Responsabilità ISP: chi decide se un contenuto è diffamatorio?

Corte di Appello di Roma, sez. I civile, 19 febbraio 2018, n. 1065

La responsabilità dell’Internet Service Provider deve ritenersi sussistente per le informazioni oggetto di hosting (memorizzazione durevole) soltanto allorquando il provider sia effettivamente venuto a conoscenza del fatto che l’informazione è illecita e non si sia attivato per impedire l’ulteriore diffusione della stessa.  In relazione a contenuti potenzialmente diffamatori è ipotizzabile un concorso nell’illecito commesso dagli utenti da parte del provider soltanto al cospetto di un ordine dell’autorità giudiziaria, ovvero dell’utilizzazione di espressioni univocamente lesive dei diritti della persona (ad esempio epiteti insultanti), ma giammai può configurarsi un obbligo di rimozione al cospetto di contenuti informativi di per sé non insultanti e addirittura corredati della indicazione delle relative fonti, comprensive di sentenze passate in giudicato.

 

  1. Il caso.

La vicenda dalla quale ha avuto origine la decisione che si commenta ha riguardato il noto legale ed ex ministro Cesare Previti che innanzi al Tribunale di Roma qualche anno orsono, avviava un giudizio ai sensi dell’articolo 702 bis c.p.c. al fine di ottenere la condanna della Wikimedia Foundation – fondazione che gestisce la più celebre enciclopedia online – alla rimozione di contenuti presuntivamente diffamatori sui propri servizi, oltre che al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dall’attore, in conseguenza della pubblicazione di informazioni presuntivamente diffamatorie sulla biografia che riguardava quest’ultimo presente su Wikipedia.

Nel primo giudizio le domande attoree venivano integralmente rigettate.  In quell’occasione il Tribunale osservava, in via preliminare, come non fosse applicabile al caso di specie la disciplina introdotta dal Decreto Legislativo 70/2003, che ha recepito in Italia la Direttiva 2000/31/CE relativa ai servizi della società dell’informazione nel mercato interno, essendo la società convenuta stabilita negli Stati Uniti.  Il Tribunale rilevava, in conseguenza, che per risolvere la controversia bisognava considerare la disciplina interna partendo dal presupposto che la società convenuta operava quale hosting provider, vale a dire in qualità di fornitrice di un servizio consistente nella memorizzazione permanente di informazioni da parte degli utenti dello stesso.  Circostanza questa non scalfita, secondo i giudici capitolini, dalle argomentazioni difensive proposte dall’attore.

Nella direzione indicata il giudice di prime cure riconosceva, anzitutto, come non fosse sostenibile l’equiparazione tra hosting provider ed editore, escludendo per tal via l’applicabilità dell’articolo 11 della Legge 47/1948 sui reati commessi con il mezzo della stampa.  Il Tribunale passava, quindi, ad analizzare la questione alla luce della disciplina sulla responsabilità per attività pericolose di cui all’articolo 2050 c.c.  Sotto questo profilo il primo giudice escludeva l’applicabilità della rigorosa disciplina codicistica in quanto sulla piattaforma gestita dalla società convenuta era presente un disclaimer generale idoneo ad informare gli utilizzatori della circostanza che la Wikimedia Foundation non garantiva in alcun modo la veridicità delle informazioni pubblicate sulla piattaforma.  Infine, e con riferimento ad una una potenziale posizione di garanzia del provider in relazione alle informazioni pubblicate dagli utenti del servizio fornito, il Tribunale riconosceva l’insussistenza della stessa alla luce della libertà riconosciuta agli utenti di compilare le voci dell’enciclopedia online e modificare le stesse seguendo le regole della piattaforma.  Nel rigettare integralmente le domande attoree il Tribunale rilevava, in conclusione, come, in ogni caso, l’attore non avesse seguito le procedure online predisposte dalla Wikimedia Foundation per richiedere la modifica o la cancellazione di contenuti ritenuti inveritieri presenti sulla piattaforma.

L’attore proponeva appello avverso la decisione del Tribunale affidando il proprio gravame ad un motivo centrale relativo al ruolo e alla conseguente responsabilità della Wikimedia Foundation nella gestione della piattaforma Wikipedia.

Nell’articolato motivo di appello l’attore, nel richiedere l’integrale riforma della decisione, deduceva come il Tribunale avesse errato nel ritenere la Wikimedia Foundation come un mero fornitore di servizi di hosting, in quanto la stessa eserciterebbe un controllo sui contenuti pubblicati dagli utenti della piattaforma, tanto da assicurarne l’affidabilità nella home page del sito.  Inoltre, l’attore valorizzava, tra gli altri elementi evidenziati, come il Tribunale non avesse dato rilievo alla diffida stragiudiziale trasmessa alla convenuta nella quale venivano indicate le false notizie delle quali si chiedeva la rimozione, oltre che non avesse tenuto nel minimo conto l’istanza di mediazione presentata dall’attore, procedura alla quale la convenuta non aveva preso parte.

 

  1. La responsabilità dell’hosting provider nell’ipotesi di contenuti potenzialmente diffamatori pubblicati dagli utenti del servizio.

La Corte di Appello di Roma con la sentenza in analisi ha rigettato integralmente il gravame presentato dall’attore rilevando la totale infondatezza dei motivi di appello proposti.  In particolare, con riferimento al merito della controversia, e dunque all’inquadramento del ruolo e della conseguente responsabilità della Wikimedia Foundation nella gestione di Wikipedia, la Corte capitolina, nel solco tracciato da una parte della giurisprudenza nazionale intervenuta sul tema[1], si è soffermata sull’ampiezza degli obblighi posti a carico degli ISP nell’ipotesi di contenuti presuntivamente diffamatori caricati sulle piattaforme gestite.

