Il “nuovo” piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre (LCN): un’occasione mancata?

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1. Numerazione automatica, concorrenza e pluralismo nei media.

Con la delibera n. 442/12/CONS del 4 ottobre 2012, l’AGCOM ha sottoposto a consultazione pubblica lo schema di provvedimento recante il “nuovo piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre, in chiaro e a pagamento”, nonché le modalità di attribuzione dei numeri e le relative condizioni di utilizzo, ai sensi di quanto disposto dall’art. 32, comma 2 del testo unico sui servizi di media audiovisivi e radiofonici (d. lgs. n. 177 del 2005, come modificato dal d. lgs. n. 44 del 2010).
Si tratta di ciò che è comunemente conosciuto come LCN, acronimo di logical channel numbering, ovvero l’attribuzione a ciascun canale della televisione digitale terrestre di un numero, assegnato automaticamente dal decoder: numero che (fermo restando il diritto dell’utente di riordinare i canali secondo propri criteri, diritto espressamente garantito dall’art. 32 comma 2 del testo unico), individua la posizione del canale all’interno dell’offerta complessiva dei programmi della televisione digitale terrestre e sul telecomando dell’utente.
E inutile sottolineare la delicatezza e l’importanza del tema: l’adozione di criteri semplici, razionali e, soprattutto, non discriminatori può infatti contribuire in maniera decisiva a valorizzare le potenzialità del passaggio al digitale terrestre come strumento per incrementare realmente concorrenza e pluralismo nel sistema radiotelevisivo; non solo, ma, sempre in questa prospettiva, l’adozione del piano LCN avrebbe anche potuto (e forse dovuto) rappresentare un’occasione per adottare misure “asimmetriche” che, favorendo i nuovi entranti a scapito dei detentori di posizioni dominanti, stimolassero l’utente ad entrare in contatto con nuove offerte e nuovi programmi, valorizzando al massimo le potenzialità insite nel passaggio al digitale.
Se mai questa opportunità vi è stata, si può dire che l’adozione del piano rappresenta l’ennesima occasione mancata: dapprima il legislatore, nel dettare i criteri cui l’AGCOM è tenuta ad attenersi nell’adozione del piano, e successivamente la stessa AGCOM, nella redazione del piano, non solo hanno rinunciato ad utilizzare la disciplina dell’LCN come strumento per incrementare la concorrenza ed il pluralismo nel settore dei servizi audiovisivi, ma anzi, all’opposto, hanno costruito un sistema che si traduce in un evidente ulteriore rafforzamento delle posizioni dominanti già esistenti nel sistema analogico.

2. L’art. 32 comma 2 del testo unico tra “equità”, “non discriminazione” e “trasparenza” e “rispetto delle abitudini degli utenti”.

