L’anonimato degli utenti quale forma mediata della libertà di stampa: Il caso Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria

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Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 dicembre 2021, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), ric. 39378/2015

 

Gli autori di commenti online non sono da ritenersi fonti giornalistiche.

Tuttavia, un ordine giudiziario che richieda la comunicazione dei dati degli autori anonimi di tali commenti, in quanto può avere effetti deterrenti nell’utilizzo da parte degli utenti della piattaforma, costituisce un’interferenza nella libertà di stampa della testata giornalistica che gestisca il portale.

Tale ordine deve quindi operare un bilanciamento, quanto meno prima facie, tra l’interesse della testata giornalistica a non rivelare l’identità degli utenti e gli altri interessi e diritti in gioco.

 

Sommario:

  1. Premessa. – 2. Ricostruzione dei fatti. – 3. La nozione di fonte giornalistica e i commenti degli utenti. – 4. Ruolo dell’anonimato in rete e applicabilità dell’articolo 10. – 5. La decisione della Corte. – 6. Rilievi conclusivi.

 

  1. Premessa

 

Il 7 dicembre 2021 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) ha reso la sentenza per il caso Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3)[1]. La controversia si inserisce nel contesto del dibattito, caratteristico degli ultimi anni, relativo al ruolo degli intermediari digitali e delle piattaforme nel contrasto alla diffusione di contenuti illeciti in rete. A differenza di alcuni celebri antecedenti giurisprudenziali[2], tuttavia, la decisione in esame non concerne la responsabilità sussidiaria dell’intermediario per contenuti generati da terzi.

Oggetto del ricorso è piuttosto, in questo caso, l’ordine ricevuto dal quotidiano gestore di un portale online di comunicare i dati relativi agli autori anonimi di alcuni commenti, al fine di consentire alle persone offese in tali commenti la possibilità di intentare un eventuale procedimento per diffamazione. Le questioni in punto di diritto affrontate dalla Corte sono sostanzialmente tre: se i commenti resi anonimamente su un portale gestito da una testata giornalistica costituiscano ai fini di legge fonti giornalistiche tutelate dal segreto editoriale; se l’anonimato degli autori di tali commenti costituisca una declinazione della libertà di stampa della testata giornalistica; se l’ordine pronunciato dalle corti domestiche abbia rispettato o meno le condizioni di cui all’articolo 10(2) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e, in particolare, se tale ordine fosse “necessario in una società democratica”.

 

  1. Ricostruzione dei fatti

 

La parte ricorrente è una società a responsabilità limitata, la Standard Verlagsgesellschaft mbH, la quale è editrice di un quotidiano, il Der Standard, pubblicato in formato cartaceo, digitale e online (derStandard.at). Quest’ultimo formato prevede la possibilità per gli utenti di postare commenti relativi agli articoli pubblicati. Gli utenti, peraltro, per poter usufruire di tale servizio, devono registrarsi al sito internet, indicando il proprio nome, cognome, indirizzo e-mail e, su base volontaria, indirizzo postale: è esplicitamente specificato, tuttavia, che tali dati non saranno resi pubblici, a meno che la loro comunicazione non sia disposta per legge. Agli utenti è fatto inoltre obbligo di accettare i termini e le condizioni della piattaforma, concernenti, tra l’altro, il divieto di postare insulti, minacce, commenti diffamatori, così come il divieto di utilizzare username discriminatori. La piattaforma utilizza un sistema di moderazione automatizzata dei contenuti che opera per parole-chiave: se il sistema rileva l’esistenza di materiali potenzialmente problematici, il commento in questione viene sottoposto a un controllo manuale ex ante. Ex post, la ricorrente opera su base regolare un ulteriore controllo dei commenti pubblicati; per di più, essa ha introdotto un sistema di “notice and take down” attraverso il quale gli utenti possono segnalare alla piattaforma la presenza di contenuti non conformi ai termini e condizioni di servizio.

Nel 2012, a commento di una notizia, venivano postati alcuni commenti relativi al partito locale di destra Die Freiheitlichen in Kärnten (FPK) e del suo leader K.S., accusati tra le altre cose di essere i promotori di ideologie naziste; nel 2013, analogamente, un utente accusava in un suo commento H.K., membro del Consiglio nazionale austriaco e segretario generale del partito di destra Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ), di minare alla costituzione e allo Stato austriaco con le sue parole, nonché di essere un mafioso. In entrambi i casi, alla ricorrente veniva richiesto dalle persone offese di rimuovere tali contenuti, nonché di comunicare i dati personali relativi agli autori. La società ricorrente, pur avendo ottemperato prontamente alla richiesta di rimozione dei commenti, si rifiutava di adempiere alla seconda richiesta.

K.S., l’FPK e K.S., pertanto, citavano in giudizio la ricorrente, chiedendo che la comunicazione dei dati sopra menzionati ai sensi della sezione 18(4) della legge austriaca sull’E-Commerce[3], la quale implementa la direttiva E-Commerce[4]. Secondo tale norma, un fornitore di servizi di hosting è tenuto a trasmettere il nome e l’indirizzo degli utenti dei suoi servizi a terze parti laddove queste ultime abbiano un interesse di diritto prevalente a conoscerne l’identità per accertare la sussistenza di una condotta illecita ed avviare i necessari procedimenti in sede legale.

