Le criptovalute alla prova della successione mortis causa: profili problematici

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Ottenere l’accesso al conto bancario di un soggetto deceduto è diventata un’operazione relativamente semplice per gli eredi, ci si trova infatti di fronte ad una normativa ormai consolidata e ad un istituto di credito strutturato che può, seguendo determinate procedure a garanzia degli eredi e della banca, immettere nel possesso dei rapporti i soggetti effettivamente legittimati.

Sarebbe lecito attendersi altrettanta, se non maggiore, semplicità quando si parla di criptovalute, sistemi di contabilità gestiti paritariamente dagli utenti e improntati alla massima semplicità ed autonomia di utilizzo.
Purtroppo però i sistemi decentralizzati e automatizzati come quelli che fondano le valute crittografiche finiscono per mostrare le loro debolezze proprio nel momento della successione, quando si tratta di consentire ai legittimi eredi dei titolari dei diritti, che non possiedono le credenziali di accesso, l’accesso i valori presenti sui loro sistemi.

La completa automazione dei processi e il fatto che questi sistemi si affidano ad algoritmi piuttosto che a personale fisico fanno sì che, in assenza di un’adeguata programmazione ereditaria da parte del de cuius, possa risultare davvero difficile accedere ai valori investiti in valute digitali crittografiche.

Queste debolezze incidono negativamente sulla diffusione e sulla portata, comunque dirompente, delle valute digitali, essendo che uno dei motivi per la scelta di un investimento da parte di un soggetto è costituita proprio dal grado di sicurezza e dalla facilità con cui sarà possibile far arrivare ai propri eredi questi valori.

I problemi che però si incontrano nel momento della successione sono molteplici, molti dei quali, però, si potrebbero risolvere con un’adeguata programmazione del fine vita da parte del proprietario dei fondi digitali.

In primo luogo bisogna tener presente che l’assenza di una chiara normativa lascia il campo a diverse interpretazioni sulla natura stessa delle valute digitali e sul loro atteggiarsi di fronte al fenomeno successorio. Sono infatti pochi gli stati che hanno normato il fenomeno della successione digitale con riferimento alle criptovalute (ad esempio il Delaware con lo House Bill 345/2014) e per questo motivo gli eredi non possono contare su soluzioni normative nel caso incontrino delle problematiche nel recuperare i valori digitali del de cuius.

Pur in assenza di un quadro normativo compiuto si può comunque affermare con sicurezza la patrimonialità dei diritti di credito espressi in valute digitali, con la conseguenza, a mente del diritto italiano, della caduta in successione di tali diritti.

Saranno quindi gli eredi a poter accedere ai fondi in bitcoin o in altre valute assimilabili che erano in possesso del defunto; degli stessi si potrà disporre per testamento e, in mancanza di questo, verranno divisi tra gli eredi secondo la normativa in tema di successione legittima.

A questo punto il problema diventa però il modo in cui questi soggetti potranno, di fatto, accedere ai fondi caduti in successione.

Una criptovaluta è infatti regolata da complessi sistemi crittografici che rendono tendenzialmente autonomo l’operare dell’utente sul “libro mastro” digitale che contiene tutte le operazioni effettuate nonché il saldo attuale.

Senza la chiave crittografica non è quindi possibile accedere al portafogli virtuale e, di prassi, nessuno possiede tale chiave se non il proprietario del portafogli.

Se prendiamo ad esempio il sistema Bitcoin, l’utente non entra in contatto con alcun intermediario fatta eccezione per l’exchange (il soggetto da cui acquista i bitcoin) e il fornitore del portafogli (che può essere una app o un servizio online) con il quale gestisce le proprie transazioni.

Non è poi nemmeno necessario che questi soggetti siano a conoscenza dei dati personali dell’utente, molte criptovalute devono infatti la loro fama proprio al (quantomeno potenziale) anonimato dell’utilizzatore finale.

L’unico dato di riferimento univoco al conto è appunto la chiave crittografica privata, chiave che può essere conservata in un dispositivo oppure online protetta da password.