Cominciando dalle responsabilità del legislatore, va innanzitutto ricordato che, in assenza di qualsiasi previsione al riguardo nella legge delega, il governo ha ritenuto di inserire, nel d. lgs. n. 44 del 2010, una norma che demanda all’AGCOM l’adozione del piano di numerazione automatica, individuando dei criteri che, sin dalla loro formulazione, appaiono ispirati molto più alla preoccupazione di mantenere e consolidare lo status quo che alla valorizzazione delle potenzialità offerte dal passaggio alla nuova tecnologia trasmissiva.
L’art. 32, comma 2, del testo unico, nel testo introdotto dal d. lgs. n. 44 del 2010, dopo aver fatto salvo il (sacrosanto) “diritto di ciascun utente di riordinare i canali offerti sulla televisione digitale”, prevede che l’AGCOM, “al fine di assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie, adotta un apposito piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre, in chiaro e a pagamento, e stabilisce con proprio regolamento le modalità di attribuzione dei numeri”.
Il nobile richiamo alla finalità di “assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie” risulta, però, puntualmente smentito non appena ci si sofferma sull’esame dei “criteri” in base ai quali l’AGCOM dovrebbe redigere il piano: criteri che devono seguire un rigoroso “ordine di priorità”, e tra i quali, subito dopo quello (oltremodo generico) della “garanzia della semplicità d’uso del sistema” (lett. a), troviamo (lett. b) quello del “rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti, con particolare riferimento ai canali generalisti nazionali e alle emittenti locali”.
E’ evidente che il rilievo attribuito al “criterio” del “rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti”, enunciato come prioritario e secondo solo a quello (del tutto indeterminato, e pericolosamente suscettibile di essere anch’esso interpretato come ulteriore salvaguardia dello status quo) della “semplicità d’uso” del sistema, finisce col vanificare del tutto la possibilità di utilizzare la disciplina dell’LCN in senso effettivamente pro – concorrenziale e pluralistico: specie se si considera che, tra i criteri enunciati nell’art. 32, comma 2, il favore verso i “nuovi entranti” si manifesta solo come riserva di “una serie di numeri”, all’interno di ciascun “genere” di programmazione “tematica” (lett. c), e viene comunque dopo il criterio del “rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti”.
Il messaggio del legislatore è chiaro: il mantenimento delle posizioni acquisite (sotto la veste del “rispetto delle abitudini degli utenti”) deve prevalere sul favor verso i nuovi entranti, escludendo alla radice ogni possibilità di utilizzo in senso “asimmetrico” dell’LCN.
Così operando, non vi è dubbio che il legislatore abbia dato un contributo determinante a neutralizzare la possibilità di utilizzo dell’LCN in chiave di effettiva apertura del sistema alla concorrenza ed al pluralismo: e tuttavia, a parere di chi scrive, nonostante tale discutibile scelta del legislatore, il quadro normativo avrebbe consentito comunque di effettuare, in sede di redazione del piano, scelte diverse da quelle effettivamente compiute dall’AGCOM, dapprima con la delibera n. 366/10/CONS, e ora con lo schema di piano sottoposto a consultazione.

3. Le scelte dell’AGCOM e le decisioni del giudice amministrativo.

Come è noto, la prima versione del piano, adottata con la delibera n. n. 366/10/CONS del 15 luglio 2010, è stata annullata dal giudice amministrativo a seguito di una pluralità di ricorsi presentati da numerosi operatori del settore: e tuttavia, i pronunciamenti del giudice amministrativo, soprattutto per quanto riguarda le posizione delle emittenti nazionali, non hanno aperto la strada a ripensamenti sostanziali rispetto alle scelte effettuate nel 2010.
Se infatti le decisioni del TAR del Lazio avevano accolto alcuni motivi di ricorso relativi, in particolare, alla attribuzione della numerazione alle emittenti nazionali c.d. “native digitali” in rapporto alle “ex analogiche”, il Consiglio di Stato, pur confermando l’annullamento del piano per vizi inerenti al mancato rispetto di regole procedurali, ha in larga parte riformato le decisioni di primo grado, riconoscendo la legittimità di molte scelte effettuate dall’AGCOM nella delibera del 2010.
Sicché, come appare dalla lettura dello schema di provvedimento sottoposto a consultazione, è probabile che la ripetizione della procedura di consultazione metta capo ad un provvedimento per molti importanti aspetti non sostanzialmente dissimile da quello del 2010.
Senza la pretesa di affrontare tutte le complesse problematiche coinvolte nella disciplina dell’LCN, di seguito ci si soffermerà sugli aspetti più eclatanti che fanno sì che, a parere di chi scrive, anche nella sua nuova versione il piano predisposto dall’AGCOM rappresenti, come si è detto, un’occasione mancata nella prospettiva dell’apertura del mercato televisivo italiano ad una maggiore concorrenza e ad un maggior pluralismo.

