Web Tax: Un’occasione di confronto promossa da Anica

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Dopo molti mesi si è tornati a parlare di tassazione degli Ott, ovvero quei giganti della rete che molto spesso si sottraggono alla morsa dell’erario. Riappare così sulla scena – questa volta italiana – la famosa “Web tax” o “Google tax” che dir si voglia.
Primo promotore dell’iniziativa è il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd), che ha presentato la proposta sotto forma di emendamento alla Legge di Stabilità 2014.
Come molti ricorderanno, la famosa “Web tax” era stato argomento di ampio dibattito anche in altri contesti europei. L’iter era nato a seguito di ampie proteste da parte degli editori europei della carta stampata, mossi da un sensibile calo delle vendite, in buona parte attribuibile ad una indicizzazione – non remunerata – dei loro articoli sul web, che avevano invocato una norma ad hoc che tassasse gli aggregatori di news online.
Il primo Paese a muoversi in tal senso era stato la Germania, riuscita a modificare la legge sul copyright attraverso l’approvazione della “Google tax”, entrata formalmente in vigore il 1°agosto 2013. La legge prevede che Google&Co paghino una royalty agli editori sui contenuti pubblicati. Ogni testata ha il diritto di regolare la disponibilità pubblica – parziale o completa – a scopi commerciali, delle notizie pubblicate. Una questione era rimasta però poco chiara: dalla tassazione erano stati esclusi gli estratti e i trafiletti, la cui lunghezza non veniva però specificata.
In Francia la “Google Tax” prevedeva inizialmente un’intesa – tra Google e gli editori – che avrebbe dovuto garantire a questi ultimi un flusso nell’ordine di 50/100 milioni di euro l’anno a favore della stampa quotidiana e periodica francese, per consentire l’indicizzazione – remunerata – dei titoli. Era stata anche ipotizzata una quota percentuale fissa a partire dai ricavi pubblicitari di Google in Francia, stimati tra 1,2 ed 1,4 miliardi di euro nel 2012. In verità però la “Google tax” d’oltralpe era morta ancor prima di nascere. La presunta tassa si era presto trasformata in un accordo (definito – impropriamente – storico) stilato a febbraio 2013 con l’Eliseo, in base al quale Google si impegnava a versare 60 milioni di euro a forfait (per 5 anni), per “contribuire alla transizione al digitale dell’editoria cartacea”.
La proposta avanzata nelle scorse settimane da Boccia, di una legge che contribuisca ad aumentare le entrate pubbliche tassando le multinazionali del web – come Google, Amazon e Yahoo – che scelgono di fare affari in Italia, si è subito scontrata con una forte ondata di proteste. La rivista statunitense Forbes, all’indomani della notizia titolava “L’Italia propone una Google tax interamente illegale”, e procedeva incalzando “È davvero giunto il momento che i politici europei capiscano le leggi e le regole che essi hanno già sottoscritto”, con ciò riferendosi agli accordi europei in materia di e-commerce e mercato unico e all’insita contraddizione della proposta marchiata Pd.
Ma i detrattori sono molto numerosi. Tra i capofila l’American Chamber of Commerce in Italy, che ha evidenziato come questa tassa avrebbe di fatto ostacolato lo sviluppo dell’economia digitale in Italia, cozzando peraltro con gli obiettivi del recente piano del Governo “Destinazione Italia”. Altri hanno sostenuto che questa proposta, qualora approvata, avrebbe esposto l’Italia ad una proceduta di infrazione da parte della Commissione Europea per violazione dei trattati su mercato unico e libera circolazione dei servizi.
Posizione quest’ultima condivisa anche da Beppe Grillo (per quanto 78 grillini abbiano votato a favore durante l’approvazione della delega fiscale), che ha dichiarato “il Partito democratico, ha proposto una normativa che costringe Google, Facebook e altri giganti a pagare le tasse locali sulle loro entrate italiane, piuttosto che in Paesi con pressione fiscale inferiore come Irlanda e Lussemburgo. Sponsor della legislazione Francesco Boccia. È un approccio del tutto illegale. L’Unione Europea si è basata sull’idea che ci deve essere la libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali, nonché la libertà di stabilimento . È il fondamento del Trattato di Roma del 1957”.
