Turpiloquio e libertà di espressione: il confine della rilevanza penale

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“Parole, parole, parole soltanto parole tra noi…”, cantava Mina respingendo Alberto Lupo nei panni di un (immaginario) amato infedele e nel contempo conquistando con la sua voce sensuale i cuori di più d’una generazione. Ma quanto può variare il significato di una parola solo perché cambia l’epoca, il contesto o l’interlocutore? Sembrerebbe molto, leggendo l’articolo apparso lo scorso 21 novembre su Il Sole 24 a firma di Patrizia Maciocchi. La giornalista analizza alcune decisioni della Corte di Cassazione dedicate al turpiloquio, che ben spiegano come il discrimine per attribuire rilievo penale ad una parola oggettivamente ingiuriosa vada accertato, e valutato, caso per caso avuto riguardo a tutte le circostanze dell’azione verbale e del contesto in cui questa si colloca. Quando l’ingiuria è originata nel fatto ingiusto dell’insultato (ad esempio perché ha bloccato la macchina di un altro automobilista parcheggiando la propria auto in doppia fila oppure perché ha ingiustamente spostato le fioriere di un condominio per lasciare spazio ad un parcheggio) anche la reazione verbale più cruda può essere legittima per l’ordinamento penale, purchè sia contestuale e quindi espressione di una sincera irritazione per l’altrui fatto ingiusto e non consista invece nell’(agognata) occasione per dare sfogo ad una precedente acredine. In forza di questo principio, non è di per sé illegittimo usare epiteti come “cafone” oppure addirittura “testa di c…” o il classico “vaffa…”, se sono una mera e contestuale reazione verbale al fatto ingiusto posto in essere da un altro individuo. Quando la reazione si consuma “a freddo” e palesa un’evidente volontà di vendetta verbale, invece, l’azione ingiusta che ha scatenato l’insulto può al massimo configurare un’ attenuante, ma non può arrivare ad escludere del tutto la punibilità dell’autore dell’ingiuria. Così stando le cose, gli ermellini hanno condannato, per quanto con tutte le attenuanti conseguenti all’aver agito in stato d’ira dovuto all’altrui ingiustizia, una signora rea di avere coperto “a freddo” di insulti una coinquilina che lasciava libero il proprio cane di fare i “bisognini” sull’altrui biancheria stesa ad asciugare al sole. Bisogna però prestare sempre particolare attenzione al contesto in cui si pronuncia una parola anche se, apparentemente, ci sembra poco offensiva. Se, infatti, la platea è quella di una combriccola di bambini (evidentemente scatenati…), epiteti come “scioccarellino” integrano a tutti gli effetti il reato di ingiuria a carico dell’adulto che la pronuncia. Meno male che nessun mi può sentire quando leggo certe sentenze…

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