Leveson Inquiry e pluralismo dei media: suggerimenti per l’Italia

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A un anno di distanza dal phone-hacking scandal, lo scandalo delle intercettazioni che ha scosso l’opinione pubblica inglese portando alla chiusura del giornale News of the World, continua nel Regno Unito il dibattito sul rapporto fra informazione e politica. Dopo la conclusione la scorsa settimana della Leveson Inquiry – l’indagine condotta da Lord Leveson per fare chiarezza “sulla cultura, le pratiche e l’etica della stampa” – ora al centro dell’attenzione sono le proposte per una nuova regolamentazione del settore dei media.

Fra i numerosi contributi inviati alla Leveson Inquiry, anche la London School of Economics ha recentemente inviato un breve pamphlet, dove si avanzano una serie di proposte che possono rivelarsi utili anche nel contesto italiano. L’argomento da cui muove la pubblicazione è la necessità di regolamentare l’ambito dei media partendo da un approccio olistico, in cui si tenga conto delle interrelazioni fra le numerose misure che possono essere adottate per promuovere il pluralismo dell’informazione. Oltre alle norme volte a tutelare la concorrenza nel mercato dei media, esistono infatti altri provvedimenti legati ad esempio alla trasparenza delle proprietà editoriali, il pluralismo interno del servizio pubblico televisivo, l’autoregolamentazione della stampa o il sostegno pubblico al giornalismo.

Limiti alle quote di mercato

Fra questi provvedimenti assumono particolare rilevanza i limiti alle quote di mercato che possono essere detenute da una singola azienda nel settore dei media. Limiti di questo tipo, anche se calcolati in modi molto diversi fra loro, sono presenti non solo nella legislazione italiana (Legge “Gasparri”, n. 122/2004), ma anche in quella francese (Loi Leotard, legge 86-1067) e tedesca (Rundfunkstaatsvertrag, Articolo 26 della Direttiva sulle telecomunicazioni). Non sono presenti invece nella legislazione inglese (se non in un caso specifico riguardante alcune frequenze televisive). Nel Regno Unito, se due aziende editoriali intendano unirsi, come è successo un anno fa quando la News Corporation ha cercato di acquisire la quota mancante di British Sky Broadcasting, si applica il “Public Interest Test”, una complessa procedura che chiama in causa numerose istituzioni, fra cui l’autorità per le comunicazioni, Ofcom, e il ministero competente.

Proprio l’inadeguatezza di questa procedura, che si è rivelata fonte di incertezze e lunghi contenziosi legali nei soli due casi in cui è stata applicata finora, è alla base della proposta del contributo della LSE di introdurre anche nella legislazione inglese dei limiti predefiniti alle quote di mercato. Questi “sbarramenti” garantirebbero un triplice vantaggio: maggiore autonomia al regolatore, lasciando l’ultima decisione all’autorità per le comunicazioni e non agli organi politici; maggiori certezze per le aziende, che si muoverebbero all’interno di un quadro regolamentare chiaro e facilmente applicabile nel caso di controversie; maggiori “protezioni” per i cittadini di fronte al potere eccessivo di una singola azienda nel mercato dei media.

Senza entrare nel merito di quale sia il limite ottimale – una decisione che chiaramente è del tutto discrezionale e spetta al giudizio del legislatore – esistono però almeno due problemi chiave da tenere in conto nel definire queste soglie.

Definire il mercato

Il primo problema riguarda la definizione del mercato, ovvero a quali prodotti ci riferiamo quando parliamo di mercato dei media. Come sostenuto nel contributo della LSE ed anche recentemente dalla stessa Ofcom, i processi di digitalizzazione stanno conducendo a un unico mercato “convergente”, dove i confini tradizionali fra televisione, stampa e altri mezzi si fanno sempre più labili. Considerata inoltre la crescita di internet (mezzo che per eccellenza unisce diversi formati), è chiaro come una nuova regolamentazione debba avere come riferimento un unico mercato dei media, in cui le limitazioni si applichino alla fonte, ovvero ai gruppi editoriali che producono i contenuti distribuiti su piattaforme diverse.

La legislazione italiana si è già mossa in questo senso con la definizione del cosiddetto Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC). Numerose critiche, tuttavia, si sono soffermate sulla definizione eccessivamente ampia del SIC, dove rientrano anche settori difficilmente riconducibili al pluralismo dell’informazione, come il cinema e la pubblicità diretta. Nel caso in cui non si voglia rivedere la definizione del mercato, una soluzione alternativa potrebbe essere ridurre fortemente il limite alle quote detenibili da un singolo operatore, rispetto all’attuale 20% che di fatto permette l’esistenza di colossi editoriali.

Definire gli indicatori

Una volta definito il mercato, il secondo nodo cruciale riguarda la scelta degli indicatori in base ai quali stabilire questi limiti, ovvero capire a che cosa vogliamo porre dei limiti (se, ad esempio, ai ricavi, alle quote di pubblico raggiunte o ad altri fattori). Come sostenuto nel report “Measuring Media Plurality” di Ofcom, gli indicatori più efficaci si riferiscono al consumo dei media, prendendo in considerazione, quindi, il lato dei consumatori e non quello delle aziende. Questo viene confermato anche dall’analisi della LSE dei vari indicatori in Europa e Stati Uniti. In particolare, l’indice che pare maggiormente efficace nel misurare la capacità dei vari media di influire sull’opinione pubblica si basa sulle quote di “esposizione temporale” (share of time exposure) ai prodotti di un singolo gruppo. In altre parole, l’indicatore, già adottato dall’autorità per le comunicazioni olandese, combina le diverse piattaforme (tv, radio, giornali e internet) e calcola quanto tempo la popolazione trascorre a consumare i contenuti prodotti dalle singole aziende (ad esempio, Rai, Mediaset, Rcs, Gruppo Espresso, ecc.).

La regolamentazione italiana contrasta nettamente con questo approccio, poiché non viene adottato nessun tipo di indicatore basato sul consumo dei media, ma i limiti alle quote di mercato sono calcolati sulla base dei ricavi delle singole aziende. Questa scelta, tuttavia, ha dei notevoli risvolti negativi, perché non esiste una correlazione diretta fra ricavi di un’azienda e capacità di influire sull’opinione pubblica. L’esempio lampante di questa mancata correlazione viene proprio dalla televisione italiana, dove secondo i dati Agcom Rai, Mediaset e Sky nel 210 si spartivano circa il 30% dei ricavi del mercato televisivo a testa. Eppure, i dati dell’audience dello stesso anno mostrano una fotografia ben diversa, con il 10% circa del pubblico raggiunto da Sky, contro l’80% raggiunto da Rai e Mediaset assieme. È chiaro quindi come un limite basato sui ricavi possa funzionare nella normale regolamentazione antitrust, ma non nell’ambito dei media, a causa di queste possibili distorsioni. Solamente indicatori in grado di misurare la capacità effettiva di raggiungere il pubblico (a prescindere dal fatturato di un’azienda), possono contribuire a raggiungere l’obiettivo di limitare la capacità di un singolo attore di influire eccessivamente sull’opinione pubblica.

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