Anche Gianni Pittella, ritiratosi di recente dalla corsa alle primarie del Pd, ha sostenuto che “l’emendamento rischia di influenzare negativamente lo sviluppo dell’economia web, uno dei pochissimi comparti che ancora resiste alla crisi” e per questo motivo, “va cancellato”.
In questo clima di forte contrasto non si sono fatte attendere le repliche di Boccia, ribadite mercoledì 27 novembre nell’incontro organizzato dal Segretario generale dell’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali) Silvio Maselli, cui hanno partecipato, oltre Francesco Boccia, il Dg Cinema Nicola Borrelli, il Presidente Anica Riccardo Tozzi e Andrea Pezzi, Ceo di Ovo.
Secondo il Presidente della Commissione Bilancio della Camera “La web tax è soltanto una misura di equità fiscale: se un’azienda italiana deve pagare un’imposta per ciò che ha guadagnato in Italia, altrettanto devono fare le multinazionali del web che guadagnano nel nostro Paese e che oggi, incredibilmente, pagano le tasse in contesti con un’aliquota più conveniente”. Boccia ha quindi colto l’occasione per promuovere la propria battaglia che prevede di far rientrare la proposta nella legge di stabilità e farla entrare in vigore da inizio 2014. Il dibattito in Anica è stato anche un momento di confronto per porre all’attenzione dei presenti anche le modalità in cui un’imposta sull’economia digitale potrebbe essere destinata – almeno in parte – ad un Fondo per l’audiovisivo e per l’industria culturale, a parziale compenso dei danni causati dai download illegali di opere cine-audiovisive. Nonostante una posizione, per così dire, intermedia, assunta dal Presidente Tozzi, il quale, da una parte ha condiviso la necessità di un intervento legislativo, ma dall’altra ritiene che sia importante rimanere alleati dei nuovi player, Boccia ha incalzato “Non sono più disposto a dare il via libera all’aumento delle accise su tabacco, birra, alcolici e benzina per trovare le coperture finanziarie necessarie. Non mi preoccupa tanto l’emorragia di gettito fiscale del web, ma la perdita di nostri capitali che lasciano il Paese in favore di un modello irlandese che non rappresenta l’Europa ideale, ma soltanto una concorrenza sleale”.
Sulle stesse posizioni Andrea Pezzi, ex volto televisivo oggi Ceo di Ovo, che ha rimarcato la situazione di estrema difficoltà in cui versa attualmente il mercato dell’advertising, non meno di quello editoriale o televisivo peninsulare. Nicola Borrelli ha ricordato la competizione tra vecchi e nuovi player dell’audiovisivo, laddove i primi – come i broadcaster – sono sottoposti ad obblighi stringenti, mentre i secondi operano essenzialmente indisturbati. E’ evidente che gli Ott abbiano una dimensione, per così dire, a-nazionale, ma è altrettanto importante, ha aggiunto il Dg Cinema Mibact, che anche loro possano contribuire alla produzione di content originale, anche sotto il profilo fiscale. “L’adeguamento dell’imposizione fiscale è il primo tentativo di prendere atto che i grandi player della rete hanno modificato le regole del gioco del mercato audiovisivo, dalla produzione alla distribuzione di contenuti culturali”, ha concluso Borrelli.
La tematica è certamente particolarmente spinosa, alla stregua del Regolamento Agcom in gestazione sul diritto d’autore online, anche perché le sfaccettature da considerare sono molteplici. Se da una parte infatti è fondamentale preservare (anche attraverso risorse ed investimenti) il comparto creativo e culturale di ogni singolo stato nazionale, dall’altra è importante comprendere i nuovi scenari in atto ed il fatto che il dibattito – soprattutto per quanto riguarda internet ed i suoi “protagonisti” – vada affrontato a livello internazionale. Nonostante quindi le “buone intenzioni”, si nutrono perplessità che possa essere una legge nazionale a risolvere, per così dire, il problema

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