissibili per contrasto con l’art. 17[29] che vieta l’abuso del diritto stabilendo che nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato o gruppo o individuo di esercitare un’attività «mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciti nella presente Convenzione…», mentre oggi «un più recente approccio suggerisce…che tutti i casi di libertà di espressione siano trattati alla luce dell’art. 10, par. 1, e che ogni ingerenza con il diritto sia vagliata alla luce del test di necessità dell’art. 10, par. 2». In realtà, a ben vedere, in quest’ambito è indispensabile un’analisi caso per caso ed è così difficile desumere un preciso orientamento, anche se la Corte ricorre all’art. 17 nei casi in cui è “del tutto chiaro” che quanto dichiarato a titolo di libertà di espressione è manifestamente contrario ai valori convenzionali e viene utilizzato per colpire proprio il fine specifico dell’art. 10 della Convenzione e per comprometterne i valori (si veda la sentenza del 17 dicembre 2013, Perincek c. Svizzera, n. 27510/08, par. 114, confermata dalla Grande Camera con sentenza del 15 ottobre 2015). Ed invero, nella decisione M’Bala M’Bala (noto come Dieudonné) c. Francia (ricorso n. 25239/13) del 20 ottobre 2015, la Corte ha addirittura applicato l’art. 17 non solo con riguardo a manifestazioni esplicite e dirette per le quali non è necessaria alcuna interpretazione, ma anche con riferimento alle espressioni antisemite “travestie sous l’apparence d’une production artistique”, ritenendo tali espressioni “dangereuse qu’une attaque frontale et abrupte” (par. 40)[30].

In ogni caso, l’applicazione dell’art. 10, par. 2 non ha conseguenze negative rispetto al divieto di propaganda di idee incentrate sulla discriminazione razziale  perché richiede unicamente una maggiore attenzione nell’accertare che il bilanciamento sia stato corretto e che la misura limitativa della libertà di espressione sia stata necessaria in una società democratica e proporzionale, oltre a garantire una valutazione del contesto che, come visto poc’anzi, è alla base anche dell’applicazione dell’art. 4 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.

 

  1. L’impossibilità di applicare la scriminante della critica politica

Nella sentenza n. 34815 relativa alla vicenda dell’ex europarlamentare Mario Borghezio è stata affrontata anche la questione dell’applicabilità della scriminante del diritto di critica politica. La Cassazione, a nostro avviso, ha correttamente respinto il ricorso dell’ex parlamentare europeo anche su questo punto sia per il tenore delle espressioni adoperate che contenevano “un’esplicita forma di disprezzo”, indice dell’assenza della continenza espressiva che è necessaria anche quando si esercita il diritto di critica, sia in forza delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Proprio la Corte di Strasburgo, che ha ormai consolidato un orientamento volto a rafforzare e privilegiare il diritto alla libertà di espressione – anche in quanto diritto doppio che si sostanzia in un diritto attivo a informare e in un diritto passivo a ricevere comunicazioni – ha sottolineato che anche nei giudizi di valore, non suscettibili di dimostrazione, nei quali è ammissibile un grado di esagerazione e di provocazione, è necessario che ci sia un nucleo fattuale sufficiente altrimenti il «giudizio è gratuito e pertanto ingiustificato e diffamatorio». Inoltre, la stessa Corte europea ha negato protezione ad attacchi personali gratuiti e giustificato la misura detentiva nei confronti di chi commette atti di incitamento alla violenza.