Secondo Standard Verlagsgesellschaft, i commenti controversi non costituivano fattispecie diffamatorie, ma rappresentavano giudizi di valore tutelati dalla libertà di espressione. Per di più, essa invocava la sezione 31(1) della legge sulla stampa, la quale, disciplinando e tutelando la confidenzialità editoriale, stabilisce che le testate giornalistiche non siano soggette all’obbligo di rivelare le proprie fonti. In entrambi i casi, il tribunale di primo grado rigettava le domande proposte dalle persone offese; la decisione veniva tuttavia riformata in appello. La Corte Suprema, infine, confermava le decisioni di appello e la condanna alla trasmissione dei dati richiesti.

Standard Verlagsgesellschaft proponeva dunque ricorso alla Corte EDU, allegando la violazione dell’articolo 10 CEDU.

 

  1. La nozione di fonte giornalistica e i commenti degli utenti

 

Nella sua decisione, la Corte di Strasburgo valuta, in primo luogo, la questione relativa alla possibilità di ascrivere i commenti postati dagli utenti sul portale online del Der Standard alla categoria delle fonti giornalistiche. Invero, il riconoscimento dello status di fonte giornalistica comporta, sia dal punto di vista del diritto interno sia sotto il profilo della giurisprudenza EDU, il godimento di una serie di garanzie e tutele.

In Goodwin c. Regno Unito (1996), la Corte EDU sottolineava per la prima volta come la protezione delle fonti giornalistiche rappresenti una condizione basilare della libertà di stampa: la mancanza di tutele, infatti, potrebbe fungere da deterrente per le potenziali fonti e, quindi, ridurne il ruolo di assistenza alla stampa con conseguenze fortemente negative per la libertà di informazione[5]. Pertanto, anche se l’art. 10 CEDU non prevede espressamente un riferimento alla protezione delle fonti, la disposizione è stata interpretata estensivamente dalla Corte di Strasburgo al fine di includere anche tali istanze. La giurisprudenza della Corte EDU, anzi, «è divenuta progressivamente uno dei baluardi del segreto professionale del giornalista»[6]. In Sanoma Uitgevers B.V. c. Paesi Bassi (2010), la Grande Camera confermava che la tutela della segretezza delle fonti non può essere compressa se non a fronte di un prevalente interesse pubblico[7]. Il 6 ottobre 2020, la sentenza Jecker c. Svizzera[8], in un caso relativo all’ordine rivolto a una giornalista di rivelare informazioni concernenti una fonte interna al mercato illegale delle droghe leggere, la Corte riteneva che l’interesse di ordine pubblico al perseguimento del reato di spaccio non potesse essere ritenuto prevalente rispetto alla necessità di tutelare il segreto giornalistico[9]. Infine, in Becker c. Norvegia (2018)[10], la Corte di Strasburgo concludeva che la condotta tenuta dall’informatore, che nel caso di specie aveva rivelato di essere tale alle autorità pubbliche, non possa comportare l’automatica inapplicabilità del diritto del giornalista o della giornalista a rifiutarsi di rivelare le proprie fonti[11].

L’insieme di queste pronunce dimostra l’importanza di definire il concetto di fonte giornalistica al fine di comprendere quale sia l’effettivo campo di applicazione di tali garanzie e tutele. A tal fine, la Corte EDU si rifà generalmente all’Appendice alla Raccomandazione del Comitato dei Ministri sul diritto dei giornalisti di non rivelare le proprie fonti di informazione[12]. In base a tale raccomandazione, è da considerarsi quale “fonte” chiunque offra informazioni a un giornalista, ove il termine “informazione” ricomprende qualsiasi affermazione di fatto, ovvero qualsiasi opinione o idea resa nella forma di testo, suono e/o immagine. Inoltre, sono da considerarsi “informazioni che identifichino una fonte”, tutelate quindi dal segreto professionale, il nome e i dati personali, nonché la voce e l’immagine di una fonte; le circostanze di fatto legate all’acquisizione di informazioni rese dalla fonte da parte del giornalista; il contenuto inedito di un’informazione resa da una sorsa al giornalista; nonché i dati personali dei giornalisti stessi e dei loro datori di lavoro[13].

Nella sentenza in commento, la Corte di Strasburgo nota che i commenti postati dagli utenti, pur costituendo opinioni e, pertanto, pur costituendo “informazioni” ai sensi della Raccomandazione, erano indirizzati al pubblico in generale e non alla testata giornalistica. Pertanto, secondo i giudici, gli autori di quei commenti non possono essere considerati fonti giornalistiche e non possono godere delle relative garanzie[14]. In ogni caso, la mancata configurabilità del diritto a non rivelare le proprie fonti nel caso di specie non esclude l’applicabilità dell’art. 10 CEDU.