4. In particolare: numerazione a tre cifre e numerazione a una, due o tre cifre.

In primo luogo, lo schema del 2012, confermando scelte già effettuate nel 2010, organizza il piano di numerazione (art. 3) “sulla base di una numerazione aperta che inizia con una cifra”: in altri termini ciò significa che i numeri disponibili (dal n. 1 al n. 999) sono ripartiti in dieci “archi di numerazione”, di cui il primo (dal n. 1 al n. 99) è costituito da numeri ad una o due cifre, e i restanti nove (dal n. 100 al n. 999) da numeri a tre cifre.
Confermando la scelta del 2010, l’Autorità sembra ormai decisa ad abbandonare l’opzione, pur inizialmente suggerita e sostenuta da alcuni operatori, verso una numerazione a tre cifre per tutti gli archi di numerazione: il risultato è che, tra i numeri assegnati alle emittenti, vi saranno nove numeri ad una cifra (da 1 a 9), 90 numeri a due cifre (da 10 a 99) e ben 900 numeri a tre cifre (da 100 a 999).
E’ evidente che, in termini di semplicità e immediatezza di memorizzazione e di utilizzo da parte dell’utente, un numero a una cifra ha un valore decisamente superiore rispetto a un numero a due cifre, e incomparabilmente superiore rispetto ad uno a tre cifre: ne consegue che, così operando, si sono create le precondizioni per il determinarsi di effetti pesantemente discriminatori tra gli operatori, disattendendo l’indicazione, pur chiaramente espressa dal legislatore, di “assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie”.
E’ pur vero che il giudice amministrativo (si v. per tutte TAR Lazio, sez. III – ter, sent. n. 873 del 26 gennaio 2012) ha ritenuto che questo modo di procedere non sia illegittimo, perché risponde all’esigenza di rispettare le abitudini degli utenti e di aumentare i numeri a disposizione, in base a un principio di efficienza dell’azione amministrativa: ma non si può non osservare che il rispetto delle abitudini degli utenti sarebbe stato assicurato anche attribuendo ai primi canali i numeri da 101 a 109, e che, quanto alla maggiore “efficienza” nell’utilizzo della numerazione consistente nella possibilità di utilizzare 10 archi di numerazione anziché 9 (cioè 1000 numeri anziché 900), le attuali disponibilità di canali della televisione digitale terrestre, e le possibilità di sviluppo che si possono ragionevolmente attendere per il prossimo futuro, inducono a ritenere che il “sacrificio”, rappresentato dalla perdita del primo “arco di numerazione” (cioè di 99 numeri disponibili su un totale di 1000), fosse ragionevolmente accettabile in nome dell’esigenza (lo si ripete, espressamente proclamata dal legislatore) di “assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie”.
La disponibilità di 900 numeri appare più che sufficiente per soddisfare le attuali esigenze del sistema digitale terrestre, e quelle che ragionevolmente potranno manifestarsi nel futuro: il principio di non discriminazione (che avrebbe imposto di attribuire numeri il più possibile omogenei anche in termini di facilità di memorizzazione ed utilizzo da parte degli utenti) viene quindi sacrificato in cambio del “vantaggio” (del tutto irrilevante) consistente nel disporre di 99 numeri (inutili) in più.
Gli argomenti in base ai quali il giudice amministrativo ha giudicato non illegittima la scelta già operata nel 2010 (e confermata nell’attuale schema di piano), quindi, non sono convincenti: ma anche a prenderli per buoni, resta il fatto che la scelta di utilizzare anche numeri a una o due cifre, quand’anche la si voglia considerare non illegittima, non era certamente una scelta obbligata: nel pieno rispetto delle indicazioni contenute nell’art. 32 comma 2 del testo unico, nulla avrebbe impedito (e nulla impedirebbe tuttora) di adottare una soluzione differente e maggiormente corrispondente ai principi fondamentali di equità e non discriminazione.

5. (segue): Canali “generalisti” e “semigeneralisti”, canali “ex analogici” e “nativi digitali”.

