Diffamazione a mezzo stampa e tutela giudiziale: conviene far causa civile o proporre denuncia-querela?

Nota a Cass. civ., sez. VI, ord. 30 ottobre 2017, n. 28499

L’unico mezzo preventivo di coordinamento tra il processo civile e quello penale è costituito dall’art. 75 c.p.p., il quale prevede come unica ipotesi di sospensione del giudizio civile per pregiudizialità quella in cui l’azione in sede civile sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile nel processo penale.

Con l’ordinanza in oggetto (n. 28499/2017), pronunciata dalla VI sezione civile della Cassazione nel regolamento di competenza attivato da una delle parti in relazione a un procedimento civile per il risarcimento del danno da lesione dell’onore e della reputazione, la Suprema Corte torna sul tema dei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale, ribadendo la sostanziale indipendenza dell’uno rispetto all’altro e la mancanza di qualsiasi pregiudizialità, logica o giuridica, tra i due giudizi. L’unica eccezione a tale principio di fondo che ispira l’ordinamento è dato dall’art. 75 codice di procedura penale, che rappresenta il solo mezzo preventivo di coordinamento tra processo civile e penale nella misura in cui, ribadito il principio generale di autonomia tra i due processi, prevede la sospensione necessaria del giudizio civile solo nell’ipotesi in cui l’azione in tale sede venga proposta dopo che sia già intervenuta la costituzione di parte civile nel processo penale, mentre, nel caso inverso, prevede la facoltà di trasferire l’azione civile nel giudizio penale, con conseguente rinuncia ex lege agli atti di quello civile.

Se il principio giuridico espresso appare pacifico e in alcun modo dibattuto in giurisprudenza, la pronuncia in questione costituisce utile occasione per aiutare a orientarsi tutti coloro che, ritenendosi vittima di una diffamazione, intendano rivolgersi all’autorità giudiziaria per ottenerne tutela e non abbiano sufficienti elementi per stabilire se sia meglio appellarsi al giudice civile o a quello penale. Il tema risulta oggi di particolare attualità e interesse, posto che l’inarrestabile sviluppo e diffusione di strumenti tecnologici alternativi alla stampa rende sempre più agevole l’accesso ad ogni genere di informazione da parte della collettività, ma, nel contempo, moltiplica anche in maniera esponenziale i conflitti tra chi quelle notizie diffonde e chi dalle stesse si sente offeso. Sul fronte giudiziario, ciò si traduce – per l’appunto – in un’incessante e crescente richiesta di giustizia, che chiama in causa ora i giudici civili, ora quelli penali.

Come accennato, chiunque si ritenga diffamato da un articolo di giornale o da una notizia apparsa sul web (si tratti di siti informativi, blog, social network o altro) si trova di fronte a una alternativa e alla conseguente necessità di compiere una scelta, non sempre facile, tra le due differenti forme di tutela apprestate dall’ordinamento giuridico: la persona offesa, infatti, può proporre denuncia-querela e chiedere perciò al giudice penale di perseguire il presunto colpevole, con l’obiettivo di far valere poi la propria pretesa risarcitoria nel processo penale; oppure può agire direttamente nei confronti dell’offensore, citandolo innanzi al giudice civile per chiederne la condanna al risarcimento dei danni.

L’esperienza insegna, peraltro, come, nella specifica materia, anche chi propone l’azione penale abbia come reale e ultimo scopo il risarcimento dei danni asseritamente subiti, in termini per lo più economici: negli ormai vent’anni di frequentazione delle aule dei tribunali, non ho mai trovato una persona che, avendo deciso di agire penalmente per una offesa subita, non abbia poi sempre cercato di ottenere un soddisfacimento economico delle proprie ragioni attraverso la costituzione di parte civile nel processo penale e, soprattutto, che non sia sempre stata disponibile – al giusto “prezzo” – a definire la controversia con una transazione e la conseguente remissione della querela. Come a dire che di persone che ne abbiano fatto una questione di principio e di giustizia, perseguendo esclusivamente la finalità della punizione del colpevole ad esito di un processo penale, non ne ho ancora trovate.

Ma come scegliere quale strada intraprendere? Ognuna presenta pro e contro: così, ad esempio, proporre querela e portare il preteso offensore innanzi a un giudice penale può costituire per quest’ultimo un peso insopportabile o, comunque, un motivo di grave preoccupazione, che più facilmente lo induca alla transazione; almeno inizialmente, la strada della denuncia penale è per l’offeso più economica, perché, al netto del costo dell’avvocato – peraltro neppure obbligatorio, ma sempre consigliato onde evitare i pericoli del “fai da te” – non c’è alcun obolo da corrispondere allo Stato per avviare il procedimento; la scelta penale appare anche probatoriamente più semplice, perché l’offeso si limita sostanzialmente a esporre la propria versione dei fatti nella denuncia, che il Pubblico Ministero di fatto fa propria, mentre sta al denunciato difendersi provando o l’insussistenza dell’offesa o che quanto comunicato, pur se diffamatorio, è scriminato dalla ricorrenza di una causa di giustificazione (tra cui, normalmente, il diritto di cronaca o il diritto di critica).

