Brevi note sul divieto di comunicazione istituzionale nei periodi di campagna elettorale

Le considerazioni che seguono nascono dal problema di tracciare una linea di separazione sostenibile tra le attività di comunicazione pubblica consentite e quelle censurate nelle fasi di campagne elettorali. Le modificazioni di contesto che si sono avute in questi anni – a partire dall’ingresso massiccio dei new media nelle campagne elettorali, passando per le nuove strategie di comunicazione istituzionale e politica, fino ai cambiamenti radicali intervenuti nella scena politica italiana – giustificano e anzi sollecitano una revisione delle regole riguardanti la comunicazione pubblica approvate nell’ormai lontano 1993, sostanzialmente confermate dalla l. 28/2000 e, per inerzia, mantenute in vigore sino ad oggi.

Il quadro normativo vigente è noto a tutti. Attualmente, l’art. 9 della l. 28/2000 stabilisce che «Dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni». Il divieto copre ogni forma di comunicazione, con qualsiasi tecnica e a qualsiasi scopo effettuata a partire dalla convocazione dei comizi elettorali (che normalmente avviene tra 70 e 45 giorni prima della consultazione): le amministrazioni devono astenersi non solo dalle manifestazioni volte ad appoggiare le liste o i candidati impegnati nel confronto elettorale (propaganda elettorale in forma diretta), ma anche da tutti le attività di comunicazione che, avendo come finalità principale la promozione dell’immagine politica o dell’attività istituzionale dell’ente stesso, stimolino una rappresentazione positiva o negativa di una determinata opzione elettorale (propaganda elettorale in forma mediata).

La ratio della norma è anzitutto evitare che l’attività di comunicazione istituzionale realizzata dall’amministrazione durante questo periodo “sensibile” possa sovrapporsi ed interagire con l’attività propagandistica svolta dalle liste e dai candidati, dando vita ad una forma parallela di campagna elettorale, sottratta a qualsiasi tipo di regolamentazione.

In secondo luogo, la norma vuole impedire il consolidarsi di un vantaggio elettorale a favore dei politici uscenti (incumbents) nei confronti degli sfidanti (challengers), date le innumerevoli facilitazioni, in termini di comunicazione e di visibilità, di cui i primi dispongono in via esclusiva e gratuita.

Da ultimo, ma non in ordine di importanza, la norma mira ad evitare un uso distorto di risorse e denaro pubblico a fini di propaganda (diretta o indiretta) favorevole ad alcune forze politiche e a danno di altre.

Se le finalità della disciplina sono condivisibili, non è tuttavia pensabile che nei due mesi (circa) precedenti ogni consultazione elettorale l’attività di comunicazione istituzionale di tutte le amministrazioni possa arrestarsi completamente. Evidentemente, l’azzeramento della comunicazione istituzionale da parte di tutte le amministrazioni pubbliche, per un periodo variabile tra i 70 e i 45 giorni precedenti qualunque tipo di consultazione elettorale, non può rappresentare l’obbiettivo avuto di mira il legislatore delle l. 81/1993, 515/1993 e 28/2000. Ciò non sarebbe comprensibile alla luce delle numerose disposizioni dell’ordinamento che, all’opposto, stimolano e incoraggiano un tipo di comunicazione cd. di “utilità sociale”, effettuata nell’interesse dei cittadini e per garantire la trasparenza delle pubbliche amministrazioni.

La comunicazione istituzionale consistente nella divulgazione di informazioni aggiornate e facilmente accessibili a tutti, riguardanti l’attività pubblica, la normazione, i servizi, le strutture e il loro uso da parte degli interessati, costituisce una forma di “servizio pubblico” a favore dei cittadini, di cui è la stessa legislazione a farsi carico: si pensi, ad esempio, all’art. 12 del d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 che impone alle pubbliche amministrazioni di istituire gli Uffici per le relazioni con il pubblico, con finalità di informazione generale a favore dei cittadini; ovvero alla l. 150/2000, che, per la prima volta, attribuisce alle attività di informazione e comunicazione istituzionale il carattere di funzione pubblica, rivolta al perseguimento di un fine pubblico; o, ancora,  all’obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni di pubblicare sul sito “Amministrazione trasparente”  documenti, dati e  informazioni di pubblica utilità, nel rispetto di precisi standard qualitativi, per soddisfare il diritto all’informazione amministrativa spettante a tutti i cittadini. La comunicazione istituzionale ha acquisto dignità di “servizio pubblico” e “funzione pubblica”: ne consegue che l’esercizio dell’attività comunicazione istituzionale deve essere ispirato ai principi di continuità, non interruzione, effettività, responsabilità, che tradizionalmente guidano l’esercizio dei servizi e delle funzioni pubbliche. Del resto, il fatto che la legge stessa disponga una deroga per «le attività di comunicazione istituzionale indispensabili per l’efficace assolvimento delle funzioni» proprie delle amministrazioni pubbliche, testimonia una precisa volontà del legislatore di non ostacolare il regolare e doveroso servizio di comunicazione di utilità sociale.