 

  1. Ruolo dell’anonimato in rete e applicabilità dell’articolo 10

 

Secondo il governo austriaco, la società ricorrente non avrebbe subito alcuna interferenza nella sua libertà di informazione ed espressione ai sensi dell’articolo 10 CEDU: la Corte Suprema, infatti, non aveva ordinato né la rimozione dei contenuti controversi, i quali erano stati rimossi autonomamente dalla società su richiesta delle persone offese; né aveva condannato la società a risarcire i danni eventualmente prodotti dalla pubblicazione di tali commenti; né si era espressa in merito alla legittimità di questi ultimi. In effetti, come menzionato sopra, la Corte EDU sottolinea in più punti della decisione come il caso di specie non concerna affatto l’individuazione di una responsabilità sussidiaria della piattaforma per la pubblicazione di contenuti generati da terzi. In tal senso, con riferimento ai commenti postati dagli utenti, viene riconosciuta la natura della piattaforma online del Der Standard quale fornitore di servizi di hosting e non quale fornitore di contenuti

Ciononostante, la Corte di Strasburgo sottolinea come la funzione di host provider della società ricorrente non ne esaurisca le funzioni. Standard Verlagsgesellschaft, più in generale, persegue l’obiettivo di incoraggiare il dibattito e la diffusione di idee riguardanti argomenti di interesse pubblico, in piena linea con il diritto alla stampa: nel fare ciò, la società non si limita quindi a fornire uno spazio online di condivisione, ma ne stabilisce anche le linee-guida e opera una, seppur ridotta, moderazione ex ante[15]. In questo contesto, l’ordine di comunicare i dati relativi agli utenti rappresenta a tutti gli effetti un’interferenza capace di minare allo scopo ultimo del portale online del Der Standard. In altre parole, la caratterizzazione della testata giornalistica quale host provider, e la conseguente applicabilità dell’esenzione di responsabilità prevista dall’articolo 14 della direttiva E-Commerce, non preclude la possibilità di invocare l’articolo 10 CEDU.

In particolare, la sentenza pone in luce il ruolo dell’anonimato in rete[16] quale strumento a maggior tutela della libertà di espressione, sottolineando come l’obbligo di fornire dati relativi agli utenti possa produrre un “chilling effect” tale da ridurre la qualità del dibattito online. La Corte richiama in tal senso alcuni rilevanti documenti e fonti di diritto internazionale ed europeo in materia di anonimato, in primis la Dichiarazione sulla libertà di comunicazione su Internet (2003) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, in base al quale gli Stati contraenti devono rispettare la volontà degli utenti che non vogliano rivelare la propria identità[17]. Viene inoltre fatto riferimento al considerando 14 della stessa direttiva E-Commerce, secondo cui «[l]a presente direttiva non può impedire l’utilizzazione anonima di reti aperte quali Internet»; alla Raccomandazione del comitato dei ministri relativa a una Guida dei diritti umani per gli utenti di internet[18]; nonché al rapporto del 22 maggio 2015 del Relatore Speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione[19].

Nel ricostruire il quadro di diritto, internazionale ed europeo, in materia di anonimato, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria si rifà al noto precedente di Delfi AS c. Estonia: in quest’ultima decisione, infatti, la Corte di Strasburgo sottolineava come l’anonimato rappresentasse da tempo uno strumento per gli utenti per evitare di subire ripercussioni o di ricevere un’attenzione indesiderata in conseguenza dell’espressione delle proprie idee e opinioni[20]. In tal senso, Stefano Rodotà pone in luce come la negazione del diritto all’anonimato rappresenti una violazione della libertà di espressione in quanto equivalente, di fatto a una forma di censura: secondo l’autore, «[l]’anonimato si presenta così come una precondizione della libertà di manifestazione del pensiero», tanto da dover essere considerato «come un elemento costitutivo della versione digitale della cittadinanza»[21]. Per di più, oltre a proteggere l’individuo da ripercussioni esterne, l’anonimato avrebbe altresì un ulteriore ruolo di tutela “positiva” della libertà di espressione, in quanto consentirebbe all’individuo di poter avanzare le proprie critiche e le proprie posizioni senza essere vincolato (e/o limitato) dalla propria identità o dal proprio background: un profilo, questo, particolarmente rilevante per gli appartenenti a gruppi minoritari o comunque vulnerabili[22].

Rilevato come il diritto all’anonimato in rete sia co-essenziale alla libertà di espressione online, e considerato quindi il potenziale impatto della decisione delle corti austriache sulla qualità del dibattito sul portale del Der Standard, la Corte di Strasburgo conclude che l’ordine di comunicazione dei dati degli utenti rappresenti effettivamente un’interferenza a carico della libertà di stampa della società ricorrente. In tal senso, sarebbe dunque configurabile l’esistenza di una declinazione della libertà di stampa “mediata” dalla libertà di espressione degli utenti della piattaforma stessa[23].

In ogni caso, il diritto all’anonimato, come componente della stessa libertà di espressione, non è assoluto, ma tollera interferenze statali purché queste ultime, ai sensi dell’articolo 10(2) CEDU, siano prestabilite per legge, perseguano uno scopo legittimo e siano necessarie in una società democratica. Del resto, giurisprudenza e dottrina hanno ampiamente rilevato come, a fronte del suo ruolo ampliativo della libertà di espressione, l’anonimato rappresenti altresì un rischio aggiunto nell’ambiente digitale. Già in Delfi, la Corte rilevava come la possibilità di ricorrere all’anonimato fosse capace di incentivare (e potenzialmente aggravare) la disseminazione di contenuti illeciti quali, per esempio, contenuti diffamatori o contenuti d’odio[24]. Ancor prima, in un caso riguardante un minore i cui dati erano stati sottratti per creare un profilo su un sito di incontri, i giudici di Strasburgo avevano condannato la Finlandia in quanto la legislazione nazionale, troppo sbilanciata a favore del diritto all’anonimato, non aveva permesso alla vittima di ottenere alcuna informazione sull’identità di colui che aveva creato tale profilo[25]. Nel 2020, ancora, la Corte EDU sancì la legittimità convenzionale dell’obbligo, imposto da una legge federale tedesca ai fornitori di servizi di telecomunicazione, di conservare i dati relativi ai possessori di carte SIM al fine di consentire il perseguimento di reati[26].