D’altro canto, la scelta del procedimento penale non è priva di rischi per la persona offesa. In primis, v’è il pericolo che al processo non si arrivi mai, perché il Pubblico Ministero incaricato delle indagini (e dominus pressoché incontrastato delle stesse) potrebbe ritenere che non vi sia alcuna offesa nel caso concreto e formulare perciò richiesta di archiviazione (sottoposta poi al vaglio del Gip); oppure può darsi che al processo vero e proprio si arrivi solo dopo tantissimo tempo, magari anche anni, perché quello stesso Pubblico Ministero aveva altre urgenze o, meno prosaicamente, si è dimostrato assai poco interessato a perseguire quel genere di reato: in tal caso, oltre alla prescrizione, il rischio è che il giudizio sulla sussistenza o meno dell’offesa sia in qualche modo influenzato dal tempo trascorso dai fatti, che lo scorrere del tempo porti con sé una certa desensibilizzazione dell’offesa o, quanto meno, una sua diminuita percezione, che può riverberarsi in un minor risarcimento riconosciuto dal giudice; ancora, può accadere – e spesso accade, invero, in base all’esperienza delle aule – che, all’esito del processo, la persona offesa ottenga una “vittoria di Pirro”, perché il giudice si limita a pronunciare condanna penale nei confronti dell’imputato ma non quantifica il danno in favore della parte civile costituita, rimettendo le parti, sul punto, a un nuovo e ulteriore giudizio innanzi al tribunale civile, che, per quanto limitato solo al quantum, comporterebbe per l’offeso ulteriori oneri economici e un significativo allungamento dei tempi; analogamente, può capitare che il giudice penale definisca non solo la pena inflitta al reo ma anche la misura del risarcimento dovuto alla persona offesa, ma che tale condanna non sia resa esecutiva e resti perciò sospesa in attesa degli ulteriori gradi di giudizio.

Sul versante opposto, agire in sede civile consente innanzitutto di avere un maggior governo sull’andamento del processo e sui suoi tempi: al di là di eventi imprevedibili e al netto della diversa situazione organizzativa dei vari uffici giudiziari, si può prevedere la durata del processo e – ad esempio a Milano – esser ragionevolmente certi che entro due anni si giungerà a sentenza. Sotto altro profilo, si esclude il rischio che il Pubblico Ministero non faccia propria l’ipotesi accusatoria prospettata dal querelante e si ha la certezza che un giudice si pronunci sulla vicenda sottoposta al suo esame. All’opposto è ugualmente vero che, in caso di soccombenza, il rischio economico è ben più rilevante, perché sia le spese del giudizio (il c.d. contributo unificato, che deve essere pagato al momento dell’iscrizione a ruolo della causa e il cui valore dipende dall’entità del risarcimento richiesto) sia quelle sostenute dall’accusato per difendersi (id est, gli oneri legali della controparte) sono di norma poste a carico di chi ha azionato la causa, perdendola.

Nessuna opzione, dunque, può dirsi vincente rispetto all’altra né immune da rischi e controindicazioni. Quel che è certo, però, è che una decisione va presa, possibilmente con cognizione di causa, avendo cioè ben presente le caratteristiche dei due procedimenti.

Se, infatti, in prima battuta è consentito muoversi su entrambi i piani, proponendo querela e attivando causa civile, vi sarà però, presto o tardi, il momento della scelta: allorché il processo penale entrerà nel vivo – sempre che ciò avvenga, ben inteso e sempre che in sede civile non sia stata già pronunciata sentenza di merito, anche solo in primo grado – la persona offesa sarà chiamato a prendere una strada. Potrà, infatti, decidere di affidarsi al giudice penale, costituendosi parte civile nel processo penale e trasferendo in tal sede la propria domanda risarcitoria, con la conseguenza, in tal caso, di rinunciare agli atti del giudizio civile, secondo quanto prevede l’art. 75 comma 1 del codice di procedura penale.

Oppure potrà lasciare che il processo penale faccia il suo corso, di fatto disinteressandosi del suo esito, e proseguire con l’azione civile nella propria sede naturale. In tale ultimo caso, però, la persona offesa non potrà giovarsi di un’eventuale sentenza di condanna emessa dal giudice penale, né, soprattutto e prima ancora, potrà chiedere che il processo civile resti sospeso in attesa della definizione di quello penale perché – come puntualmente ricordato dalla Cassazione nell’ordinanza annotata – quando non vi sia stato esercizio dell’azione civile in quest’ultimo mediante la costituzione di parte civile ex art. 75 c.p.p., i due procedimenti proseguono su binari separati e indipendenti, senza reciproche interferenze, né alcuna pregiudizialità dell’uno rispetto all’altro.  L’unica eccezione al principio di autonomia dei due procedimenti è rappresentata dall’eventualità che la persona offesa si costituisca dapprima parte civile nel processo penale e, successivamente e senza revocare tale costituzione, avvii un’autonoma causa: solo in questo caso il giudizio civile rimarrà necessariamente sospeso in attesa della definizione di quello penale.

Come ogni bivio, dunque, anche la richiesta di giustizia impone una scelta, con la consapevolezza che nessuna strada è priva di insidie e nessuna garantisce il raggiungimento del proprio obiettivo.

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