Ci sembra, d’altra parte, che se è vero che la protezione della libertà di espressione all’interno di dibattiti politici debba godere di una protezione ampia, anche quando si tratti di idee controverse, è anche vero che l’esercizio dell’indicata libertà non deve compromettere il diritto all’uguaglianza e il divieto di discriminazione[31]. A ciò si aggiunga un ulteriore elemento: le dichiarazioni di un politico hanno, in via generale, una diffusione più ampia rispetto a quelle del singolo individuo perché non solo il politico si avvale di strumenti a larga diffusione come, nel caso di specie, di una radio nazionale, ma anche perché le dichiarazioni rese sono riprese dalle agenzie di stampa, dai social network e da altri organi d’informazione, con la conseguenza che le indicate dichiarazioni discriminatorie hanno più possibilità di produrre effetti negativi. Sin dalla sentenza del 16 luglio 2009, Féret c. Belgio, ricorso n. 15615/07, la Corte ha ritenuto conforme alla Convenzione la condanna decisa dai tribunali nazionali di un parlamentare belga che, con volantini, utilizzava slogan contro gli immigrati, sostenendo che la «liberté de discussion politique ne revêt assurément pas un caractère absolu»: in particolare, per prevenire o sanzionare lesioni alla dignità degli esseri umani, le autorità nazionali hanno il diritto/dovere di intervenire proprio perché «Les discours politiques qui incitent à la haine fondée sur les préjugés religieux, ethniques ou culturels représentent un danger pour la paix sociale et la stabilité politique dans les Etats démocratiques» (par. 73)[32]. Così, con la decisione del 20 aprile 2010 relativa al caso Le Pen c. Francia, la Corte di Strasburgo ha affermato l’importanza della lotta contro le discriminazioni razziali sotto tutte le sue forme e manifestazioni e, nel respingere il ricorso del politico dell’estrema destra Le Pen, condannato per i suoi discorsi contro gli immigrati, ha rilevato che il comportamento delle autorità francesi era stato corretto perché il proposito del politico era quello di dare un’immagine negativa di un’intera collettività e di suscitare un sentimento di ostilità verso un determinato gruppo di persone. Pertanto, la misura restrittiva della libertà di espressione era necessaria in una società democratica anche se – a dire del ricorrente – incideva negativamente sul dibattito politico[33].

Nulla poi, nelle dichiarazioni al centro della pronuncia n. 34815/19 permette di individuare una critica politica ma, anzi, come evidenziato dalla Cassazione, le dichiarazioni si concentrano «sul Ministro Kyenge, sia quale persona, nella specifica connotazione di genere e razziale, che quale responsabile del Dicastero assegnatole, alla quale viene riservato un vero e proprio attacco ad hominem, ingiustificato per la gratuità delle offese, portate ben oltre la lecita manifestazione di un’opinione dissenziente rispetto alla composizione ed al mandato politico di un Esecutivo tecnico» (par. 3.1 della sentenza). Che proprio un politico, poi, tenuto, a nostro avviso, “a dare un esempio”, invece di articolare una critica politica “esprima disprezzo… rimarcandone il genere femminile e l’origine etnica…squalificandone la figura professionale e marcandone l’inferiorità razziale», impone un’applicazione rigorosa del divieto di propaganda di idee discriminatorie. Con la conseguenza che non solo è necessario punire chi divulga e fa propaganda discriminatoria, ma è anche indispensabile non accordare protezione a espressioni che non devono godere di alcuna tutela nell’ambito dell’esercizio del diritto alla libertà di espressione. Pertanto, a nostro avviso, accanto all’insussistenza «della invocata scriminante dell’esercizio del diritto di critica politica, in difetto della necessaria continenza espressiva» va considerato che gli insulti non rientrano nell’esercizio della libertà di espressione, anche nel dibattito politico, se incitano alla discriminazione. Le espressioni «gravemente infamanti e inutilmente umilianti», sicuramente offensive, non possono così godere della scriminante della critica politica e anzi, proprio nel caso di politici – che devono essere particolarmente attenti alla democrazia e all’impatto potenziale sulla società che può avere una dichiarazione d’odio – non può essere invocata la libertà di espressione o la critica politica. Anche il Parlamento europeo, d’altra parte, con decisione del 25 ottobre 2016, aveva respinto la richiesta in difesa dell’immunità invocata da Borghezio tanto più che le dichiarazioni rese nell’intervista radiofonica non avevano alcun collegamento diretto ed evidente con le sue attività di parlamentare[34].

