Destinazione Italia, regolamento AGCOM e Webtax. Ma siamo certi che sia questa la strada giusta per far diventare l’Italia un paese più attrattivo?

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Questa mattina il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto “Destinazione Italia” come collegato alla legge di stabilità 2014.

Il programma varato alcuni mesi fa sembrava davvero ambizioso ed in grado di dare una sferzata di innovazione ad un Paese che ha davvero bisogno.  La consultazione pubblica avviata dal Governo e le modalità partecipate prescelte facevano ben sperare.  Una serie di iniziative per attirare nuovi investimenti dall’estero e fare dell’Italia un ecosistema più attrattivo.

Una prima analisi del testo del Decreto circolato, tuttavia, raffredda ogni entusiasmo.

Ancora una volta in un decreto che doveva fungere da volano per l’innovazione si è inserito tutto e il contrario di tutto: dalla modifica delle norme sulla competenza territoriale nel caso di giudizi che coinvolgano società estere, a modifiche delle disposizioni sulle locazioni ad uso non abitativo a crediti d’imposta variamente modulati che appaiono largamente insufficienti e rispetto ai quali non si può prevedere, in concreto, quali effetti produrranno.

Una norma però appare davvero controversa.   Ed è l’articolo 14 intitolato “Misure per contrastare la crisi del comparto editoriale”.

Che il comparto sia in crisi è un dato di fatto, sul fatto però che sia una priorità strategica per il Paese intervenire a sostegno tale settore forse è dato dubitare anche in considerazione dei finanziamenti pubblici all’editoria assicurati da tempo.  Ma si tratta di scelte politiche e lasciamo alla politica la determinazione delle priorità.

Da un decreto rivolto all’innovazione ci sarebbe potuto attendere che avesse previsto incentivi per le imprese editoriali che intendano convertirsi al digitale o forme di sostegno alle imprese editoriali native digitali.

Ed invece no.  Niente di tutto questo.

La prima misura che il Governo ha inteso varare è una rafforzamento dell’ambito di privativa riconosciuto agli editori attraverso una modifica, l’ennesima si può dire a dispetto di chi dice che abbiamo una legge antiquata, della Legge sul diritto d’Autore (Legge 22 aprile 1941, n. 633) attraverso l’introduzione del comma 2-bis all’articolo 65.

L’articolo dovrebbe più o meno recitare così: «2-bis. Laddove sia stata apposta dichiarazione di riserva, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e in ogni caso l’utilizzazione, anche parziali, in ogni modo o forma, ivi compresa l’indicizzazione o aggregazione di qualsiasi genere, anche digitale, di prodotti dell’attività giornalistica, compresi la forma e il contesto editoriali, pubblicati a stampa, con mezzi digitali, tele-radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico con altri mezzi, è consentita solo previo accordo tra il titolare del diritto di utilizzazione economica dei prodotti medesimi, ovvero le organizzazioni di categoria dei titolari dei diritti a ciò delegate, e l’utilizzatore, ovvero le organizzazioni di categoria degli utilizzatori a ciò delegate. In mancanza di accordo sulle condizioni anche economiche dell’utilizzazione, dette condizioni sono definite dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, su istanza della parte interessata.».

L’art. 65 nella sua versione attuale prevede la libera utilizzazione degli articoli di carattere economico, politico o religioso salvo che l’avente diritto non ne abbia riservato la pubblicazione.  La norma, in sostanza, raggiunge un equilibrio tra il diritto del pubblico a ricevere informazioni e il diritto degli editori a vedere remunerata la propria attività.

Il nuovo comma almeno nella sua prima parte, appare quindi meramente riproduttivo del comma 1 della disposizione.  L’elemento davvero “innovativo” è la seconda parte del primo paragrafo che prevede, in sostanza che per lo svolgimento dell’attività sul web di aggregazione di notizie attraverso siti internet e/o motori di ricerca è necessaria l’autorizzazione dei relativi aventi diritto.  In sostanza, secondo la nuova disposizione il mero linking e/o l’indicizzazione di contenuti editoriali costituisce comunicazione al pubblico e, quindi, per essere svolta richiede l’autorizzazione del titolare dei diritti sul contenuto linkato.

