Storia di un’evoluzione a confronto: il sistema radiotelevisivo italiano, francese e britannico

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Nell’ottica di una migliore comprensione del nostro sistema radiotelevisivo, può risultare utile confrontare l’esperienza interna con quanto avvenuto in altri ordinamenti caratterizzatisi per un’evoluzione analoga. In tale direzione  muove la mia analisi, che ha pertanto lo scopo di mettere in luce quelle che sono le analogie e le differenze riscontrate nell’indagare l’evoluzione del sistema raditelevisivo italiano, francese e britannico. La scelta per una siffatta tipologia di analisi è stata compiuta sulla base di due ordini di fattori.

Il primo concerne il dato di fatto in base al quale: la libertà di espressione, anche e soprattutto per il tramite del mezzo radiotelevisivo, costituisce un elemento imprescindibile e di fondamentale importanza per quel che concerne l’esistenza e la vita di ogni Stato democratico. A questo proposito, si deve riscontrare come oggi la televisione, per la sua indiscussa e grande pervasività, capacità di persuasione ed attrattiva, è in grado di influenzare in modo determinante l’opinione pubblica; la quale, al fine di partecipare in maniera consapevole e proficua alla vita democratica di un Paese, dovrebbe essere sempre pienamente e correttamente informata. Infatti, solo con l’effettiva circolazione delle diverse idee ed opinioni presenti nella società civile i cittadini possono concorrere alla formazione della volontà generale, così da poter partecipare in modo consapevole alla vita politica e sociale del Paese ed elevare il tasso di democraticità dello stesso. Diversamente si correrebbe, invece, il rischio di minare il principio democratico e quello della sovranità popolare.

Il secondo riguarda la caratterizzazione, per così dire similare, dell’evoluzione intervenuta nel corso del tempo in merito ai tre ordinamenti passati in rassegna. Per esaustività, si deve, infatti, segnalare come vi siano altri ordinamenti quale quello statunitense che, sin dalla nascita del sistema radiotelevisivo e differentemente da quelli presi in esame, hanno previsto la presenza attiva dei privati nel mercato e, pertanto, non hanno seguito un’evoluzione analoga a quelli analizzati. Questi ultimi infatti, in origine, si sono caratterizzati per la sussistenza di un monopolio pubblico e, solo successivamente, hanno intrapreso una fase di liberalizzazione che ha condotto alla configurazione di un sistema c.d. misto, cioè caratterizzato dalla presenza, da un lato, di un settore pubblico e, dall’altro, di un settore privato.

Riguardo ciò ed linea generale, si osserva come all’indomani del primo conflitto mondiale e, conseguentemente all’affermazione del mezzo radiofonico, gli Stati presi in considerazione decisero di disciplinare tale strumento dettando una disciplina istitutiva di un regime monopolistico. Così, in Italia nel 1929 nasceva l’E.I.A.R. (Ente italiano per le audizioni radiofoniche) – che prese il posto della società anonima U.R.I. (Unione Radiofonica Italiana) –, in Francia nel 1939 fu creato l’ente pubblico “Administration de Radiodiffusion française Nationale” noto come R.N. e, nel Regno Unito, nel 1926 fu emanata la prima “Royal Charter” che istituì la “British Broadcasting Corporation”, meglio conosciuta quale B.B.C.. In epoca successiva, vide poi la luce la televisione e i diversi Stati decisero di disciplinare allo stesso modo anche quest’ultima, emanando una normativa che ricalcava il solco di quella dettata in materia radiofonica. Pertanto, anche in merito alla televisione, fu prevista l’istituzione di diversi monopoli pubblici: in specie, l’Italia confermò il monopolio della R.A.I. anche riguardo la televisione, prevedendo che tale società (nata nel 1944 in sostituzione dell’E.I.A.R.), a capitale in maggioranza pubblico, fosse l’unica concessionaria dell’attività radiotelevisiva; la Francia nel 1949 istituì l’ente “Radiodiffusion-télévision française” R.T.F., il quale prendeva il posto del precedente ente pubblico R.D.F. (istituito nel 1945) ed a cui fu assegnato il compito di gestire in regime di monopolio il servizio pubblico radiotelevisivo; ed infine, nel Regno Unito, la B.B.C. continuò a trasmettere in regime di monopolio anche per quel che riguardava le trasmissioni televisive. In seguito, prese avvio la fase di liberalizzazione del mercato radiotelevisivo. In proposito, il primo ordinamento che consentì l’ingresso dei privati nel mercato fu la Gran Bretagna con una legge del 1954. In Italia ed in Francia, invece, il processo di liberalizzazione fu assai più lungo e travagliato e l’ingresso dei privati nel mercato si realizzò solo molto tempo dopo: in particolare, in Francia fu una legge del 1982 a decretare la fine del monopolio pubblico, mentre in Italia solo nel 1990 venne consacrato il c.d. sistema misto, dopo che erano intervenute svariate sentenze della Corte Costituzionale ed i privati erano già entrati, in via di fatto, nel mercato.