A fronte di una simile ambivalenza caratterizzante l’anonimato in rete, emerge la necessità di operare un attento bilanciamento tra i diversi interessi in gioco, in modo da garantire che esso, da un lato, mantenga il suo statuto di diritto fondamentale dell’utente e, dall’altro lato, non trasmodi in un vero e proprio abuso di diritto. Come verrà meglio specificato infra, la sentenza si sposta dunque a esaminare la delicata questione se il requisito della proporzionalità sia stato, nel caso concreto, rispettato o meno.

È peraltro interessante notare come l’assunto dell’applicabilità dell’articolo 10 CEDU al caso in esame non sia stato condiviso da tutti i componenti della Quarta Sezione della Corte di Strasburgo. In particolare, il giudice Eicke ha reso un’opinione parzialmente divergente (partly dissenting opinion) da quella espressa dalla maggioranza, sottolineando come il ricorso all’articolo 10 nel caso in esame rappresenti un’estensione non necessaria e immotivata del campo di applicazione norma in esame. In particolare, il giudice critica l’assunto, sotteso al ragionamento della maggioranza della Corte, secondo cui la società ricorrente, in quanto impegnata nel settore dei media, sarebbe titolare di una libertà di stampa “residua” anche laddove i contenuti controversi siano stati riconosciuti come non pertinenti l’attività giornalistica della testata. In altre parole, secondo il giudice Eicke, una volta concluso che i commenti degli utenti non costituivano fattispecie di fonti giornalistiche né contenuti prodotti dalla testata o sottoposti alla sua responsabilità editoriale, non sarebbe stato opportuno possibile invocare la libertà di stampa, da intendersi quale libertà di espressione ex articolo 10 CEDU esercitata specificamente da una testata giornalistica[27].

Per di più, il giudice Eicke ritiene che non sia possibile giustificare l’applicabilità dell’articolo 10 CEDU al caso in descrizione soltanto sulla base del rilievo che la funzione complessiva della società ricorrente fosse quella di incoraggiare il dibattito e la diffusione di idee. Secondo il giudice, alla luce delle attuali dinamiche informazionali caratterizzanti la rete, una tale giustificazione potrebbe portare a un allargamento eccessivo delle maglie dell’articolo 10, e al rischio dunque di potenziali abusi, soprattutto laddove si consideri il crescente ruolo di blogger, influencer e social media nella società attuale. Del resto, non è escluso che la funzione di “guardiani della democrazia”, tradizionalmente associata alla stampa, possa essere riconosciuta in futuro anche a utenti particolarmente celebri della rete[28].

 

  1. La decisione della Corte

 

Una volta riconosciuta, nonostante l’opposizione del giudice Eicke, l’applicabilità dell’articolo 10 al caso esaminato, la decisione passa ad esaminare se l’interferenza alla libertà di espressione della società ricorrente sia rispettosa o meno delle tre condizioni di cui al secondo paragrafo della norma, ovverosia se essa sia stata prevista per legge, se avesse lo scopo di perseguire un interesse legittimo e se, infine, l’interferenza fosse o meno “necessaria in una società democratica”[29]. Non essendo stata messa in discussione la sussistenza delle prime due condizioni da nessuna delle parti, la necessità della misura in una società democratica, e in particolare il corollario di tale principio secondo cui la misura deve essere proporzionata allo scopo perseguito, rappresenta il focus dell’analisi della Corte di Strasburgo. In particolare, la Corte sottolinea come il caso di specie richieda un bilanciamento tra la libertà di espressione tutelata dall’articolo 10, vantata dalla società ricorrente, e il diritto, tutelato ai sensi dell’articolo 8, al rispetto della propria reputazione[30].

A tal proposito, la decisione si rifà alla risalente giurisprudenza della Corte EDU in materia di libertà di espressione. In particolare, i giudici sottolineano come il margine di discrezionalità degli Stati contraenti sia particolarmente ridotto laddove il contenuto dell’espressione controversa sia di natura pubblica o comunque investa tematiche relative a questioni di interesse pubblico[31]. Per di più, la Corte nota come il diritto di critica sia particolarmente ampio quando la critica abbia ad oggetto personalità politiche le quali, a differenza di individui privati, si sottopongono inevitabilmente e consapevolmente al pubblico e ai giornalisti[32].

D’altro canto, la libertà di cui all’articolo 10 CEDU non può essere invocata laddove un soggetto diffonda forme espressive il cui contenuto sia particolarmente pericoloso e dannoso: è questo il caso, per esempio, di discorsi che neghino l’avvenuto Olocausto[33], che leghino la religione islamica e le persone musulmane a gravi atti di terrorismo[34], ovvero della rappresentazione della popolazione ebraica come male della società[35]. In questi casi, infatti, la Corte di Strasburgo riconosce essere sussistente la fattispecie del “discorso d’odio” (hate speech) e ritiene, pertanto, applicabile l’articolo 17 CEDU sull’abuso di diritto[36]. Su questo punto, peraltro, la decisione in esame si esprime nel senso di negare categoricamente che i commenti postati dagli utenti sul portale del Der Standard, pur essendo offensivi e mancando di rispetto ai soggetti coinvolti[37], costituiscano fattispecie di hate speech, di incitamento alla violenza o di contenuti comunque chiaramente illeciti[38].

