Quote europee: a chi conviene la riserva indiana?

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* Le opinioni espresse in questo articolo riflettono esclusivamente la posizione personale dell’Autore

Le quote di programmazione ed investimento che gli editori televisivi sono obbligati a riservare alle opere europee è un meccanismo di derivazione comunitaria che risale alla direttiva UE del 1989, cosiddetta “Tv senza frontiere”. Trasposto a più riprese nell’ordinamento italiano, che ha aggiunto ulteriori obblighi in capo alle imprese televisive, oggi è oggetto di analisi nell’ambito di una sua possibile riformulazione, esercizio avviato congiuntamente dal MIBAC e dal MISE in seno all’Esecutivo. Contestualmente, anche l’Autorità delle Comunicazioni ha avviato una consultazione pubblica sul medesimo oggetto, nell’ambito di una propria indagine conoscitiva sul settore della produzione audiovisiva. Sempre in questo periodo la stessa Commissione Europea sta valutando la possibilità di apportare alcune modifiche al sistema da essa pensato ormai più di 26 anni fa.

All’epoca, l’idea sottostante è che fosse il mondo della televisione e non quello della distribuzione in sala a doversi far carico di sostenere il mondo della produzione cinematografica europea. La normativa comunitaria si  prefiggeva di creare un mercato europeo dell’audiovisivo favorendo lo sviluppo di un’industria audiovisiva nei vari paesi europei in grado di competere con quella degli Stati Uniti d’America.

Nel caso dell’Italia l’obiettivo dello sviluppo di un mercato nazionale dell’audiovisivo è stato da subito pienamente raggiunto. Il pubblico televisivo in Italia è infatti particolarmente affezionato al prodotto audiovisivo italiano, che si tratti di opere filmiche o di sceneggiati. In termini di risultati di audience in televisione i primi film sono quasi sempre film italiani e gli editori televisivi hanno dunque un interesse proprio, indipendente dalla riserva prevista dalle  leggi, a investire in prodotto audiovisivo italiano e a trasmetterlo nei propri palinsesti.

Le norme che riservano la maggioranza delle ore di programmazione televisiva al prodotto audiovisivo europeo, quindi, non sembrano più necessarie o particolarmente utili. Anche perché, quando furono introdotte per la prima volta, servivano a conquistare al prodotto europeo la maggioranza del tempo di trasmissione di pochi importanti canali televisivi generalisti nazionali, garantendo l’esistenza di una domanda sufficiente da parte di questi pochi grandi soggetti. Oggi invece  esse si applicano, per ogni Stato membro, ai palinsesti di alcune centinaia di canali nazionali, anche tematici, creando così una quantità enorme di ore giornaliere di programmazione riservata al prodotto italiano/europeo.

Ad esempio in Italia oggi Auditel rileva e pubblica gli ascolti televisivi di oltre 400 canali rispetto ai 7 che rilevava alla fine degli anni 80.

Molti, poi, sono gli altri cambiamenti intervenuti nell’industria e nel mercato dell’audiovisivo nel quarto di secolo che ci separa dalla caduta del muro di Berlino.

Oltre alla moltiplicazione del numero dei canali lineari e degli editori, infatti, sono anche aumentati i mezzi trasmissivi su cui tali canali appaiono visibili, rispetto alla sola visione analogica degli anni ‘90. Sono poi aumentati anche i devices di ricezione (tablet, personal computer, playstations, smartphone, etc.), rispetto al solo apparecchio televisivo, e il prodotto audiovisivo raggiunge ora pubblici nuovi, più vasti o più di nicchia.

Grazie alla digitalizzazione e ad internet,  si sono poi moltiplicate le occasioni di consumo del prodotto audiovisivo in “televisione” (on demand, tv everywhere, visioni ripetute, registrate, differite, restart etc…),  forzando e superando i vincoli dei palinsesti tradizionali.

Di tutte queste evoluzioni – potremmo quasi dire rivoluzioni – gli obblighi normativi di riserva per le opere europee non tengono minimamente conto.