Si tratta dunque di individuare un punto di equilibrio nuovo e sostenibile tra due esigenze antagoniste: da un lato, evitare che gli “uscenti” (incumbents) godano di una rendita di posizione ingiustificata rispetto agli sfidanti (challengers), in ragione della maggiore visibilità mediatica e delle maggiori chances di accesso all’informazione, e contestualmente evitare un uso distorto di risorse e denaro pubblico a fini di propaganda politica/elettorale; d’altro lato, evitare che la comunicazione pubblica, ormai pacificamente riconosciuta dall’ordinamento come servizio di interesse generale e funzione pubblica, subisca continue interruzioni durante le fasi di campagna elettorale, sempre più frequenti e rapsodiche, a tutto svantaggio dei cittadini e dell’interesse collettivo all’informazione amministrativa. Per raggiungere questo obiettivo, la strada non può che essere quella di emendare il testo dell’art. 9 della l. 28/2000, posto che l’attuale formulazione della norma lascia ben pochi margini di flessibilità all’interprete.

In questo senso le proposte emendative possono essere di vario genere, modulabili a seconda del diverso punto di equilibrio che si vuole raggiungere tra gli interessi in gioco. Ecco alcune indicazioni di partenza, per iniziare la discussione:

a) In primo luogo andrebbe rivisto l’ambito di applicazione oggettivo del divieto. Oggi il divieto di comunicazione istituzionale è sostanzialmente identico e generalizzato per tutte le consultazioni popolari, parlamentari o europee, nazionali o locali, elettorali o referendarie: ciò rende impossibile qualsiasi differenziazione giuridica tra il condizionamento elettorale esercitato dalle singole amministrazioni pubbliche a seconda del tipo di consultazione in corso. Si tratta di un divieto erga omnes, diciamo, che scatta a partire dalla convocazione di qualunque comizio elettorale, a prescindere dal tipo di consultazione popolare indetta. Così facendo la legge intende assicurare l’imparzialità del confronto elettorale, nonché garantire parità di chances a tutti i concorrenti a prescindere dalla loro qualità di candidati uscenti o sfidanti. Il risultato è un divieto totalizzante, del tutto sproporzionato rispetto al fine perseguito, che impedisce la comunicazione istituzionale tout court, anche quella degli enti che non sono minimamente toccati dalle consultazioni in corso (ad es. i comuni non interessati da elezioni amministrative o regionali, le regioni non interessate da elezioni regionali o amministrative, le amministrazioni dello Stato non interessate da elezioni amministrative o regionali, gli enti territoriali non direttamente interessati da referendum abrogativi, da elezioni europee, e via dicendo). Una prima, utile modifica alla disciplina vigente dovrebbe quindi mirare a restringere il divieto di comunicazione istituzionale alle sole amministrazioni direttamente interessate dalle consultazioni elettorali in atto: in sostanza, introdurre un divieto applicabile alle sole amministrazioni i cui vertici istituzionali rivestono la qualità di (potenziali) candidati uscenti o sfidanti nella consultazione elettorale in corso.

b) In secondo luogo andrebbe rivisto l’ambito di applicazione soggettivo del divieto. Vi sono amministrazioni che non hanno vertici politici, né hanno vertici istituzionali che siano eletti direttamente eletti dal popolo. Si pensi alle università, alle aziende sanitarie, ai collegi professionali, alle camere di commercio, alle amministrazioni indipendenti, etc. Ritornando per un attimo alla ratio del divieto di comunicazione istituzionale, sopra ricordata, non si vede la ragione di estendere a questo tipo di amministrazioni un divieto che è sostanzialmente pensato per evitare rendite di posizione ingiuste, sovrapposizioni pericolose tra la comunicazione pubblica e la propaganda politica ufficiale, l’uso distorto delle risorse pubbliche a fini propagandistici. Anche in questo caso, il mezzo utilizzato (divieto generale di comunicazione pubblica) appare decisamente sproporzionato rispetto ai fini che il legislatore vuole raggiungere. Queste amministrazioni non politiche andrebbero dunque escluse dal divieto di comunicazione istituzionale ex 9.