Passando ora ad analizzare quelle che sono le principali analogie e differenze riscontrate  tra i tre ordinamenti analizzati, il primo elemento da porre in evidenza si rinviene nella rintracciabilità o meno di una norma costituzionale specificamente dedicata alla libertà di espressione. Così se, da un lato, l’ordinamento giuridico italiano e quello francese contengono, nel loro testo costituzionale, una norma precipuamente dedicata alla libertà di manifestazione del pensiero, lo stesso non può dirsi per l’ordinamento britannico. Quindi, se può tranquillamente affermarsi che, in Italia, la libertà di espressione tramite il mezzo radiotelevisivo e, in Francia, la “liberté de communication audiovisuelle” hanno il rango di libertà costituzionalmente garantite, lo stesso invece non può dirsi per il Regno Unito. Tale ordinamento, infatti, non vede la presenza al suo interno di un testo costituzionale scritto contenente i principi fondamentali dell’ordinamento e, pertanto, la c.d. “freedom of speech”, e la conseguente “freedom broadcasting”, non può ricevere la qualifica formale di libertà costituzionalmente garantita. Questo dato di fatto, tuttavia, non implica che, all’interno dell’ordinamento giuridico britannico, tale libertà non sia considerata quale fondamentale. Infatti, ciò che muta consiste solo nel fatto che un simile riconoscimento sia avvenuto per via giurisprudenziale. Inoltre, il Regno Unito, mediante l’emanazione dello “Human Rights Act” del 1998, ha recepito la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con il risultato che la “freedom of speech” e la “broadcasting freedom” hanno acquistato forza vincolante anche in quanto fonti interne. Ciò ha, in definitiva, fatto si che, almeno per questo aspetto, la distanza tra l’ordinamento (britannico) di common law e gli altri due (italiano e francese) di civil law venisse a ridursi ulteriormente.

Il secondo aspetto che merita una riflessione attiene alle motivazioni che, in principio, spinsero i diversi Stati a configurare l’esistenza di un monopolio pubblico, nonché alla configurazione ed ai caratteri del monopolio stesso. Così e circa il primo profilo, emerge che, da un lato, tale scelta fu dettata da motivazioni di ordine di tipo tecnico: è noto, infatti, come la scarsità delle risorse (frequenze radioelettriche) fu uno dei fattori determinanti che indusse gli Stati ad avocare a sé l’esercizio dell’attività radiotelevisiva, dal momento che questo si trovava in posizione privilegiata rispetto ai soggetti privati, in merito alla garanzia della libertà di espressione mediante lo strumento radiotelevisivo. Dall’altro, si trattò di una precisa scelta di opportunità dettata dal particolare momento storico. Stante infatti la consapevolezza, derivante anche dall’esperienza radiofonica degli anni precedenti, della grande potenza della televisione, soprattutto riguardo alla capacità di quest’ultima di poter influenzare e indirizzare a proprio piacimento l’opinione pubblica, i vari Stati intesero evitare che un tale strumento potesse essere gestito da pochi soggetti o gruppi privati.