Se pensiamo che questi canali televisivi, lineari e non lineari, presenti su tutti i mezzi trasmissivi e su tutti i devices hanno un grandissimo bisogno di contenuto audiovisivo differenziante, non si fa fatica a comprendere come una tale fortissima domanda incrementi oggi il leverage negoziale a favore di chi tali contenuti li produce. Anzi, la domanda sproporzionata di prodotto audiovisivo europeo, derivante dalle norme asimmetriche di derivazione comunitaria, contribuisce a spostare ulteriormente la bilancia del potere negoziale a favore dei produttori europei di contenuti, i quali sanno che potranno sempre facilmente trovare dei compratori “obbligati” per i propri prodotti (purtroppo anche indipendentemente dalla loro qualità).

In aggiunta poi agli obblighi di programmazione, i produttori audiovisivi sanno anche di poter contare sugli obblighi normativi di investimento.  Infatti le imprese televisive debbono investire una quota significativa dei loro proventi  nel prodotto europeo, indipendentemente dalla effettiva trasmissione in onda delle opere stesse.

Tutto ciò senza contare i contributi pubblici, che pure vengono erogati su una parte non trascurabile dei film europei. Dai recenti dati ANICA per l’ultimo anno,  65 film italiani su 213 avrebbero ricevuto contributi pubblici.

Ricapitolando, i mercati nazionali dell’audiovisivo non sono stati fagocitati dalla macchina statunitense dell’entertainment. In Italia gli editori televisivi trasmetterebbero comunque gli stessi palinsesti che trasmettono oggi, per propria convenienza, anche se non vi fosse il meccanismo delle quote.

Le norme dunque, come si è visto, non sono necessarie e la riserva è oggi totalmente sproporzionata dal punto di vista quantitativo.

Le quote europee, peraltro, possono essere soddisfatte dalle televisioni con il solo prodotto italiano, come si è visto, e dunque non servono nemmeno a realizzare quella obbligata circolazione europea dei prodotti audiovisivi nazionali che qualcuno aveva un tempo auspicato.

Ora chi sta analizzando il tema de iure condendo (Commissione europea, Agcom, Parlamento, MISE e MIBAC, gli stessi operatori di mercato) potrebbe e forse dovrebbe interrogarsi se la permanenza di queste norme nell’ordinamento, oltre che inutile, possa anche risultare dannosa. Dannosa proprio per il tessuto nazionale delle imprese di produzione audiovisiva.

Questo sistema di tutele e aiuti asimmetrici consente purtroppo alle imprese italiane di produzione di restare piccole, fragili, disorganizzate e non professionali. Il nanismo delle imprese di produzione audiovisive del nostro Paese, che probabilmente non dispiace nemmeno così tanto alle “controparti televisive”,  non consente loro, salvo rare eccezioni, di coltivare prospettive di vera internazionalizzazione. Questo sistema non  incoraggia le imprese di produzione a perseguire il merito, la concorrenza e la qualità, perché le protegge tutte dal fallimento in sede civile e dal fallimento al box office (qualche televisione comprerà comunque il loro prodotto). Il sistema contrasta senza motivo colli di bottiglia che non esistono più (dal lato degli editori tv) e non si occupa affatto dei colli di bottiglia che permangono  (meccanismi di accesso alle sale cinematografiche).

C’è dunque un set di norme inutili, assistite da sanzioni di dubbia efficacia, , che comunque

–       richiede applicazione e calcoli complessi da parte delle televisioni obbligate;

–       richiede costante monitoraggio amministrativo da parte delle authorities, assorbendo inutilmente pubbliche risorse;

–       genera anche un certo contenzioso, talvolta giudiziale e talaltra solo a livello di rappresentanze di categorie.

C’è anche il fondato dubbio che le norme in questione, anziché funzionare  solo da inutile placebo, possano in realtà rivelarsi come concause della frammentazione e della debolezza intrinseca del tessuto produttivo della nostra industria audiovisiva.

Quale migliore occasione, allora,  per abrogarle o ridurne la portata?  Perché per una volta non proviamo a liberare  le controspinte del merito e della concorrenza anche in questo settore, così importante e così distintivo per la creatività e la cultura del nostro Paese ?

 

 

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