Escluso dunque che i commenti controversi possano essere sanzionati ai sensi dell’articolo 17, la Corte EDU sottolinea come, in un caso come quello in questione, sia opportuno per le corti domestiche operare un attento bilanciamento tra gli interessi in gioco. Secondo i giudici di Strasburgo, tuttavia, le corti d’appello e la Corte Suprema austriache non avrebbero presentato ragioni sufficienti a giustificare la prevalenza dell’interesse delle persone offese alla comunicazione dei dati degli autori dei commenti. Le corti nazionali, in effetti, fanno nelle loro decisioni un semplice riferimento alla giurisprudenza della Corte Suprema sull’art. 1330 del codice civile austriaco, concludendo che il bilanciamento tra i contrapposti diritti alla reputazione e alla libertà di espressione debba essere operato non tanto nel presente giudizio a carico dell’intermediario digitale, quanto nell’eventuale successivo procedimento a carico degli autori dei commenti controversi. Secondo la Corte EDU, tuttavia, il semplice riferimento alla precedente giurisprudenza di legittimità della Corte Suprema austriaca non costituisce un’argomentazione soddisfacente, soprattutto laddove si tenga conto del fatto che i commenti controversi concernevano tematiche di interesse pubblico, in quanto relativi alla condotta di soggetti attivi politicamente[39].

Sebbene i giudici di Strasburgo riconoscano alle corti nazionali il potere di ordinare anche solo sulla base di una disamina “prima facie” dei fatti la comunicazione dei dati degli utenti che si ritenga abbiano potenzialmente posto in essere condotte illecite, la decisione in esame conclude che l’assenza di una qualsivoglia attività di bilanciamento rappresenta essa stessa una violazione dell’articolo 10 CEDU, nella sua particolare declinazione rappresentata dal diritto all’anonimato degli utenti. In altre parole, è necessaria secondo la Corte EDU una, seppur minima, analisi caso per caso delle circostanze di fatto laddove si voglia giustificare un’interferenza con la libertà di espressione degli individui. Il fatto che le corti austriache abbiano mancato completamente di operare un bilanciamento degli interessi coinvolti, rimandando semplicemente alla casistica precedente, implica che non sia stato in alcun modo dimostrata la sussistenza del requisito della “necessità in una società democratica”. Di conseguenza, conclude la sentenza, vi è stata invero una violazione dell’articolo 10 CEDU[40], violazione che si caratterizza per la sua dimensione essenzialmente procedurale[41].

 

  1. Rilievi conclusivi

 

La sentenza esaminata rappresenta un importante tassello nella costruzione della giurisprudenza EDU in materia di tutela della libertà di espressione e di stampa sotto una pluralità di profili.

In primo luogo, la decisione approfondisce la natura giuridica dei commenti che vengano postati su un portale online. In tal senso, la Corte ha rigettato l’interpretazione proposta dalla società ricorrente secondo cui tali contenuti costituirebbero fonti giornalistiche protette dal segreto editoriale. I giudici di Strasburgo, in particolare, rilevano come i commenti controversi non fossero destinati alla testata giornalistica in quanto tale ma, piuttosto, al pubblico in generale: in tal senso, pertanto, sarebbe da considerarsi fonte giornalistica solo l’espressione di circostanze di fatto, di opinioni o di idee che sia rivolta direttamente a una persona, fisica o giuridica, che eserciti la professione giornalistica[42].

Nel giungere a tale conclusione, la Corte sembra tacitamente accogliere la posizione del governo austriaco, secondo cui una distinzione deve essere operata tra la funzione editoriale di una testata giornalistica, applicabile ai contenuti da essa prodotti, e la sua funzione di host provider, la quale rileva con riferimento ai contenuti generati dagli utenti terzi. Se nell’esercizio della prima funzione la testata si espone a una responsabilità diretta per il materiale pubblicato ma gode, al contempo, del diritto al segreto editoriale, l’esercizio della seconda funzione, pur garantendo la nota limitazione della responsabilità ai sensi dell’articolo 14 della direttiva E-Commerce, non sarebbe in alcun modo tutelato dal diritto alla riservatezza delle fonti. In altre parole, emerge dal tenore della sentenza un’incompatibilità tra, da un lato, esenzione di responsabilità, caratterizzante la disciplina degli host provider, e, dall’altro lato, tutela del segreto editoriale[43].

Peraltro, la Corte ha ritenuto esplicitamente che l’applicabilità del regime giuridico tipico degli host provider non escluda la possibilità di riconoscere a una testata giornalistica la possibilità di esercitare un autonomo diritto alla libertà di espressione. Tenuto conto del ruolo che il diritto all’anonimato degli utenti può ricoprire nella generale funzione, tipica della stampa, di garantire il più ampio dibattito democratico, la maggioranza dei giudici di Strasburgo ritiene che un’ingiustificata e sproporzionata interferenza con tale diritto possa indirettamente andare a colpire la stessa libertà di stampa di una testata giornalistica. In questo senso, l’argomentazione presentata dalla Corte EDU sembra essere tuttavia quanto meno fumosa. La scelta di escludere i commenti, resi anonimamente dagli utenti, dalla tutela del segreto editoriale, giustificata sulla base del rilievo secondo cui tali commenti sarebbero stati rivolti alla generalità del pubblico e non avrebbero dunque rappresentato strumenti utilizzati dal Der Standard per la sua attività giornalistica, sembra in effetti non del tutto coerente con il successivo assunto secondo cui l’anonimato degli utenti rappresenterebbe al tempo stesso una declinazione indiretta della libertà di espressione della stessa testata.

