Diffusione di partite di calcio in pay per view, quando è reato?

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Recentemente la Suprema Corte di Cassazione Penale, con la sentenza n. 7051/2012, si è espressa sullo spinoso tema del diritto d’autore connesso all’utilizzo della smart card, strumento sempre più diffuso che consente l’accesso alla visione di partite di calcio.
Questa la vicenda.
Nel febbraio 2006 il gestore di un pub tramite la sua smart card Mediaset Premium, per la quale ha sottoscritto un regolare contratto per l’utilizzo privato, trasmette una partita di calcio (Inter-Juventus) all’interno del suo locale.
R.T.I., titolare dei diritti di distribuzione in digitale della partita, adisce il Tribunale di Lecce – sezione di Gallipoli, chiedendo la condanna del gestore, ai sensi dell’art. 171-ter. L. 633/41, per “avere in assenza di accordo con il legittimo distributore, ritrasmesso al pubblico un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato [n.d.r. decoder]”.
Il Giudice di primo grado assolve l’imputato perché il fatto non costituisce reato, avendo lo stesso effettuato una “mera ricezione/trasmissione dello stesso [segnale della smart cart], non penalmente rilevante, benché non consentita dal contratto di distribuzione”.
Manca inoltre a detta del giudice il dolo specifico richiesto dalla norma, non essendosi realizzato alcun guadagno economicamente apprezzabile.
Di ben altro tenore è la sentenza della Corte di Appello di Lecce che invece condanna il gestore alla pena di quattro mesi di reclusione oltre ad euro 1.800,00 di multa e le pene accessorie previste, nonché pubblicazione della sentenza per estratto ed una sola volta sul “Corriere della Sera” e su “Sorrisi e Canzoni T.V.”.
Osserva quest’ultima che la condotta penalmente rilevante include sì la finalità di lucro ma non dipende dalla sua realizzazione; pertanto in reato è da considerarsi integrato.
Si finisce quindi in Cassazione che con sentenza cassa senza rinvio quanto stabilito in appello, affermando, così come in primo grado, che il fatto non costituisce reato.
Ciò detto sono doverose alcune osservazioni.
Innanzitutto, l’art. 171-ter. L. 633/41 contestato al gestore del bar prevede che:
È punito, se il fatto è commesso per uso non personale, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 a euro 15.493 chiunque a fini di lucro:
e) in assenza di accordo con il legittimo distributore, ritrasmette o diffonde con qualsiasi mezzo un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato.
Non c’ è dubbio che la diffusione della partita di calcio da parte del gestore del pub sia avvenuta “in assenza di accordo con il legittimo distributore”; è vero infatti che in Italia sia Sky che Mediaset Premium, assegnatarie dei diritti televisivi per le partite di calcio della Serie A, l’una a mezzo satellite l’altro a mezzo digitale, fanno generalmente sottoscrivere contratti diversi (con importi diversi) a seconda che la trasmissione delle competizioni avvenga privatamente ovvero all’interno di un pubblico esercizio.
Unico punto di scontro tra Cassazione ed Appello è quindi il fine di lucro che secondo la Suprema Corte non c’è stato in quanto la diffusione all’interno del pub della partita trasmessa dalla pay-tv “non risultava essere funzionale a far confluire nel locale un maggior numero di persone attratte dalla possibilità di seguire l’evento sportivo gratuitamente”.
Chiaramente tale decisione rileva esclusivamente sotto il profilo penale, tutt’altra storia è quello civile.
Sono però importante le condizioni esplicitate dalla Corte per giustificare la sentenza di assoluzione e che sostanzialmente motivano l’assenza del fine lucrativo nel gestore:
1. mancanza di pubblicizzazione dell’evento calcistico;
2. presenza di poche persone all’interno del locale;
3. ai clienti non è stato alcun sovrapprezzo nonostante la possibilità di vedere la partita di calcio.
Leggendoli viene da chiedersi innnanzitutto se siano sempre valide, come sembrerebbe, o si riferiscano solo al caso in questione.
Inoltre, è sufficiente che si realizzi una sola delle condizioni per poter legittimamente dire che il gestore permetteva di vedere la partita ai suoi clienti “a titolo amicale” e non per aumentare i suoi incassi, o si devono verificare tutte e tre?
Eccezion fatta per la prima che pare doverosa, le altre due sembrano essere decisamente più deboli.
Infatti che un gestore di un bar, ai fini di aumentare il più possibile il suo guadagno, pubblicizzi che il suo locale trasmette un evento visibile altrimenti solo in pay-tv è probabilmente scontato, ma che succede se poi i clienti non vengono o ne vengono pochi? (sarebbe interessante quantificare il “poco” in diritto)
E se vengono mantenuti gli stessi prezzi di sempre? (solitamente non sono i prezzi ad aumentare ma le vendite dei prodotti, quindi gli incassi)
Se così fosse, almeno penalmente, (mancando ora il riscontro del danno civilistico da risarcire a R.T.I., salvo sorprese ovviamente) la Cassazione sembra creare di fatto una sorta di immunità per i proprietari di esercizi pubblici che, a questo punto, non avrebbero ragione di stipulare contratti diversi da quello a titolo privato per vedere e fare vedere incontri di calcio all’interno dei loro locali a determinate (ma direi blande) condizioni.
Tutto ciò dopo che ad ottobre la Corte di Giustizia Europea, con una sentenza “rivoluzionaria”, quanto meno per i titolari dei diritti tv, aveva concesso alla signora Murphy, titolare di un pub in Inghilterra, di continuare a trasmettere nel suo locale le partite della Premier League per mezzo di una smart card greca, molto più economica di Sky UK, legittimo detentore dei diritti televisivi per il Regno Unito, aprendo così degli squarci nella normativa sul copyright e sulle problematiche relative ai limiti territoriali.
Certo è che, allo stato, in attesa di vedere il prossimo capitolo della battaglia “emittenti televisive vs privati”, l’unico (potenziale) vincitore per una volta è il tifoso.

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