La necessità di assicurare la punizione di coloro che fomentano discriminazione razziale e di genere è quindi maggiore nel caso di interventi di politici, diffusi quasi sempre su larga scala. A tal proposito, va ricordato che il CERD, già da tempo, ha raccomandato all’Italia di assicurare che ogni individuo «including politicians at all levels, are held accountable and sanctioned for the dissemination of ideas based in racial superiority or hatred»[35]. Appare così evidente che l’immunità non può certo essere estesa a dichiarazioni discriminatorie rese da politici che non solo dovrebbero rappresentare un modello per la collettività, ma i cui discorsi sono largamente amplificati e diffusi. Ed invero, l’indicato Comitato, «…[it]also expressed deep concerns about racist discourse in politics…and the immunity that has shielded parliamentarians who have made racist remarks»[36].

Pertanto, la pronuncia della Cassazione nel caso Borghezio, anche sotto questo profilo, è in perfetta sintonia con i principi e gli obblighi internazionali[37].

 

 

[1] Entrambe le pronunce sono reperibili nel sito https://www.cortedicassazione.it.

[2] In GU n. 97 del 27 aprile 1993, convertito con modificazioni con legge 25 giugno 1993 n. 205, in GU del 26 giugno 1993 n. 148.

[3] Supra, n. 2.

[4] Si rinvia al par. 5.

[5] Si veda, tra la sterminata bibliografia, R. Pisillo Mazzeschi, Diritto internazionale dei diritti umani. Teoria e prassi, Torino, 2020, in specie 294, il quale sottolinea che «il divieto generale di discriminazione…deriva, più che da una norma, da un vero e proprio principio generale che sovrintende all’intero settore dei diritti umani, perché alla base di tale sistema vi sono sia l’idea dell’universalismo (come riconoscimento globale) dei diritti fondamentali sia quella, strettamente collegata, per cui gli Stati devono garantire tali diritti a tutti gli esseri umani senza discriminazioni».

[6] Cfr. I. Dore, United Nations Measures to Combat Racial Discrimination: Progress and Problems in Retrospect, in Denver Journ. Int. Law, 2020, 299 ss.; L. Manca, Sul contrasto al racial Hate Speech nella prassi del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale, in OIDU, 2018, 457 ss.; M. Goldmann e M. Sonnen, Soft Authority Against Hard Cases of Racially Discriminating Speech: Why the CERD Committee Needs a Margin of Appreciation Doctrine, reperibile in https://ssrn.com, 2015.

[7] Le traduzioni in italiano degli atti internazionali citati nel presente lavoro sono reperibili in R. Luzzatto – F. Pocar, Codice di diritto internazionale pubblico, Torino, 2016.

[8] Si veda anche il Rabat Plan of Action on the prohibition of advocacy of national, racial or religious hatred that constitutes incitement to discrimination, hostility or violence, 11 gennaio 2013, A/HRC/22/17/Add.4, reperibile nel sito https://www.ohchr.org, nonché The UN Strategy and Plan of Action on Hate Speech, 2019, https://www.un.org.

[9] I testi e la documentazione sono reperibili nel sito http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrc/index.htm. Per quanto riguarda i ricorsi individuali al Comitato si veda http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrc/procedure.htm.

[10] Cfr. M. Castellaneta, L’hate speech: da limite alla libertà di espressione a crimine contro l’umanità, in G. Venturini – S. Bariatti (a cura di), Diritti individuali e giustizia internazionale, Liber Fausto Pocar, Milano, 2009, 157 ss.; P. Lambert, Racisme et liberté d’expression dans la Convention européenne des droits de l’homme, in P. Mahoney (a cura di), Protection des droits de l’homme: la perspective européenne, Mélanges à la mémoire de Rolv Ryssdal, Köln, Berlin, Bonn, München, 2000, 735 ss.

[11] Cfr. T. McGonagle, Freedom of Expression and Defamation, Strasbourg, 2016.; M. Oetheimer –  A. Cardone, Art. 10, in S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di),  Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 397 ss.

[12] La Corte ha rilevato che l’hate speech non è protetto dal diritto alla libertà di espressione, anche se la condanna al giornalista, inflitta dai tribunali nazionali perché il codice penale danese vieta i discorsi di incitamento all’odio, era in contrasto con l’art. 10 perché le interviste a un gruppo di giovani neonazisti erano state condotte durante una trasmissione televisiva destinata a un pubblico “ben informato” e perché il giornalista aveva controbilanciato le affermazioni, non incitando all’odio.