Un altro aspetto dell’attuale piano di numerazione che non può non suscitare perplessità è dato dalla distinzione (già contenuta nel testo unico, ma applicata, come si vedrà, in modo del tutto peculiare dall’AGCOM) tra canali “generalisti” e canali “semigeneralisti”.
Il testo unico, pur utilizzando le due definizioni, non chiarisce affatto quali siano le differenze: l’art. 32, comma 2 si limita infatti a prevedere, alla lett. b) che le “abitudini e preferenze degli utenti” debbano essere rispettate “con particolare riferimento ai canali generalisti nazionali e alle emittenti locali”, e, alla lettera c), che la “suddivisione delle numerazioni dei canali a diffusione nazionale”, da svolgersi “sulla base del criterio della programmazione prevalente”, debba avvenire in relazione ad una serie di “generi di programmazione tematici”, tra i quali figurano, al primo posto, i canali “semigeneralisti”, e, di seguito, quelli dedicati a “bambini e ragazzi, informazione, cultura, sport, musica, televendite”.
Dalla norma primaria, quindi, si desume solamente che il canale “semigeneralista” è un particolare tipo di canale “tematico”, e quindi contrapposto al canale “generalista”: ma in nessun modo da esso si desume che i canali “generalisti” siano solamente i canali nazionali “ex analogici” e che non possano, quindi, esistere canali “generalisti“ tra i c.d. “nativi digitali”.
Tale conclusione è invece quella che emerge dal piano adottato dall’AGCOM, sia nella versione del 2010, sia nella versione da ultimo sottoposta a consultazione, che anzi è ancora più chiara nell’affermare la piena ed esclusiva identificazione tra canali “generalisti” ed “ex analogici”.
L’art.1 del piano, alla lett. j), contiene infatti la definizione del “canale generalista nazionale”, identificato come il “canale storicamente irradiato in ambito nazionale in tecnica analogica e simulcast analogico-digitale che trasmette in chiaro prevalentemente programmi di tipo generalista con obbligo di informazione ai sensi dell’art. 7 del Testo unico” (il corsivo è di chi scrive). La definizione del canale “semigeneralista” è invece contenuta nella lett. n) dell’art. 1, secondo cui per “genere di programmazione semigeneralista” si intende la “programmazione dedicata ad almeno tre generi differenziati inclusa l’informazione giornaliera, tutti distribuiti in modo equilibrato nell’arco della giornata di programmazione ivi comprese le fasce di maggior ascolto, nessuno dei quali raggiunge il 70 per cento della programmazione stessa”.
E’ chiaro che il criterio del 70 per cento della programmazione prevalente, se è idoneo a distinguere, sul piano dei contenuti, il canale “semigeneralista” dai canali “tematici” in senso stretto, è del tutto inidoneo a distinguere, sul piano dei contenuti, una programmazione “semigeneralista” da una “generalista”: e questo perché la distinzione tra “generalista” e “semigeneralista”, nella logica del piano, non discende affatto dal contenuto della programmazione, ma da un fattore per così dire “storico”, collegandosi alla (e riducendosi nella) distinzione tra canali “ex analogici” e canali “nativi digitali”.
Come si è visto, infatti, la definizione di canale “generalista” fornita dalla lett. j) dell’art. 1 attribuisce rilievo decisivo, oltre alla trasmissione prevalente, “in chiaro”, di “programmi generalisti con obbligo di informazione”, al fatto che si tratti di canale “storicamente irradiato in ambito nazionale in tecnica analogica”.
La conseguenza è che un canale c.d. “nativo digitale”, cioè un canale che non sia stato “storicamente” irradiato in tecnica analogica, per quanto possa trasmettere “in chiaro” programmi di generi diversi senza una programmazione prevalente, e per quanto possa adempiere agli obblighi di informazione, non potrà mai aspirare ad essere qualificato come (ed assimilato ad un) canale “generalista”, ma potrà comunque e solamente ambire alla qualifica di “semigeneralista”.
In altri termini, nello schema di direttiva non esiste e non potrà mai esistere, neppure in futuro, un canale generalista nazionale “nativo digitale”: il canale generalista nazionale è solo, per definizione, solo l’ex canale nazionale analogico.
Una simile conclusione, che emerge chiaramente dalla lettura dello schema di piano sottoposto a consultazione, è del tutto irrazionale, illogica e foriera di discriminazioni, oltre a non trovare alcun appiglio nel testo unico.
Per quanto mal formulato, infatti, il testo unico lascia comunque chiaramente intendere che la distinzione tra “generalista”, “semigeneralista” e “tematico” debba riguardale i contenuti della programmazione: e del resto, questo è l’unico significato che si può ragionevolmente attribuire ai termini utilizzati; rispetto alla distinzione tra “generalista” e ”semigeneralista”, il fatto che un canale sia stato in precedenza irradiato in tecnica analogica o meno non può che essere del tutto irrilevante.
Oltre che irragionevole e contrario alla lettera della legge, un simile criterio distintivo, in quanto attribuisce un ruolo determinante alle posizioni pregresse occupate dagli operatori nel sistema radiotelevisivo, appare del tutto incompatibile con qualsiasi logica di promozione del pluralismo e della concorrenza.
Ciò che l’AGCOM ci dice chiaramente con lo schema di piano sottoposto a consultazione è che, qualora un operatore intendesse dar vita ad un nuovo canale generalista, questo canale non potrebbe mai ambire ad essere collocato (al limite dopo, ma comunque) accanto ai canali generalisti esistenti, ma dovrebbe essere comunque collocato in una posizione separata, sostanzialmente equiparata a quella dei canali tematici.
Ciò non può che tradursi in un disincentivo nei riguardi della creazione di nuovi canali generalisti, che nell’ottica della promozione del pluralismo e della concorrenza dovrebbe, all’opposto, essere incentivata ed incoraggiata.