c) In terzo luogo andrebbe ridotto il periodo di vigenza del divieto. Considerato il ruolo di servizio pubblico che le amministrazioni svolgono per la collettività attraverso la comunicazione istituzionale, sarebbe opportuno contenere il più possibile il periodo di divieto concernente questo tipo di attività al fine di non privare i cittadini di importanti informazioni di servizio. Si potrebbe pertanto pensare di far decorrere il divieto di comunicazione istituzionale non dalla convocazione dei comizi elettorali, come prevede oggi la l. 28/2000 per tutte le attività di comunicazione politica (e dunque per un periodo variabile tra i 70 e 45 giorni), bensì a partire dalla presentazione delle liste e delle candidature, come stabilito per l’attività di propaganda “tipiche” mediante affissioni e manifesti. In proposito, la l. 212/1956, modificata dalla l. 130/1975, prevede che «In ogni comune la giunta municipale, tra il 33° e il 30° giorno precedente quello fissato per le elezioni è tenuta a stabilire in ogni centro abitato, con popolazione residente superiore a 150 abitanti, speciali spazi da destinare, a mezzo di distinti tabelloni o riquadri, esclusivamente all’affissione degli stampati, dei giornali murali od altri e dei manifesti». Per la comunicazione istituzionale, attività di sicuro valore pubblico da bilanciare con le esigenze di par condicio sopra ricordate, potrebbe essere utilmente adottata una soluzione analoga, fissando il dies a quo per la decorrenza del divieto di comunicazione istituzionale in concomitanza con la presentazione delle candidature.

d) In quarto luogo sarebbe opportuno riformulare la deroga generale di cui all’art. 9, seconda parte, al fine di rendere più chiara la distinzione tra comunicazione pubblica consentita e propaganda elettorale vietata. Il terreno qui è molto scivoloso, e qualunque modifica orientata in questa direzione deve essere valutata attentamente, per non alterare eccessivamente l’equilibrio degli interessi che entrano in bilanciamento. D’altra parte, la deroga formulata nella seconda parte dell’art. 9 solleva numerosi problemi interpretativi, e rende indispensabile una precisazione da parte del legislatore: in particolare, non è chiara la portata dell’eccezione riguardante le comunicazioni «effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni», e dunque sottratte al divieto di comunicazione. A questo riguardo può essere utile trarre alcuni spunti dalla normativa “grigia” e della dottrina. Una vecchia circolare interpretativa divulgata dalla Direzione centrale del Ministero dell’interno in occasione delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1993 [1] considerava come manifestazioni di propaganda istituzionale (vietata) “solo le attività amministrative collegabili, direttamente o indirettamente, a qualsivoglia propaganda elettorale di candidati o di liste, con esclusione quindi dal divieto medesimo di ogni altra attività amministrativa la cui efficacia richieda effettiva pubblicizzazione”. In altre parole il divieto di propaganda istituzionale veniva circoscritto alle sole forme di comunicazione sospette di strumentalizzazione propagandistica a favore dei candidati e delle liste in lizza nel confronto elettorale (principio dell’identificabilità), con esclusione delle attività di informazione che devono necessariamente accompagnare le funzioni, le iniziative, i servizi realizzati dalle pubbliche amministrazioni al fine di garantirne l’operatività (principio dell’effettività). Un’ulteriore circolare del Ministero dell’Interno, emanata in vista delle elezioni amministrative del giugno 1999 [2], precisava ulteriormente la portata del divieto di propaganda istituzionale, facendovi rientrare “solo le attività di propaganda ricollegabili direttamente o indirettamente a qualsivoglia attività amministrativa”. In questo modo si chiariva l’impossibilità di applicare il divieto di comunicazione pubblica alle attività propagandistiche svolte in proprio, in via diretta dai diversi componenti degli organi istituzionali – i quali possono naturalmente agire come qualunque altro soggetto partecipante alla competizione elettorale e non in veste ufficiale di rappresentanti dell’ente -, restando affidata la disciplina di questi comportamenti alle disposizioni della l. 28/2000 che regolano la competizione elettorale tra i diversi soggetti partecipanti all’agòne politico.

Sempre al fine di chiare meglio la portata della deroga al divieto di comunicazione istituzionale è utile richiamare la distinzione proposta dalla dottrina pubblicistica, che  discrimina la comunicazione di servizio rispetto alla  comunicazione di immagine: la prima si caratterizza per il favor e l’utilità rispetto all’interesse degli amministrati, mentre la seconda mira a procurare un vantaggio all’istituzione che la utilizza, non ai cittadini cui è diretta [3]. Seguendo questa indicazione, nella nozione di “comunicazione di servizio” ricadrebbero tutte le attività informative svolte nel periodo pre-elettorale relative al funzionamento degli uffici, alla normativa vigente, ai servizi erogati nel territorio, che restano quindi ammesse; mentre nel concetto di “comunicazione immagine” ricadono tutte le attività d’informazione vietate, volte a fornire una rappresentazione positiva dell’amministrazione o dei suoi organi, allo scopo di legittimarne l’attività o di promuoverne la riconferma.