Questa chiave è, sostanzialmente, il “titolo” che consente di operare sul portafogli bitcoin, a prescindere dal soggetto che compie l’operazione.

Di fatto, quindi, basterebbe che il de cuius trasferisse la chiave privata agli eredi per consentir loro di operare sul portafogli senza nemmeno coinvolgere il soggetto che ha venduto i bitcoin, il fornitore del portafogli o altre autorità.

Purtroppo però è complicato trasmettere questa chiave senza esporla -esponendo così di conseguenza i propri valori- a soggetti diversi dai destinatari designati.

Inserire ad esempio la chiave in un testamento potrebbe essere problematico in quanto lo stesso deve essere poi esibito a tutti gli eredi e in numerose occasioni da questi ultimi ad ulteriori soggetti per gli adempimenti burocratici del caso.

Un’altra soluzione potrebbe essere quella di inserire in un testamento la chiave di un ulteriore file criptato contenente, quest’ultimo, la chiave del portafogli bitcoin, ovvero di lasciare ai potenziali eredi una chiave che possa sbloccare i fondi solo se utilizzata congiuntamente a quella in possesso di un esecutore testamentario designato.

Esistono poi alcuni servizi che si propongono di gestire l’eredità dei file bitcoin con un sistema di tipo “keep-alive” che invia delle email al proprietario del conto e trasferisce i fondi ad un altro portafogli (precedentemente indicato) in caso di mancata risposta entro un dato periodo.

Le soluzioni, in caso di programmazione del fine vita, sono quindi comunque molteplici ed efficaci e consentono di far arrivare agli eredi il portafogli bitcoin con un certo grado di sicurezza.

Molto più problematico è il caso in cui gli eredi non siano a conoscenza della chiave privata ovvero del luogo/dispositivo in cui questa è conservata.

Sapere che il de cuius possedeva fondi in bitcoin e magari rintracciare il numero del portafogli (la c.d. chiave pubblica del portafogli, ben diversa da quella, segreta e privata, che permette all’utente di operare) non risolve il problema, non essendoci un’autorità centrale cui rivolgersi per richiedere i fondi.

Sarà necessario infatti recuperare l’accesso alla chiave privata del portafogli bitcoin per ottenere l’effettivo possesso del portafogli.

Questo accesso potrà essere ottenuto recuperando il dispositivo (ad esempio uno smartphone) sul quale è contenuta la chiave, oppure ottenerla con la collaborazione del gestore del portafogli (che sarà anzi obbligato a collaborare con gli eredi dell’utente per immetterli nel possesso di quello che è loro per diritto di successione). Il gestore potrà potrà però operare solamente nei limiti delle sue possibilità tecniche.

Molti portafogli bitcoin, ad esempio, sono gestiti, per garantire maggior sicurezza agli utenti, con procedure automatizzate e non consentono nemmeno ai fornitori del servizio di accedervi e di “forzare” il portafogli per conto degli eredi.

I problemi si moltiplicano poi nel caso in cui non solo non si abbia accesso alla chiave privata del de cuius, ma questi non abbia fornito i propri dati al momento della registrazione dell’account relativo al portafogli. In quest’ultimo caso risulta difficile anche ottenere la collaborazione del gestore del wallet, dovendosi in primo luogo dimostrare a questi di essere gli effettivi titolari (nella veste di eredi) del portafogli “anonimo” gestito.

Il problema attuale, più che di tipo giuridico, è quindi di fatto.

Certo è il diritto degli eredi ad ottenere i valori in valute digitali del de cuius, incerto è il loro effettivo ottenimento in assenza di una ponderata programmazione da parte del defunto.

Non bisogna infatti dimenticare che uno degli scopi principali dei portafogli che contengono le criptovalute è quello di proteggere queste somme dall’accesso da parte di soggetti terzi, e che questo scopo compromette la possibilità di accedere a queste somme anche da parte degli eredi dopo la morte del proprietario di queste valute digitali.

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