Un nuovo “passo” verso una disciplina della manifestazione del pensiero in rete: cercando il simile nel dissimile

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Nonostante i contesti siano tra i più distanti, la definizione dell’amore nei Minima moralia di Adorno ben si presta a definire l’operazione che soprattutto la giurisprudenza sta compiendo, per delineare una disciplina della manifestazione del pensiero diffusa tramite la rete internet.
Il legislatore, nonostante la telematica abbia da un lato suoi tratti  assolutamente peculiari e dall’altro non sia esattamente un evento recente,  pare avere rinunciato a disciplinarne in modo organico l’introduzione nei meccanismi della vita sociale. E ciò nonostante il mezzo abbia spesso modificato il fenomeno, facendo pensare a più di un osservatore che una simile eterogeneità meritasse disposizioni espressamente dedicate al nuovo medium che, comparso sulla scena (e impossessatosi della medesima), ha trasformato ciò che in precedenza veniva realizzato con strumenti tradizionali. Viceversa, come accennato, salve alcune norme di dettaglio, l’ordinamento non si è dotato di quella disciplina radicalmente nuova e originale, in grado di costituire, una volta per tutte, il punto di riferimento per un modo di comunicare come questo, obiettivamente “inedito”.
La veicolazione di idee e messaggi attraverso la rete, più precisamente, ha posto numerosi interrogativi peculiari, di fronte ai quali gli interpreti si sono dovuti confrontare. E proprio dalla giurisprudenza sono giunti gli spunti più originali poiché, se così si può dire, il bisogno aguzza l’ingegno.

Infatti, in altri – e meno lirici – termini, in assenza di una normativa ad hoc, i giudici di merito, che si sono trovati a dover decidere sulle controversie scaturite dalla informazione e dalla critica via web, dovevano fare riferimento a regole già presenti nell’ordinamento, se non volevano incorrere in episodi di denegata giustizia, o comunque crearne di originali, utilizzando, in ogni caso, l’istituto dell’analogia. In questo modo, attraverso la trasposizione di una disciplina nota e pensata per un determinato fenomeno ad uno diverso, veniva creata una disciplina “novella”, di matrice pretoria.
Tuttavia un simile metodo di proliferazione del diritto incontra chez nous limiti, in primo luogo costituzionali. Ancora più precisamente, è inammissibile estendere analogicamente l’ambito di applicazione di una disposizione incriminatrice.
Per giungere a soluzioni costituzionalmente ben orientate, dunque, in ordine alla possibilità di impiegare disposizioni penali pensate per la stampa all’informazione diffusa attraverso internet, bisogna rispondere a due domande. La prima: la telematica è assimilabile alla stampa? Se si risponde negativamente alla prima questione, incalza la seconda: se si tratta di fenomeni differenti
posso interpretare analogicamente la disposizione pensata per la carta stampata alla manifestazione del pensiero tramite il web? La prima risposta non può che muovere dalla definizione di «stampa o stampato», contenuta nell’art. 1 della legge n. 47 del 1948: «tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione». La editoria telematica non può essere ricondotta, se non a forza, snaturando il primo significato delle parole, alla descrizione di cui si è detto.
In primo luogo, infatti, l’informazione via web non prevede per la sua diffusione una vera e propria «riproduzione» in più copie: il messaggio viene ospitato in un “sito” raggiunto di volta in volta dagli utenti. In secondo luogo, fermo restando che non si tratta di «riproduzioni» nel senso appena
accennato, v’è da dire che in ogni caso anche l’unico esemplare non viene realizzato attraverso processi tipografici, meccanici o fisico-chimici. Per questa ulteriore ragione, tradizionalmente, salvo qualche sporadica “voce” contrastante, gli interpreti sono propensi a ritenere – si ritiene giustamente – i due fenomeni diversi tra loro. I due corollari di tale affermazione sono in primis che la disciplina rivolta alla stampa non può essere sic et simpliciter applicata alla editoria telematica e, di conseguenza, che per operare una simile estensione è necessario attingere all’analogia.
Come anticipato, però, in alcuni frangenti tale operazione è vietata dalla Carta costituzionale che bandisce dall’ordinamento penale l’analogia in malam partem. E allora, per venire a esempi concreti, se si segue con rigore questa posizione, tutte le disposizioni che prevedono incriminazioni specifiche per la stampa non sono applicabili alla manifestazione del pensiero tramite internet.
Ciò vale in particolare per le due fattispecie “classiche” in tema di diffamazione: l’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che prevede un’aggravante speciale per la diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato e per l’art. 57 c.p., che punisce per omesso controllo il direttore responsabile qualora attraverso il periodico a stampa da lui diretto venga commesso un reato, tra gli altri appunto la diffamazione.
Proprio decidendo un caso che riguardava quest’ultima fattispecie la Cassazione ha detto parole chiare e, si spera definitive, sul punto. La sentenza n. 35511 del 2010, occupandosi per la prima volta direttamente della questione, ha accolto la tesi qui accennata (cioè quella dell’inapplicabilità delle disposizioni incriminatrici di condotte a mezzo stampa alle medesime condotte poste in essere in rete), ponendo fine al pendolarismo dei giudici di merito, dai quali, accanto a impostazioni correttamente rigorose, erano giunte anche soluzioni diverse. Alcuni avevano assimilato, senza porsi alcun problema, fattispecie commesse a mezzo stampa e per via telematica; altri limitavano una simile equiparazione alle manifestazioni del pensiero che – in base a parametri più o meno rigorosi – potessero essere ricondotte all’attività di informare e dunque in tal modo secondo quest’ottica assimilabili alla stampa.