6. (segue) L’effettiva destinazione dei numeri tra emittenti nazionali (“generaliste”, “semigeneraliste” e “tematiche) e emittenti locali.

Le perplessità sin qui esposte sono confermate, ed anzi aggravate, se ci si sofferma su come dovrebbe operare in pratica il piano sottoposto a consultazione.
Secondo l’art. 4 del piano, infatti, i numeri da 1 a 9 (nonché, ove occorra, il numero 20) vanno attribuiti ai “canali generalisti nazionali” come sopra definiti (cioè ai canali nazionali ex analogici), “sulla base del principio del rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti”: il che significa che, a prescindere dalle dispute che ci sono state e presumibilmente ci saranno sull’attribuzione dei numeri 7, 8, 9 e 20, sicuramente i numeri da 1 a 6 saranno attribuiti ai tre canali ex analogici della RAI e di RTI, cioè ai due soggetti che occupavano posizioni dominanti nella televisione analogica, e che vedono pienamente confermate tali posizioni nel nuovo sistema.
In base ai successivi articoli 5 e 6, poi, i numeri da 10 a 19 vanno attribuiti alle emittenti locali; il numero 20, come si è detto, nuovamente ad una emittente “generalista”, cioè ex analogica; i numeri da 21 a 79 ai “canali digitali terrestri a diffusione nazionale in chiaro” (cioè a tutti i canali nazionali “nativi digitali” che trasmettono “in chiaro”), ripartiti secondo i “generi di programmazione” (nell’ordine: “semigeneralisti”, “bambini e ragazzi”, “informazione”, “cultura”, “sport”, “musica”, “televendite”); i numeri da 71 a 99 vengono invece nuovamente attribuiti alle emittenti locali.
Senza che occorra soffermarsi sulla destinazione impressa ai successivi “archi di numerazione”, già dall’analisi dell’organizzazione del “primo arco di numerazione” (che peraltro è sicuramente il più importante, comprendendo i numeri ad una e due cifre) risultano confermate in pieno le perplessità esposte, ed anzi se ne aggiungono altre.
Secondo i criteri esposti, infatti, una emittente nazionale “nativa digitale”, per quanto possa sforzarsi di offrire una programmazione analoga, sul piano della varietà, della qualità e del rispetto degli obblighi di informazione, rispetto ad una emittente generalista “ex analogica”, non potrà mai collocarsi a ridosso delle emittenti nazionali ex analogiche, ma potrà ambire solamente ad uno dei numeri da 21 in poi, rimanendo separata dalle ex analogiche da dieci emittenti locali (cui sono assegnati i numeri da 10 a 19).
Non solo, ma il criterio utilizzato crea notevoli disparità di trattamento anche all’interno della categoria delle emittenti locali: queste ultime dovranno essere sottoposte ad una valutazione, volta a verificare la “qualità” della programmazione e il loro collegamento con il “territorio”, e all’esito di tale valutazione, solo dieci di esse troveranno spazio nei numeri da 10 a 19, mentre le altre si vedranno assegnare i numeri dal 71 in poi.
Per quanto il criterio della “qualità della programmazione” e quello del collegamento con il territorio siano espressamente enunciati, dal testo unico, con riferimento alla scelta delle posizioni da attribuire alle emittenti locali, non ci si può esimere dal rilevare come gli esiti siano del tutto sproporzionati rispetto alla pur comprensibile esigenza di valorizzare la programmazione “di qualità e “legata al territorio”: ed in effetti, la discriminazione che si viene a determinare, tra l’emittente che si vede attribuire un numero compreso tra 10 e 19 e quella che invece si vede relegata oltre il 71° posto, è del tutto sproporzionata: la prima si vede anteposta a tutte le reti nazionali native digitali, la seconda viene relegata in un vero e proprio limbo, divenendo pressoché inaccessibile per la generalità degli utenti.
Un tale modo di procedere non appare conforme alla finalità di garantire condizioni “eque e non discriminatorie”, enunciata dall’art. 32 del testo unico.
L’effetto discriminatorio appare aggravato dal fatto che, essendo possibile (secondo quanto prevede la lettera e) dell’art. 32, comma 2 del testo unico) lo scambio di posizioni mediante accordo tra emittenti (purché all’interno dello stesso genere di programmazione, e con la sola esclusione della possibilità di scambio tra le emittenti c.d. “generaliste”, cioè “ex analogiche”), l’emittente (locale o nazionale “nativa digitale”) che si vede attribuire una posizione di vantaggio nella numerazione potrà sempre “vendere” il proprio numero ad un’altra emittente (appartenente alla stessa categoria), ricavandone un guadagno; sicché l’attribuzione di un numero particolarmente appetibile si traduce anche in un significativo arricchimento patrimoniale per l’emittente che ne è beneficiata.
Alle perplessità già enunciate se ne possono aggiungere altre, che riguardano anche il rispetto del criterio (enunciato dall’art. 32 lett. a) come prioritario rispetto a quello del rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti), della “semplicità d’uso del sistema”.