[13] Va ricordato che anche la Carta sociale europea nella sua versione riveduta nel 1996, in vigore dal 1999, ha introdotto, rispetto alla versione del 1961, all’articolo E, il divieto di discriminazione.

[14] Il par. 2 dell’art. 21 stabilisce, inoltre, che «Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità». L’art. 20 assicura il diritto di uguaglianza di tutte le persone dinanzi alla legge.

[15] In GUCE L 180, 18 luglio 2000, 22 ss. Si veda anche la direttiva 2000/78 del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in GUCE L 303 del 2 dicembre 2000, 16 ss., recepite, la prima con il decreto legislativo n. 215 del 9 luglio 2003 (in GU n. 186 del 12 agosto 2003) e, la seconda, con il decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003 (in GU  n. 187 del 13 agosto 2003). Con la legge n. 167/2017 è stato inserito nel Decreto legislativo n. 231/2001 il reato di istigazione e incitamento al razzismo e alla xenofobia con la previsione della responsabilità delle società punite con una sanzione pecuniaria.

[16] In GUUE L 328, 6 dicembre 2008, 55 ss. Nella direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI (in GUUE L 315, 14 novembre 2012, 57 ss., recepita in Italia con decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212) le vittime di messaggi di incitamento all’odio sono incluse tra quelle particolarmente vulnerabili.

[17] Cfr., tra gli altri, E. Fronza, Il negazionismo come reato, Milano, 2012; M. Manetti, Libertà di pensiero e negazionismo, in M. Ainis (a cura di),  Informazione, potere, libertà, Torino, 2008, 41 ss.

[18] E’ altresì punita la partecipazione ad organizzazioni o associazioni che propugnano detta discriminazione.

[19] Riguardo alla sostituzione dei termini indicati, la Corte di Cassazione, III sezione penale, con la sentenza n. 37581 del 7 maggio 2008 ha evidenziato una continuità tra le fattispecie incriminatrici con la conseguenza che il cambiamento dei termini non incide in alcun modo sulla fattispecie punita in sede penale. Cfr. G. Pavich – A. Bonomi, Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione la normativa vigente, in Dir. Pen. Cont, 2014, 10 ss.

[20] Cfr. la Comunicazione sul recepimento della decisione quadro presentata dalla Commissione europea il 27 gennaio 2014 (COM(2014)27), nonché il parere dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali dell’Unione europea n. 2/2013 del 15 ottobre 2013, reperibile nel sito http://www.fra.europa.eu.

[21] Si veda supra, nota n. 19.

[22] Si veda il rapporto sull’Italia del 6 marzo 2019, CERD/C/ITA/21, reperibile nel sito https://www.ohchr.int. Nell’allegato al rapporto sono riportate le sentenze più significative sull’applicazione della Convenzione.

[23] Sulla stessa disposizione si vedano le Osservazioni generali n. 7 sull’attuazione dell’art. 4 (INT_CERD_Gec_7479).

[24] CERD/C/GC/35.

[25] Si veda T. McGonagle, General Recommendation 35 on Combating Racist Hate Speech, in D. Keane – A. Waughray (a cura di), Fifty Years of the International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination. A living Instrument, Manchester, 2017, 246 ss.

[26] Documento CERD/C/82/D/48/2010, 10 maggio 2013, par. 14 dell’opinione.

[27] La Corte ha sottolineato l’importanza della lotta contro la discriminazione razziale e ha ritenuto conforme alla Convenzione la condanna dei tribunali francesi nei confronti dei ricorrenti autori di un libro e di articoli contro gli immigrati musulmani perché i giudici nazionali avevano fondato la condanna degli autori e dell’editore sulla valutazione che detto testo fosse, nel contesto in cui le idee erano diffuse, un incitamento alla discriminazione, all’odio e alla violenza nei confronti di un gruppo in ragione della loro origine.