Per quanto poi attiene alle caratteristiche precipue che assunsero i vari monopoli, si deve segnalare come nel Regno Unito ed in Italia il monopolio, rispettivamente della B.B.C. e della  R.A.I., si caratterizzva in quanto assoluto. Cioè il pubblico potere era l’unico responsabile per quanto concerneva la produzione, la programmazione, la diffusione e la ricezione dei programmi radiofonici e televisivi. Diversamente in Francia, il monopolio dell’attività radiofonica e televisiva assunse un carattere per così dire liberale: all’ente pubblico R.T.F. infatti era riservata la sola diffusione e programmazione delle trasmissioni radiofoniche e televisive; cosicché il monopolio pubblico non ricomprendeva la ricezione delle trasmissioni radiofoniche e televisive provenienti dall’estero o dalle c.d. stazioni periferiche, né riservava in via esclusiva allo Stato la produzione dei programmi. Inoltre, la legge prevedeva anche specifiche ipotesi di deroga al monopolio pubblico di programmazione e diffusione. Ulteriore profilo da sottolineare è il ruolo del tutto marginale riservato al Parlamento dalla disciplina dei tre diversi ordinamenti. Più speificamente, la legge riservava in via principale al Governo i rilevanti poteri di nomina dei membri degli organi direttivi delle diverse concessionarie pubbliche, nonché quelli di controllo del contenuto delle trasmissioni. Tale situazione caratterizzava sia la R.A.I., che l’ente pubblico francese O.R.T.F. (che a partire dal 1964 sostituì la R.T.F.) ed anche la B.B.C.. In tal modo, l’autonomia gestionale nonché l’adempimento dei compiti di servizio pubblico erano soggetti all’influenza del potere esecutivo. Pertanto, il maggior o minor grado di autonomia dei vari soggetti pubblici, riscontrabile nei diversi ordinamenti, è da far risalire alle differeze socio-culturali di ciascun Paese; nonché ad una diversa interpretazione compiuta dai vari esecutivi circa i poteri che la legge riconosceva loro. Esempio emblematico è costituito dalla B.B.C.: infatti, seppur la “Royal Charter” e l’“Agreement” prevedevano penetranti poteri a favore del Governo, quest’ultima riuscì a mantenere una certa indipendenza ed una certa autonomia, grazie alla professionalità dei suoi dirigenti, quali John Reith (primo direttore generale della B.B.C. e tra i fondatori di quest’ultima), ed alla grande correttezza dei diversi governi succedutisi nel tempo.

Altro aspetto di cui dare conto è il passaggio dal monopolio pubblico al c.d. sistema misto: in altre parole la fase di liberalizzazione del sistema radiotelevisivo. In via generale, si può osservare come l’ordinamento britannico sia stato il primo (fra i tre ordinamenti di cui si è dato conto) a permettere ai privati l’ingresso nel mercato radiotelevisivo. Già partire dal 1954 (per il tramite del “Television Act”), infatti, il Parlamento emanò una normativa liberalizzatrice, che consentiva una siffatta ipotesi. In particolare, tale atto normativo istituì un ente pubblico – I.T.A. (“Independent Television Authority”) –, che pur essendo sottoposto all’autorità governativa e detenendo il monopolio della diffusione, poteva stipulare dei contratti con soggetti privati affinché questi ultimi le fornissero i programmi da mandare in onda. In Italia ed in Francia, invece, il processo di liberalizzazione fu assai più lungo e travagliato e l’ingresso dei privati nel mercato si realizzò solo molto tempo dopo: in particolare, in Francia fu un legge del 1982 a decretare la fine del monopolio pubblico, mentre in Italia fu la legge del 1990 a consacrare il sistema misto, dopo che erano intervenute svariate sentenze della Corte Costituzionale ed i privati erano già entrati, in via di fatto, nel mercato.