Secondo un criterio di semplicità d’uso, infatti, i canali nazionali generalisti (sia ex analogici che nativi digitali) dovrebbero essere collocati tutti di seguito, e non essere inframmezzati da 10 canali locali; e allo stesso modo, anche i canali locali dovrebbero essere collocati in sequenza.
Tale criterio avrebbe potuto essere contemperato con quello del rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti (rispetto al quale, lo si ricorda, è comunque prioritario) attribuendo alle emittenti più radicate nei gusti e nelle abitudini del pubblico una posizione di priorità rispetto alle nuove entranti: diversamente operando, l’Autorità ha di fatto privato di significato il riferimento alla semplicità d’uso, che è venuto ad identificarsi completamente con il rispetto delle abitudini degli utenti.
Il risultato è che, scorrendo i canali sul proprio telecomando, lo spettatore si imbatte dapprima in una serie di canali nazionali (più o meno “generalisti”), poi in alcuni canali locali, poi nuovamente in canali nazionali (“semigeneralisti” e tematici), infine nuovamente in canali locali, senza che sia in alcun modo dato comprendere quale logica presieda a tale ripartizione.
Tale esito, lo si ripete, non era affatto imposto dal tenore del testo unico, il quale si limitava a prevedere che nel “primo arco di numerazione” (cioè nei primi 99 numeri) dovesse essere valorizzata “la programmazione delle emittenti locali di qualità e quella legata al territorio”: sicché nulla avrebbe impedito di collocare le emittenti locali dopo le emittenti nazionali generaliste, includendo però, in quest’ultima categoria, anche emittenti generaliste c.d. “native digitali”, già esistenti o che dovessero venire ad esistenza nel prossimo futuro.
Invece, come si è visto, l’Autorità, andando oltre quanto imposto dallo stesso testo unico, ha ritenuto di escludere in radice la stessa possibilità di esistenza di emittenti generaliste nazionali “native digitali”, ponendo una pesante ipoteca sulle possibilità di sviluppo di un’offerta televisiva “in chiaro” che sia in grado di porsi come concorrenziale rispetto a quella delle emittenti ex analogiche.
Il TAR per il Lazio (sez. III – ter, n. 873 del 2012, cit.), nel decidere su uno dei ricorsi proposti contro il precedente piano, aveva evidenziato l’incongruenza e l’irragionevolezza insita nel trattamento riservato alle emittenti “generaliste” nazionali c.d. “native digitali” rispetto alle “ex analogiche”: e tuttavia, sul punto, la decisione del TAR è stata ribaltata dal Consiglio di Stato, il quale (sez. III, sent. n. 4661 del 31 agosto 2012) ha ritenuto che “il posizionamento dei canali nativi digitali a partire dal numero 21 non costituisce una violazione dell’art. 32 comma 2” e neppure “una discriminazione rispetto ai canali storici ex analogici”.
Nella sua decisione, il Consiglio di Stato ha attribuito un peso assolutamente determinante al riferimento alle “abitudini e preferenze degli utenti”, che giustificherebbe il trattamento di favore attribuito alle emittenti ex analogiche: ma si tratta di una lettura profondamente discutibile, sia perché, come si è detto, in ordine di priorità il criterio della semplicità d’uso del sistema viene prima del riferimento alle abitudini degli utenti, sia perché – come si vedrà – le esigenze del pluralismo e della concorrenza vengono (o dovrebbero venire) prima ancora dei singoli criteri enunciati dall’art. 32 comma 2 del testo unico.
Su questo punto occorre spendere ancora qualche parola: se infatti è comprensibile che, dopo i pronunciamenti del Consiglio di Stato, e nell’ottica di prevenire o quanto meno contenere il prevedibile proliferare del contenzioso, l’Autorità sia tentata di attenersi alla lettera a quanto deciso dal giudice amministrativo, riproponendo integralmente tutte le parti del precedente piano che ne hanno superato il vaglio, non ci si può esimere dall’osservare, da un lato, che la logica seguita dal Consiglio di Stato è sbagliata in radice, e, dall’altro che, anche a voler prendere per buono quanto deciso dal Consiglio di Stato, ciò non significa affatto che le soluzioni “salvate” dal giudice amministrativo siano le uniche adottabili.
In altri termini, anche ad ammettere che le decisioni del Consiglio di Stato siano corrette e condivisibili, in tali decisioni il Consiglio di Stato si è limitato ad affermare che determinate soluzioni non erano irragionevoli e non violavano apertamente il testo unico, ma non ha affatto escluso la praticabilità di soluzioni differenti.
Tali soluzioni potrebbero ancora essere esplorate, anche, se, come si è detto, appare quanto meno improbabile che ciò avvenga: e tuttavia non si può non rilevare che le soluzioni adottate nel piano del 2010 e confermate nel piano del 2012, se pure hanno superato il vaglio del giudice amministrativo, sollevano profondi dubbi in ordine al rispetto dei principi costituzionali e comunitari in materia di servizi di media audiovisivi.