Questo apparente cortocircuito logico, del resto, sembra essere mosso dall’apprezzabile e necessario tentativo della Corte di fornire un appiglio normativo atto a garantire un seppur minimo bilanciamento tra i contrapposti interessi all’anonimato e all’accesso ai dati di coloro che si supponga aver posto in essere condotte illecite. Invero, la scelta delle corti austriache di sospendere in toto il giudizio di bilanciamento tra i due interessi, per rimandarne la valutazione al successivo giudizio civile o penale a carico dei soggetti che abbiano postato i commenti, si tradurrebbe in un sostanziale annullamento del diritto all’anonimato in rete. A fronte di un qualsivoglia contenuto potenzialmente offensivo, infatti, sarebbe possibile obbligare il portale online a comunicare i dati dell’autore. Per quanto la società ricorrente non abbia dimostrato di agire per conto o per interesse degli autori dei commenti controversi, come giustamente osservato dal giudice Eicke[44], la previsione di una forma di tutela preventiva mediata affidata alla testata giornalistica rappresenta uno scudo necessario per non minare eccessivamente il diritto all’anonimato come componente della libertà di espressione.

L’applicazione dell’articolo 10 CEDU al caso in questione, e il conseguente riconoscimento di una forma mediata di esercizio della libertà di stampa, permette in ultima analisi una maggiore e necessaria tutela dei diritti fondamentali degli utenti. Ciononostante, il procedimento logico-giuridico adottato dalla Corte di Strasburgo pare in taluni passaggi non essere del tutto convincente. In particolare, è auspicabile per il futuro da parte della giurisprudenza EDU una più chiara definizione del rapporto tra fonte giornalistica e contenuti prodotti da terzi, nonché una più sistematica individuazione del rapporto tra libertà di stampa e diritto all’an

[1] CEDU, Standard Velagsgesellschaft mbH c. Austria, ric. 39378/15 (2021).

[2] Ivi, § 68. Si vedano in particolare CEDU, Delfi AS c. Estonia, ric. 64569 (2015) e CEDU, Magyar Tartalomszolgáltatók Egyesülete and Index.hu Zrt c. Ungheria, ric. 22947/13 (2016).

[3] Bundesgesetz, mit dem bestimmte rechtliche Aspekte des elektronischen Geschäfts- und Rechtsverkehrs geregelt werden (E-Commerce-Gesetz – ECG), in BGBl. I n. 152/2001.

[4] Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»), in G.U. L-178.

[5] CEDU, Goodwin c. Regno Unito, ric. 17488/90 (1996), § 39.

[6] G.E. Vigevani, La protezione del segreto del giornalista al tempo di internet, in Costituzionalismo.it, 3, 2011, 1 ss., 3.

[7] CEDU, Sanoma Uitgevers B.V. c. Paesi Bassi, ric. 38224/03 (2010), § 51. Sulla decisione, si veda D. Voorhoof, European Court of Human Rights reinforces protection of journalistic sources, in biblio.ugent.be, 16 settembre 2010.

[8] CEDU, Jecker c. Svizzera, ric. 35449/14 (2020).

[9] Per un commento alla sentenza, si veda M. Castellaneta, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU. Una nuova pronunzia della Corte di Strasburgo (Jecker c. Svizzera), in giustiziainsieme.it, 14 novembre 2020.

[10] CEDU, Becker c. Norvegia, ric. 21272/12 (2018).

[11] Così ivi, § 74: «[I]n cases where a source was clearly acting in bad faith with a harmful purpose, […] the conduct of the source could never be decisive in determining whether a disclosure order ought to be made but would operate as merely one, albeit important, factor to be taken into account in the balancing exercise under Article 10 § 2 of the Convention […]. Consequently, a journalist’s protection under Article 10 cannot automatically be removed by virtue of a source’s own conduct. In the Court’s view, these considerations are also relevant in a situation where a source comes forwards, as in the present case». Si veda, in merito, G. De Gregorio, Disclosing journalistic sources already revealed. The Becker v. Norway case, in MediaLaws, 3, 2018, 386 ss.

[12] Raccomandazione R (2000) 7 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sul diritto dei giornalisti a non rivelare le loro fonti di informazione, CM/Rec(2000)7, adottata dal Comitato dei Ministri l’8 marzo 2000.

[13] Così CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 65: «Regarding journalistic sources, the Court’s understanding of the concept of a journalistic “source” is “any person who provides information to a journalist”; it understands the term “information identifying a source” to include, in so far as they are likely to lead to the identification of a source, both “the factual circumstances of acquiring information from a source by a journalist” and “the unpublished content of the information provided by a source to a journalist”». Si veda anche Telegraaf Media Nederland Landelijke Media B.V. e altri c. Paesi Bassi, ric. 39315/06 (2012), § 86.

[14] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 71: «In the instant case, the Court concludes that the comments posted on the forum by readers of the news portal, while constituting opinions and therefore information in the sense of the Recommendation, were clearly addressed to the public rather than to a journalist. This is sufficient for the Court to conclude that the comments’ authors could not be considered a source to a journalist. The Court therefore agrees with the Government that the applicant company could not rely on editorial confidentiality in the instant case».