Per concludere su questo quarto punto, la legge dovrebbe chiaramente stabilire che la “comunicazione di servizio”, funzionale all’interesse della collettività, deve sempre essere consentita alle pubbliche amministrazioni (interessate dalle consultazioni elettorali), quindi anche nei periodi di campagna elettorale. Come si è detto, il principio di effettività esige che le funzioni, le iniziative, i servizi realizzati dalle pubbliche amministrazioni siano sempre accompagnati da un’adeguata attività di informazione al pubblico, volta a garantirne la corretta fruizione e l’operatività.

Chiarito questo aspetto, la legge dovrebbe poi coerentemente precisare che l’attività di comunicazione di servizio, in linea di principio, deve essere svolta in forma impersonale (ossia senza mettere al centro la personalità politica o il partito) per evitare che essa trascenda in “comunicazione immagine”. Per fare un esempio concreto, l’inaugurazione di un nuovo reparto di oncologia dovrebbe sempre essere riservata al direttore generale dell’Asl o dell’azienda ospedaliera, evitando di fornire sconvenienti passerelle agli assessori o ai politici. A questa regola dovrebbero naturalmente fare eccezione le particolari iniziative o attività istituzionali che, per loro natura, non possono che essere associate ad una precisa una personalità istituzionale o ad un partito politico. Si pensi, ad esempio, ad un nuovo progetto di legge depositato da un consigliere regionale o da un gruppo consiliare, all’interrogazione presentata da una forza politica, alle misure di finanziamento alle attività imprenditoriali stanziate da un ministro o da una giunta regionale. Per i comunicati stampa riguardanti le attività d’aula o le iniziative strettamente collegate al mandato di un soggetto politico occorrerebbe dunque superare il criterio dell’impersonalità, giacché in questi casi un comunicato effettuato dall’ufficio stampa dell’ente pubblico senza indicazione del soggetto politico di riferimento perde sostanzialmente di efficacia e costringe la stampa generalista a verifiche ulteriori su una informazione che ha già i crismi dell’ufficialità, essendo basata sul resoconto di atti ispettivi, o resoconti di commissione o di aula.

In definitiva, la nuova disciplina dovrebbe sempre consentire la comunicazione di servizio in forma impersonale, con tassative eccezioni per i casi in cui le esigenze di completezza e utilità dell’informazione rendono “indispensabile” associare un evento ad una determinata figura politica o istituzionale, che i comunicati stampa diffusi dagli organi di informazione dell’ente pubblico devono poter legittimamente citare.

Al di sopra di questi suggerimenti per rendere più attuale e bilanciata la disciplina sulla comunicazione istituzionale, si staglia l’esigenza di modificare l’ambito di applicazione della stessa l. 28/2000, a tutt’oggi inapplicabile ai new media e alle forme di comunicazione elettronica più diffuse, come blog, social networks, chat, etc. Ma si tratta di un rilievo di carattere generale, riferibile all’estensione della legge sulla par condicio, che deve essere pertanto avanzato nelle sedi di discussione opportune.

 

 

Proposta di emendamento

Art. 9

(Disciplina della comunicazione istituzionale e obblighi di informazione)

Dalla data della presentazione delle candidature e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto di svolgere attività di comunicazione istituzionale a tutte le amministrazioni direttamente interessate dalle consultazioni popolari in corso, con esclusione delle amministrazioni i cui vertici politici non siano direttamente eletti dai cittadini.

  1. Il divieto di cui al comma 1 riguarda solo le attività di comunicazione collegabili, direttamente o indirettamente, a qualsivoglia propaganda elettorale di candidati o di liste, con esclusione dal divieto medesimo della comunicazione di servizio, effettuata dalle amministrazioni al fine di garantire l’efficace assolvimento delle proprie funzioni. La comunicazione di servizio riguarda il funzionamento degli uffici, la normativa vigente, i servizi erogati nel territorio, ed è ammessa anche nel periodo pre-elettorale a condizione che sia effettuata in forma impersonale, ossia senza fare riferimento a soggetti o partiti politici e senza consentire l’identificabilità di questi ultimi.
  2. I comunicati stampa riguardanti le attività d’aula o le iniziative strettamente collegate al mandato di un soggetto o di un partito politico possono essere effettuati in forma personalizzata, consentendo l’identificazione di soggetti o partiti politici, per esigenze di completezza e utilità dell’informazione.
  3. Le emittenti radiotelevisive pubbliche e private, su indicazione delle istituzioni competenti, informano i cittadini delle modalità di voto e degli orari di apertura e di chiusura dei seggi elettorali.

 

[1] Circ. telegrafica Ministero dell’interno del 1 febbraio 1994, n. 12, emessa nella vigenza della deroga (analoga all’attuale) sancita all’art. 5, l. 515/93.

[2] Circ. Ministero dell’interno del 14 aprile 1999, n. 64

[3] G. Arena, Profili giuridici della comunicazione delle pubbliche amministrazioni, in Economia pubblica, 1992, 623.

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