7. Non discriminazione, pluralismo e concorrenza come principi fondamentali della disciplina dell’LCN.

Come si è detto, sia l’Autorità sia il Consiglio di Stato hanno attribuito un peso preponderante (e sproporzionato) al principio del “rispetto delle abitudini degli utenti”: per quanto tale criterio sia enunciato espressamente dal testo unico, esso non è tuttavia l’unico criterio che dovrebbe orientare la redazione del piano, e certamente, anche sulla base del testo unico, esso non può essere considerato prevalente rispetto ai criteri della non discriminazione e del rispetto della concorrenza e del pluralismo dei media.
In particolare, i principi di non discriminazione, di promozione del pluralismo e di tutela della concorrenza tra i media, pur non espressamente indicati tra i criteri enunciati dalle lettere da a) a f) dell’art. 32 comma 2 del testo unico, ben possono essere considerati come “super – principi” idonei ad orientare tutta la disciplina dell’LCN (anche prevalendo sui singoli criteri enunciati dalla norma di legge), sulla base di tre distinte considerazioni.
In primo luogo, si deve osservare che la prima parte dell’art. 32 comma 2 del testo unico, prima ancora di passare ad enunciare i singoli puntuali criteri cui l’autorità è chiamata ad attenersi nella redazione del piano, proclama espressamente come finalità dell’intero sistema dell’LCN quella di “assicurare condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie”: il che non può non significare che l’applicazione dei puntuali “criteri” enunciati nelle lettere a) – f) dell’art. 32 non potrebbe e non può, in nessun caso, mettere capo alla adozione di soluzioni che determino discriminazioni irragionevoli tra gli operatori; discriminazioni irragionevoli che invece sono inevitabili nel momento in cui le posizioni dominanti già acquisite nel contesto della televisione analogica sono, come si è visto, replicate e rafforzate anche nello scenario digitale.
In secondo luogo, non bisogna dimenticare che l’art. 32 del testo unico, che contiene la delega a disciplinare l’LCN, si colloca nel capo I del titolo IV, intitolato “norme a tutela dell’utenza”: e che l’art. 4 del testo unico, intitolato “principi generali del sistema radiotelevisivo a garanzia degli utenti”, prescrive che, “a tutela degli utenti”, la disciplina del sistema dei servizi di media audiovisivi (e quindi anche la disciplina dell’LCN) deve garantire, tra l’altro (lett. a), “l’accesso dell’utente, secondo criteri di non discriminazione, ad un’ampia varietà di informazioni e di contenuti offerti da una pluralità di operatori nazionali e locali, favorendo a tale fine la fruizione e lo sviluppo, in condizioni di pluralismo e di libertà di concorrenza (il corsivo è di chi scrive), delle opportunità offerte dall’evoluzione tecnologica da parte dei soggetti che svolgono o intendono svolgere attività nel sistema delle comunicazioni”.