Proprio in relazione alle modalità con cui i diversi ordinamenti reagirono alle pressanti richieste di liberalizzazione avanzate dai privati e, corrispondentemente, in merito alle caratteristiche assunte dal fenomeno di liberalizzazione nel suo complesso, mi sembra opportuno notare quanto segue. Negli ordinamenti britannico e francese il passaggio dal monopolio al sistema misto si è realizzato mediante discipline normative tese a consentire ai soggetti privati il loro ingresso nel mercato radiotelevisivo. Il legislatore di tali paesi, pertanto, ha cercato di fare proprie le esigenze provenienti dai soggetti privati di guisa che la normativa approntata potesse dare una risposta soddisfacente a queste ultime: in altre parole, preso atto soprattutto del cambiamento tecnologico, la legge ha inteso regolare ex ante, in maniera organica e coerente, tutti i possibili risvolti, anche quelli più negativi, di una siffatta scelta. In definitiva, può dirsi che si è tentato, pur con tutte le difficoltà del caso, di far si che le scelte compiute fossero il frutto di riflessioni ponderate e non dettate dalla contingenza del momento e dal fatto di dover inseguire una realtà di fatto già affermatasi. In Italia, invece, il passaggio dal monopolio pubblico al sistema misto è stato caratterizzato dall’instaurazione di un dialogo, non sempre fruttuoso, tra il nostro legislatore e la Corte Costituzionale, che ha anche svolto, in più di una occasione, un ruolo di supplenza di quest’ultimo, stante la sua perdurante assenza. Così, si deve ai giudici costituzionali (con la sentenza n. 202 del 1976) la liberalizzazione del mercato in merito ai servizi radiotelevisivi trasmessi via etere a livello locale. Infatti, solo dopo siffatta pronuncia il legislatore emanò una disciplina volta a codificare quelle che erano state le indicazioni della Consulta. Mentre, sul piano nazionale la liberalizzazione intervenne in via di fatto e, solo successivamente ed in virtù di un altro intervento della Corte Costituzionale (si ci riferisce evidentemente alla sentenza n. 826 del 1988), il legislatore intervenne essendo stato per così dire obbligato, dalla Consulta, a regolare la realtà venutasi a consolidare. Una evoluzione così caratterizzata, ha portato dunque ad una situazione in base alla quale il legislatore si è trovato, in quasi tutte le occasioni, a dover prendere atto di una realtà di fatto già esistente e pienamente consolidata e, quindi, costretto ad inseguirla emanando una disciplina non scevra da condizionamenti esterni e frutto di una riflessione non adeguatamente meditata. Inoltre, alla luce di quanto detto fin qui ed a mio personale parere, il ruolo mantenuto nel tempo da parte del legislatore presta il fianco ad una critica che, ben sapendo essere un po’ provocatoria, meriterebbe comunque una risposta per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco di sorta. Mi riferisco al fatto che, guardando al passato con gli occhi di oggi, la latitanza di quest’ultimo potrebbe ingenerare il dubbio di non essere proprio del tutto casuale, ma frutto di una strategia politica, anch’essa non esente da critiche, posto che il ruolo fondamentale del legislatore sia quello di legiferare.