Tutto bene si direbbe, finalmente verrà remunerato lo sforzo creativo di quanti producono informazione e si puniranno i comportamenti parassitari di chi attraverso i link si appropria dei contenuti altrui.

Senonché la circostanza che il linking costituisca una forma di comunicazione al pubblico è ampiamente dibattuta in sede europea tanto che risultano pendenti innanzi alla Corte di Giustizia diverse questioni pregiudiziali sul tema (C-466/12 – Svensson, C-348/13 – Bestwater International e C-279/13 -C More entertainment) e la Commissione europea nelle scorse settimane ha avviato una consultazione pubblica sul copyright nella nuova realtà digitale con l’intento di modificare le regole esistenti.

Ma tutto questo al Governo italiano ed a AGCOM – che nel frattempo ieri ha approvato in via definitiva il regolamento sulla protezione del copyright online dal quale sembra che l’Autorità di garanzia abbia risolto affermativamente i dubbi sul linking sui quali si discute da tempo a livello UE – sembra non interessare.

Prendiamo atto. Ma bisogna chiedersi in cosa si differenzi il linking dalla semplice citazione di un brano, attività da sempre riconosciuta come libera in quanto funzionale alla libera circolazione delle informazioni e, quindi, in definitiva all’esercizio di diritti di rango costituzionale.

E poi più in generale bisogna chiedersi se tali norme siano davvero efficaci per proteggere gli editori, penso in particolare ai più piccoli, o piuttosto non siano funzionali ad assicurare delle rendite di posizione.

Si può seriamente affermare che l’indicizzazione su un motore di ricerca o l’aggregazione su un portale costituisca uno svantaggio piuttosto che un’opportunità per chi intende veicolare contenuti in rete?

Non so ma a scanso di equivoci ed anche prima che questa norma entri in vigore dichiaro espressamente di non riservare l’ “indicizzazione o l’aggregazione di qualsiasi genere” di questo contributo.

E poi questa norma non si può rivelare un boomerang per gli stessi editori?  Vedremo in concreto quanti riserveranno l’indicizzazione dei propri contenuti.

Ma le sorprese non finiscono qui.

Infatti il successivo articolo 17 del decreto prevede delle “Misure per favorire la diffusione della lettura”.

E qui si dirà: bene dopo il maldestro enforcement si arriva alla promozione dei contenuti digitali.

Ed invece no.

La norma prevede nei primi 3 commi che: “1. Per gli anni 2014, 2015 e 2016 l’acquisto di libri muniti di codice ISBN dà luogo ad un credito di imposta a valere sui redditi delle persone fisiche e giuridiche. 2. La detrazione di cui al comma 1 è pari al 19% della spesa effettuata nel corso dell’anno solare per un importo massimo, per ciascun soggetto, di Euro 2000, di cui Euro 1000 per i libri di testo scolastici ed universitari ed Euro 1000 per tutte le altre pubblicazioni. 3.L’acquisto deve essere documentato fiscalmente dal venditore. Sono esclusi gli acquisti di libri in formato digitale, o comunque già deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formare il reddito complessivo”.

Quindi se acquisto un e-book niente detrazione.  Dov’è la spinta all’innovazione?

Che dire, l’auspicio che in sede di finalizzazione del decreto o conversione dello stesso si possa intervenire quantomeno per emendare le inefficienze di questo decreto se non per migliorarne l’efficacia.

Un dato però appare chiaro ed è francamente sconfortante.

Mettendo in fila Webtax variamente modulata, chiaramente contraria alle norme europee ed infine approvata almeno in Commissione come emendamento alla legge di stabilità, regolamento copyright, con le gravi lacune procedurali che lo caratterizzano a tacer d’altro, l’immobilismo che caratterizza l’Agenda digitale (al di là della grande proliferazione di tavoli e incarichi) e Destinazione Italia si ha l’impressione che si stia andando verso la costruzione di un sistema Italia chiuso all’innovazione e all’economia digitale.

Rafforzare rendite di posizione e sistemi di creazione del valore che non vogliono innovare non è il miglior modo per attirare investimenti dall’estero, ma si fa sempre in tempo ad invertire la rotta.

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