[15] Ivi, § 73.

[16] Per uno sguardo sul ruolo che l’anonimato in rete ha ricoperto (e ricopre tutt’ora) si vedano, tra gli altri, G.E. Vigevani, Anonimato, responsabilità e trasparenza nel quadro costituzionale italiano, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2, 2014, 207 ss.; D. Voorhoof, Internet and the right of anonymity, in Proceedings of the conference Regulating the Internet, Belgrado, 2010, 163 ss.

[17] Dichiarazione sulla libertà di comunicazione su Internet, adottata dal Comitato dei Ministri il 28 maggio 2003, principio 7.

[18] Raccomandazione R (2014) 6 del Comitato dei Ministri agli Stati membri relativa a una Guida dei diritti umani per gli utenti di Internet, CM/Rec(2014)6, adottata dal Comitato dei Ministri il 16 aprile 2000, la quale, al paragrafo 6 della parte dedicata alla libertà di espressione e di informazione, riconosce il diritto degli utenti di non divulgare la propria identità online, utilizzando, per esempio uno pseudonimo. Al tempo stesso, la Raccomandazione riconosce anche che occorre che gli individui siano «consapevoli del fatto che, anche in tali circostanze, le autorità nazionali possono adottare misure che potrebbero portare a rivelare la [loro]identità».

[19] D. Kaye, Report of the Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression, A/HRC/29/32, 22 maggio 2015, § 60: «States should not restrict encryption and anonymity, which facilitate and often enable the rights to freedom of opinion and expression».

[20] CEDU, Delfi AS c. Estonia, cit.

[21] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 392.

[22] Così G. Resta, Anonimato, responsabilità, identificazione: prospettive di diritto comparato, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2, 2014, 171 ss., 174: «[L’anonimato] realizzerebbe il sogno dell’identità postmoderna, consentendo a ciascuno di sfuggire alle gabbie della propria ‘biografia’, costruendo un’identità fluida, à la carte, plasmata su un io desiderato e libero da tutti i vincoli e le convenzioni sociali circa il modo di apparire. […] Non si tratta, peraltro, di un’esigenza limitata alla posizione dei singoli individui. L’anonimato sembrerebbe offrire benefici non irrilevanti anche dal punto di vista dell’autonomia dei gruppi. Difatti, consentendo alle minoranze (di genere, di ceto, di etnia, di orientamento sessuale) di esprimere critiche, rivendicare pretese e organizzare forme di mobilitazione a un grado di intensità altrimenti impossibile, specie ma non soltanto nei sistemi a scarso tasso di democraticità, tale strumento avrebbe un effetto ampiamente positivo sul piano della partecipazione alla vita politica e, dunque, della redistribuzione del potere sociale».

[23] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 74.

[24] CEDU, Delfi AS c. Estonia, cit., § 147. Cfr., sul punto, I. Gagliardone et al., Countering Online Hate Speech, Parigi, 2015, 14.

[25] Così CEDU, K.U. c. Finlandia, ric. 2872/02 (2008), § 49: «The Court considers that practical and effective protection of the applicant required that effective steps be taken to identify and prosecute the perpetrator, that is, the person who placed the advertisement. In the instant case, such protection was not afforded. An effective investigation could never be launched because of an overriding requirement of confidentiality. Although freedom of expression and confidentiality of communications are primary considerations and users of telecommunications and Internet services must have a guarantee that their own privacy and freedom of expression will be respected, such guarantee cannot be absolute and must yield on occasion to other legitimate imperatives, such as the prevention of disorder or crime or the protection of the rights and freedoms of others. Without prejudice to the question whether the conduct of the person who placed the offending advertisement on the Internet can attract the protection of Articles 8 and 10, having regard to its reprehensible nature, it is nonetheless the task of the legislator to provide the framework for reconciling the various claims which compete for protection in this context».

[26] CEDU, Breyer c. Germania, ric. 50001/12 (2020). In realtà, in questo caso, la Corte EDU rigettò tout-court l’applicabilità dell’articolo 10 al caso concreto, in quanto l’obbligo di conservazione concerneva soltanto i dati personali dei possessori di carte SIM e non i dati relativi al traffico, al luogo o, soprattutto, al contenuto delle comunicazioni. In questo caso, pertanto, il ruolo dell’anonimato è stato affrontato sotto il profilo della tutela del diritto alla riservatezza e protezione dei dati personali ex art. 8 CEDU. In effetti, come sottolineato in Resta, Anonimato, responsabilità, identificazione, cit., 178 ss., la tutela della privacy rappresenta un ulteriore riflesso del diritto all’anonimato. Peraltro, la conclusione della Corte in merito all’inammissibilità della domanda relativa alla violazione dell’articolo 10 è stata criticata in P. De Hert – G. Bouchagiar, Adding and Removing Elements of the Proportionality and Necessity Test to Achieve Desired Outcomes. Breyer and the Necessity to End Anonymity of Cell Phone Users, in European Data Protection Law Review, 7, 2021, 304 ss., 318: «How is it possible that the Breyer-judgment does not take seriously, but rather easily skips the freedom of expression-discussion? Especially when it is the very taking of the data, the storage that the applicants invoke and that the Court avoids to analytically assess throughout the whole judgment, that which causes identifiability and, thus, kills anonymity?».