Sempre in merito alla fase di liberalizzazione, non può non rilevarsi come siffatto processo abbia portato alla costituzione, all’interno degli ordinamenti italiano, francese e britannico di autorità indipendenti predisposte a sovrintendere il sistema radiotelevisivo: quindi sia il settore pubblico che quello privato. Si ricordano, a tal proposito, l’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni – Agcom – per quanto riguarda l’Italia, il “Conseil Superieur de l’Audiovisuel” – C.S.A. –  per quanto attiene alla Francia e l’“Office of Communications” – OFCOM – per quanto concerne il Regno Unito. I tre ordinamenti, pertanto, anche sulla base della normativa europea, a fronte dell’apertura del mercato radiotelevisivo hanno istituito le suddette autorità. Se, da un lato, l’Agcom e l’OFCOM sono competenti a sovrintendere il settore radiotelevisivo e quello delle telecomunicazioni, stante la convergenza dei due settori derivante dal progresso tecnologico, in Francia il C.S.A. è competente solo per il settore radiotelevisivo e il settore delle telecomunicazioni risulta soggetto al controllo dell’A.R.C.E.P. (“Autorité de régulation des communications électroniques et des postes”). Il C.S.A. e l’OFCOM si distinguono, poi, dall’Agcom per il fatto che le prime due sono dotate del potere di rilascio delle licenze (con le relative frequenze) agli operatori radiofonici e televisivi (anche riguardo la trasmissione in modalità digitale), mentre l’autorità italiana non è dotata di un siffatto potere. E’, infatti, previsto che sia il ministero delle comunicazioni competente al rilascio dei titoli abilitativi sulla base delle regole fissate dell’Agcom in un apposito regolamento. Inoltre, tutte e tre le diverse autorità suddette, ai sensi della normativa vigente, sono dotate di speciali poteri in merito all’indagine, alla valutazione nonché all’eventuale sanzionamento delle pratiche anticoncentrative, che possono verificarsi nel mercato radiotelevisivo. Quanto, infine, alla nomina dei membri delle tre differenti autorità, nonché il ruolo esercitato dal governo e dal Parlamento nei confronti di queste ultime, può rilevarsi quanto segue.  Con riguardo all’Agcom, i suoi membri sono nominati dalla Camera e dal Senato, mentre il presidente è nominato con d.p.r. sulla base della proposta del Presidente del Consiglio, d’intesa con il Ministro delle comunicazioni. Anche in virtù di ciò, l’autorità è sottratta, almeno formalmente, all’indirizzo politico-amministrativo del Governo e risponde del suo operato solo nei confronti del Parlamento. In merito al C.S.A., invece, si nota come i suoi membri vengano nominati per decreto dal Presidente della Repubblica (il quale nomina anche il presidente del C.S.A.), sulla base della designazione dello stesso Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato e di quello dell’Assemblea nazionale. In quanto autorità amministrativa indipendente, il C.S.A. è sottratto all’autorità ed ad ogni indirizzo del governo, ma pur tuttavia risponde della sua attività nei confronti del Parlamento e del governo, ai quali indirizza ogni anno un “rapport d’activité”. Infine per quanto attiene all’OFCOM, si ricorda che tutti i suoi membri, compresi il presidente e vicepresidenti, sono nominati dal ministero per la Cultura, Media e Sport. Ciononostante, tale ente pubblico in quanto autorità indipendente è sottratto, parimenti a quanto accade in Italia ed in Francia, all’influenza ed al controllo governativi, dovendo rispondere annualmente del proprio operato al Parlamento, il quale effettua nei suoi riguardi anche un controllo di tipo finanziario.

Strettamente legata alla fase di liberalizzazione è la disciplina antitrust, predisposta dai tre differenti ordinamenti a seguito della intercorsa liberalizzazioen e volta a salvaguardare, all’interno del sistema radiotelevisivo, il pluralismo. Infatti, a parte le diversità che si possono riscontrare tra le varie discipline, l’intendimento principale che i  diversi paesi miravano a realizzare era quello di porre un limite alle concentrazioni al fine di tutelare il pluralismo, ritenuto quale valore fondante di uno stato di diritto e di una democrazia compiuta. Se in principio, infatti, tale valore di rango supremo era stato salvaguardato mediante la previsione di un regime monopolistico, una volta realizzatosi l’ingresso dei privati nel mercato ed il passaggio ad un sistema misto, si è reso necessario introdurre una disciplina antitrust, precipuamente preordinata alla tutela di siffatto valore. Così, sono da leggere in tale direzione i limiti monomediali e multimediali posti dalle differenti legislazioni. In merito a ciò, alcune considerazioni possono essere svolte circa il contenuto delle differenti discipline predisposte in Italia, Francia e Regno Unito.