In terzo ed ultimo luogo, si deve tenere presente che il giudice amministrativo, nel ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2 del testo unico per eccesso di delega, ha ritenuto che la disciplina dell’LCN, pur non espressamente menzionata nel testo della direttiva comunitaria 2007/65, fosse comunque implicata nei “considerando” della stessa direttiva, attribuendo particolare valore e significato proprio ai quei “considerando” che facevano riferimento alla esigenza di preservare e promuovere il pluralismo e la concorrenza.
La già citata sentenza del TAR Lazio n. n. 873 del 2012, sostanzialmente confermata sul punto dal Consiglio di Stato, nel dichiarare manifestamente infondata la questione relativa all’eccesso di delega, osservava infatti: “la delibazione del rilevato profilo di incostituzionalità dell’art. 32, commi 2-4, del Testo Unico non può andare disgiunta dallo scrutinio delle numerose prescrizioni contenute nei “considerando” della stessa direttiva 2007/65 (…) – che rispondevano all’esigenza di tutelare, a un tempo, la corretta concorrenza tra gli operatori e l’interesse degli utenti all’accesso alla programmazione televisiva, ancorché la stessa direttiva non contemplasse espressamente l’esigenza della numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre” (…). In via generale, la disciplina recata dalla direttiva manifesta l’obiettivo di creare un quadro giuridico relativo agli emergenti servizi di media audiovisivi che rafforzi la certezza del diritto ed eviti disparità di condizioni delle imprese europee di servizi di media audiovisivi e distorsioni della concorrenza (“considerando” 7) (…). Dal punto di vista della tutela del pluralismo e della concorrenza, a fronte di un’offerta di programmi più ampia rispetto alla televisione analogica, diventano elementi di possibile successo dell’impresa la facilità e la rapidità di selezione del programma da parte dell’utente oltre che il consolidamento di una determinata posizione nell’ambito della numerazione da parte dell’emittente televisiva. Da ciò discende la rilevanza, sul piano competitivo, dell’attribuzione di un determinato posizionamento numerico all’una o all’altra emittente nell’ordinamento automatico dei canali, perché da esso dipende la posizione all’interno della lista visualizzata dall’utente” (il corsivo è di chi scrive).
Quindi, se il giudice amministrativo ha potuto ritenere manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 32, comma 2 del testo unico per eccesso di delega (questione in realtà tutt’altro che priva di fondamento, ad avviso di chi scrive), ciò è avvenuto solo perché lo stesso giudice amministrativo ha ritenuto che la disciplina dell’LCN potesse ritenersi ricompresa tra le finalità perseguite dalla direttiva comunitaria, in quanto la disciplina dell’LCN è inestricabilmente connessa alla esigenza di garantire un assetto effettivamente pluralistico e concorrenziale del sistema dei media audiovisivi.
L’impressione che sorge dalla lettura del piano è invece che, nella sua redazione, questo aspetto sia stato del tutto obliterato, a favore dell’unico criterio (a torto) ritenuto decisivo, e cioè quello del rispetto delle abitudini e preferenze dell’utenza, con ciò perdendo, come si è detto, l’ennesima occasione per incrementare effettivamente la concorrenza ed il pluralismo nel settore.

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