[27] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., Partly dissenting opinion of Judge Eicke, § 15: «“[F]reedom of the press”, as such, is not a term one finds as separately guaranteed right/freedom under Article 10; it is a term primarily used by the Court as shorthand for the right to “freedom of expression” as exercised by the press which is, for that reason, subject to heightened protection by the Court […]. On the other hand, there is, in my view, no support for the proposition that there is a residual right to “freedom of the press” which can be invoked solely by reason of the very identity of an applicant as a journalist or member of the press, irrespective of whether the act complained of or the information sought has any connection at all to his or her activity as a “journalist” exercising their right of freedom of expression. The protection provided by Article 10 is functional not personal».

[28] Ibid.: «[I]t is also not sufficient, in my view, to rely solely on the assertion that “the applicant company’s overall function is to further open discussion and to disseminate ideas with regard to topics of public interest” […]. After all, it is no longer possible to limit this recognised “function” to the traditional press […]. [T]he Court has made clear that “given the important role played by the Internet in enhancing the public’s access to news and facilitating the dissemination of information […], the function of bloggers and popular users of the social media may be also assimilated to that of ‘public watchdogs’ in so far as the protection afforded by Article 10 is concerned».

[29] Sui criteri di ammissibilità delle interferenze alla libertà di espressione ex art. 10(2) CEDU, si veda tra gli altri B. Rainey – P. McCormick – C. Ovey, Jacobs, White and Ovey: The European Convention on Human Rights, 8 ed., Oxford 2021, 347 ss. e 488 ss.

[30] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 74.

[31] Ivi, § 86.

[32] Ivi, § 87.

[33] CEDU, Garaudy c. Francia, ric. 65831/01 (2003).

[34] CEDU, Norwood c. Regno Unito, ric. 23131/03 (2004).

[35] CEDU, Pavel Ivanov c. Russia, ric. 35222/04 (2007). Sul tema dell’espressione di opinioni afferenti alla sfera dell’antisemitismo, si veda altresì, ex multis, CEDU, M’Bala M’Bala c. Francia, ric. 25239/13 (2015).

[36] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 88. Sul rapporto tra hate speech e art. 17 CEDU nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si veda in particolare C. Caruso, L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale, in Quaderni costituzionali, 4, 2017, 963 ss.

[37] Del resto, fin da CEDU, Handyside c. Regno Unito, ric. 5493/72 (1976), § 49, è principio assestato della Corte di Strasburgo che la libertà di espressione di cui all’art. 10 CEDU si applichi anche a quelle forme espressive che offendano, sciocchino o disturbino lo Stato o l’opinione pubblica.

[38] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 89.

[39] Ivi, §§ 93-94.

[40] Così ivi, §§ 95-97: «[T]he Court accepts that for a balancing exercise in proceedings concerning the disclosure of user data, a prima facie examination may suffice […]. However, even a prima facie examination requires some reasoning and balancing. In the instant case, the lack of any balancing between the opposing interests […] overlooks the function of anonymity as a means of avoiding reprisals or unwanted attention and thus the role of anonymity in promoting the free flow of opinions, ideas and information, in particular if political speech is concerned which is not hate speech or otherwise clearly unlawful. […] [T]he Court cannot agree with the Government’s submission that the Supreme Court struck a fair balance between opposing interests in respect of the question of fundamental rights […]. [I]n the absence of any balancing of those interests the decisions of the appeal courts and the Supreme Court were not supported by relevant and sufficient reasons to justify the interference. It follows that the interference was not in fact “necessary in a democratic society”, within the meaning of Article 10 § 2 of the Convention. There has accordingly been a violation of Article 10 of the Convention».

[41] Ivi, § 103.

[42] In realtà, l’argomentazione della Corte EDU con riferimento a tale conclusione appare per certi versi sbrigativa. In particolare, la Corte non fa riferimento alcuno alla sopra menzionata sentenza Becker c. Norvegia la quale, come si è detto, stabilisce il principio generale per cui il/la giornalista mantiene il diritto di rifiutare la comunicazione di informazioni sulle proprie fonti a prescindere dalla condotta tenuta dall’informatore stesso. L’argomentazione adottata in Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria, secondo cui il diritto al segreto editoriale sarebbe da ritenersi escluso in quanto i commenti sarebbero stati “chiaramente” rivolti al pubblico in generale, e non specificamente alla testata giornalistica, sembra in un certo senso andare contro il principio espresso in Becker. Inoltre, la Corte non si è espressa con riferimento al paragone, proposto dalla società ricorrente, tra i commenti postati in forma anonima dagli utenti e le lettere private inviate a una redazione giornalistica.

[43] Così CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., § 58: «The Government stated that in the absence of a sufficient connection between the publication of the comments and the applicant company’s journalistic activities, the applicant company could not in the present case invoke its right to editorial confidentiality. […] The applicant company’s role as a host provider offering a discussion forum onits website differed from its role as a publisher of articles. As a publisher, the applicant company had to take full responsibility for its articles. As a host provider, on the other hand, it enjoyed the exemption from liability enshrined in section 16 of the E-Commerce Act […]. To counterbalance that privilege, the applicant company, as a host provider, had a duty to disclose certain data to persons who made credible an overriding legal interest».

[44] CEDU, Standard Verlagsgesellschaft mbH c. Austria (No. 3), cit., Partly dissenting opinion of Judge Eicke, § 13(h).

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