In specie, in Italia numerose critiche, peraltro condivisibili, sono state espresse nei confronti del limite multimediale che consente, ai soggetti titolari di autorizzazioni per la diffusione di programmi televisivi e radiofonici ed entro la soglia del 20 per cento, la raccolta di risorse economiche in relazione al Sistema Integrato della Comunicazione c.d. SIC. Ciò in quanto il SIC prende in considerazione le più diverse e disparate attività ampliando a dismisura la base di calcolo del suddetto limite e, per tale via, finisce per legittimare la perpetuazione dello status quo più volte censurato dalla Corte Costituzionale.

Anche in Francia, peraltro, sono stati sollevati alcuni dubbi circa la capacità dei limiti anticoncentrativi multimediali di salvaguardare in maniera pienamente effettiva il valore costituzionale del pluralismo. Infatti, questi ultimi non tengono conto, di numerose attività quali la pubblicità, la produzione cinematografica e audiovisiva, internet etc., il cui controllo da parte di un unico soggetto risulta in grado, tuttavia, di poter arrecare un grave pregiudizio al suddetto valore costituzionale, dal momento che restringerebbe, in modo significativo, la presenza di una pluralità di voci presenti all’interno di tutto il sistema radiotelevisivo.

Mentre, in riferimento alla situazione in Gran Bretagna, si deve notate come l’ultima disciplina emanata abbia alleggerito i limiti, monomediali e multimediali, antitrust assegnando, al contempo, all’OFCOM e alla “Competition Commission” il compito di valutare eventuali implicazioni negative, per quanto concerne il pubblico interesse e dunque anche eventuali attentati al pluralismo, delle operazioni di acquisizione o fusione tra soggetti che controllano una medesima ovvero diversa tipologia di media.

Infine, è utile porre in evidenza come i tre ordinamenti esaminati abbiano preso in considerazione e disciplinato la tecnologia digitale prevedendo, seppur entro date differenti, il passaggio totale a siffatta tecnologia. Ciò in quanto quest’ultima, permettendo il superamento del problema dalla limitatezza e scarsità delle risorse (frequenze), consentirà, come già peraltro accade in maniera più effettiva in Francia e nel Regno Unito rispetto alla situazione italiana, la possibilità di ingresso nel mercato ad una molteplicità di soggetti; così determinando la presenza di una pluralità di programmi con un effetto positivo sul pluralismo.

In conclusione, posto che non esiste un’unica disciplina ideale del sistema radiotelevisivo che possa assurgere a meta verso cui il legislatore di ogni singolo ordinamento debba tendere, ciascuno dei tre ordinamenti analizzati presenta degli aspetti positivi, a cui ne fanno da contraltare degli altri di segno opposto. Il legislatore, infatti, nell’approntare una disciplina di questo genere, come peraltro accade in ogni altra ipotesi, è chiamato a dover prendere in considerazione quelle che sono le molteplici e multiformi sfaccettature della realtà di fatto, nonché a dover affrontare e risolvere i differenti problemi legati al particolare contesto in cui si trova a dover legiferare. Tutto ciò, pertanto, fa si che le soluzioni adottate in un determinato ordinamento non è detto che, da un lato, abbiano la medesima valenza ed importanza rispetto a quello che è un diverso contesto fattuale e normativo e, dall’altro, possano essere impiegate al fine di soddisfare quelle che sono le esigenze del proprio ordinamento risolvendone, al contempo, i relativi problemi. Quindi, allorquando si vogliano recepire soluzioni previste da altri ordinamenti bisogna avere cura, per un verso, di verificare che possano costituire una risposta adeguata ai problemi specifici del proprio ordinamento e, per altro verso, di adattarle alla propria particolare realtà fattuale e normativa; recedendo dall’intento qualora una simile operazione non fosse possibile. In Italia molto spesso, ed a mio avviso in modo fuorviante e forse anche troppo affrettato, si assiste, infatti, a proposte che mirano a prendere modelli stranieri quale punto riferimento verso cui tendere, ma che però non tengono in debito conto le peculiarità sociali, culturali ed economiche che caratterizzano l’ordinamento di riferimento. Finendo così per proporre l’adozione di soluzioni valide soltanto per quest’ultimo e perdendo, invece, l’occasione per riflettere su soluzioni interne più efficaci.

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