La Corte nell’articolata decisione rileva anzitutto come il Tribunale abbia correttamente qualificato la convenuta come una fornitrice di un servizio di hosting.  Infatti, nella gestione dell’enciclopedia online la Wikimedia Foundation offre agli utenti uno spazio virtuale sul quale questi ultimi possono pubblicare i propri contenuti nel rispetto delle regole del servizio e senza che la convenuta eserciti un controllo preventivo, o di natura editoriale, sui suddetti contenuti.  In questa direzione, evidenzia il Collegio, le affermazioni contenute nella home page della piattaforma, contrariamente a quanto sostenuto dall’attore, non rivestono alcun carattere confessorio ma debbono, al contrario, considerarsi enunciazioni generiche volte a illustrare il funzionamento di Wikipedia.  Quando si riferisce ai controlli, continuano i giudici, Wikimedia fa riferimento al sistema per la correzione dei contenuti presente sulla piattaforma che l’attore non ha utilizzato con riferimento alla biografia che lo riguardava.

Venendo ai contenuti della diffida trasmessa dall’attore in fase stragiudiziale, la Corte d’Appello evidenzia come la stessa fosse generica e si limitasse ad una indimostrata affermazione di diffamatorietà delle informazioni riportate sulla biografia presente sulla piattaforma.  Al contrario, la diffida, al fine di far sorgere in capo al provider un obbligo di attivazione, avrebbe dovuto essere specifica e dettagliata[2] e avrebbe dovuto contenere in particolare “[…] a) le singole affermazioni ritenute non veritiere; b) le ragioni della asserita falsità e le fonti idonee a comprovarlo; c) le modifiche suggerite in guisa da consentire alla comunità degli utenti ed in particolare agli “amministratori” da quest’ultima delegati, l’esecuzione dei controlli richiesti all’esito dei quali, ove positivi, si sarebbe potuta disporre la modifica richiesta”.

La Corte prosegue nel percorso argomentativo tracciato, ricordando le regole di base sulla responsabilità dei provider di servizi internet così come dettate dagli articoli 16 e 17 del Decreto Legislativo 70/2003. E, dunque, l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza sui contenuti trasmessi o ospitati e la sussistenza di una responsabilità per i contenuti illeciti solo in caso di mancata attivazione a fronte della “conoscenza” del carattere illecito dei suddetti contenuti. Ed è proprio su quest’ultimo profilo che la Corte capitolina conclude il ragionamento condotto andando ad accertare il carattere diffamatorio o meno delle informazioni controverse.

Sul punto il Collegio non lascia spazio ad interpretazioni alternative: le informazioni contenute nella biografia dell’attore presente su Wikipedia non erano diffamatorie in quanto vere e supportate da idonee fonti, quali, tra tutte, sentenze passate in giudicato. A fronte dell’assenza di diffamatorietà dei contenuti controversi la Corte di Appello si sofferma, quindi, sull’estensione degli obblighi a carico degli ISP nell’ipotesi di contenuti presuntivamente diffamatori, chiarendo come un obbligo di rimozione sussista a fronte di un ordine dell’autorità giudiziaria ovvero nel caso in cui i contenuti siano “univocamente lesivi dei diritti della persona”.  Certamente, concludono i giudici di appello, tale obbligo non sussiste in relazione a contenuti informativi di per sé non insultanti e corredati dall’indicazione di fonti che includono sentenze passate in giudicato.

 

  1. Verso una nuova stagione della giurisprudenza italiana sulla responsabilità dei provider?

La decisione sin qui commentata riprende, sviluppandoli, dei percorsi argomentativi già tracciati dalla più recente e avanzata giurisprudenza nazionale intervenuta in materia di responsabilità dei fornitori di servizi internet.

Un aspetto indubbiamente innovativo della decisione si rinviene nei passaggi conclusivi della stessa allorquando la Corte d’Appello sembra operare una distinzione tra contenuti chiaramente illeciti e contenuti che chiaramente illeciti non sono.

Nel primo caso, e quindi a fronte di un ordine dell’autorità competente che abbia accertato l’illiceità di un contenuto o quando ci si trova innanzi a contenuti “univocamente lesivi” dei diritti di terzi il provider che riceva una diffida specifica e dettagliata è tenuto a rimuovere i contenuti in questione.  Nel caso in cui non sussistano tali condizioni, il provider, sembra sostenere la Corte, non può operare autonomamente una valutazione circa la lesività dei contenuti e deve, quindi, attendere un ordine dell’autorità competente prima di procedere alla rimozione degli stessi. Si tratta a ben vedere di uno dei punti cardine del regime di responsabilità degli ISP delineato dal legislatore comunitario e quindi trasfuso nella disciplina interna, che risponde all’esigenza di non demandare alla discrezionalità del provider delle scelte che, in quanto direttamente incidenti su diritti fondamentali, non possono che essere affidate alle istanze costituzionalmente preposte, prima tra tutte l’autorità giudiziaria ordinaria.  Che sia l’inizio di una nuova stagione per la responsabilità dei provider nella giurisprudenza italiana?

[1] Cfr. C. App.  Milano, 7 gennaio 2015, n. 29.

[2] Cfr. Trib. Firenze, 25 maggio 2012; C. App. Milano, 7 gennaio 2012, n.29.

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