[28] Si veda il par. 14 e le sentenze lì richiamate. Cfr. anche la sentenza del 13 marzo 2018, Stern Tarlats e Roura Capellera c. Spagna, ricorsi n. 51168/15 e n. 51186/15, par. 41.

[29] Sull’art. 17 si veda, tra gli altri, F. Falconi, Alcune considerazioni sull’abuso della libertà di espressione nella giurisprudenza di Strasburgo, in Studi sull’integrazione europea, 2020, 359 ss.; C. Frances Moran, Responsibility and freedom of speech under article 10, in Eur. Hum. Rights Law Rev., 2020, n. 1, 67 ss.; P. Tanzarella, Discriminare parlando. Il pluralismo democratico messo alla prova dai discorsi d’odio razziale, Torino, 2020; Id., Il caso Taormina e la Corte di giustizia. Dalla libera espressione alla discriminazione, in mediaLaws, 2020, 289 ss.; M. Castellaneta, Il negazionismo tra abuso del diritto e limite alla libertà di espressione in una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2019, n. 2, 311 ss.; Id., L’hate speech: da limite alla libertà di espressione a crimine contro l’umanità, cit., 157 ss.; C. Caruso, L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale, in Quaderni costituzionali, 2017,  963 ss.; M. E. Villiger, Article 17 ECHR and freedom of speech in Strasbourg practice, in J. Casadevall – E. Myjer – M. O’Boyle – A. Austin (a cura di), Freedom of Expression, Essays in honour of Nicolas Bratza, Oisterwijk, 2012, 321 ss.; I. Hare, Extreme Speech Under International and Regional Human Rights Standards, in I. Hare, J. Weinstein (a cura di),  Extreme Speech and Democracy, Oxford, 2009, 62 ss.; A. Weber, Manual on hate speech, Strasbourg, 2009; O. Pollicino, La repressione del negazionismo e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in Diritti umani e diritto internazionale, 2011, 85 ss.

[30] Così nella decisione di irricevibilità Belkacem c. Belgio (ricorso n. 34367/14) depositata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 20 luglio 2017: nei casi di incitamento all’odio non è necessario accertare la proporzionalità della sanzione disposta dalle autorità nazionali competenti, a differenza di quanto accade nelle fattispecie di compressione dell’art. 10 per motivi quali la tutela della reputazione altrui, permettendo così agli Stati una maggiore potestà punitiva.

[31] In questa direzione si veda anche il par. 26 delle Osservazioni generali n. 35.

[32] Nella sentenza «La Cour rappelle qu’il importe au plus haut point de lutter contre la discrimination raciale sous toutes ses formes et manifestations (Jersild c. Danemark, 23 septembre 1994, § 30, série A no 298) et renvoie au texte des différentes résolutions du Comité des Ministres du Conseil de l’Europe relatives à l’action de l’ECRI, ainsi qu’aux travaux et aux rapports de celle-ci, qui démontrent la nécessité de mener à l’échelle européenne en général, et à celle de la Belgique en particulier, une action ferme et soutenue pour lutter contre les phénomènes de racisme, de xénophobie, d’antisémitisme et d’intolérance» (par. 72). Si veda P. De Sena, M. Castellaneta, La libertà di espressione e le norme internazionali ed europee, prese sul serio: sempre su CasaPound c. Facebook, reperibile nel blog https://www.sidiblog.org.

[33] Cfr. G.E. Vigevani, La libertà di manifestazione del pensiero, in G.E. Vigevani – O. Pollicino – C. Melzi d’Eril – M. Cuniberti – M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 3 ss.; Id., Libertà di espressione e discorso politico tra Corte europea dei diritti e Corte costituzionale, in N. Zanon (a cura di), in Le corti dell’integrazione europea e la corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 459 ss.

[34] Si veda il documento P8_TA-PROV(2016)0397, reperibile nel sito https://www.europarl.eu.int.

[35] CERD/C/ITA/CO/19-20, par. 15.

[36] Doc. A/HRC/33/61/Add.1, par. 38 e par. 39.

[37] Così, il par. 4.1 della sentenza n. 34815/19 e le sentenze lì richiamate.

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