La Suprema Corte, in estrema sintesi, ha ribadito l’inapplicabilità dell’art. 57 c.p. al direttore di un media telematico proprio perché da un lato la telematica non è stampa e dall’altro le fattispecie criminose non sono estensibili analogicamente. La Cassazione, però, non si è limitata a richiamare un principio di rilevanza costituzionale che impone l’interpretazione adottata, ma ha affermato qualcosa di più e di ulteriore (e tale obiter dictum sembra rivolto al legislatore). Più precisamente, è stato sottolineato che, proprio per la specificità dell’editoria online, la mancata mera estensione della responsabilità per omesso controllo dal direttore della carta stampata a quello della testata web potrebbe non essere stigmatizzata come una semplice dimenticanza. Per la velocità di diffusione, la semplicità di inserimento dei dati nel sito, la mancanza di problemi di spazio e dunque l’altissimo numero di notizie o informazioni pubblicabili ontemporaneamente, la possibilità di continue modifiche del testo, anche da parte di soggetti diversi rispetto all’autore originario, l’organo di informazione “in rete” sfugge alla possibilità di un vero e proprio controllo capillare da parte di una figura come quella del direttore. Le circostanze menzionate rendono quindi inesigibile una verifica puntuale da parte di un singolo soggetto, sia pure al vertice della redazione, della massa dei dati veicolati.

Dunque, non solo tutte le incriminazioni tipiche della stampa, e con esse l’art. 57 c.p., non sono estensibili a internet ma, sempre secondo la Suprema Corte, non è nemmeno opportuno – de iure condendo – prevedere per il direttore di un media telematico un modello di responsabilità del tipo di quello tradizionale per la “carta stampata”.
Con questa considerazione, posta a suffragio della propria decisione, ma sotto un certo profilo più utile al dibattito culturale e legislativo che strettamente necessaria ai fini dell’iter del ragionamento giudiziario, la Cassazione è entrata con parole che – ce lo si augura davvero – peseranno nel dibattito acceso sulla opportunità di dotare la “rete” di regole e su quale tenore esse debbano avere.

Insomma, il Collegio non ha circoscritto il suo intervento alla indicazione di “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo” – ricordando la necessità di un’interpretazione rigorosa del divieto di analogia in malam partem – ma ha  fornito, come sempre più spesso fanno i giudici più attenti e scrupolosi, indicazioni al legislatore affinché, qualora ritenga di vincere la sua ancestrale pigrizia, si muova con attenzione e non sulla scorta dell’ultima emergenza in ordine di tempo.

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