La app ‘Immuni’: pregi e limiti del tracciamento digitale dei contatti

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  1. Introduzione

Diversi contributi destinati a questo ideale ‘simposio’, oltre a quelli apparsi nelle principali riviste scientifiche (v. in particolare C. Colapietro – A. Iannuzzi, App di contact tracing e trattamento dei dati con algoritmi: la falsa alternativa tra tutela del diritto alla salute e protezione dei dati personali, in Dirittifondamentali.it, n. 2/2020), hanno offerto un’attenta disamina dell’infrastruttura giuridica e della configurazione tecnologica dell’applicazione Immuni. Non aggiungerò ulteriori considerazioni sul punto, se non per segnalare alcuni aspetti problematici tuttora irrisolti sia sul piano dell’efficacia empirica, sia su quello degli effetti giuridici dell’applicazione medesima, quale emerge nella sua definitiva configurazione. Lo scopo di queste pagine è invece quello di proporre alcuni elementi di riflessione critica, che ad avviso di chi scrive mantengono la propria attualità anche de lege lata, circa i pregi e i limiti del ricorso al tracciamento di prossimità nel quadro delle varie tecniche data-drivenpreposte alla sorveglianza epidemiologica e al contenimento della pandemia(per un quadro più ampio v.M. Kritikos, Ten technologies to fight coronavirus, EPRS, Brussels, 2020).

 

  1. Il tracciamento dei contatti e le sue epifanie

La domanda che continua ad essere posta in maniera insistente sul piano del dibattito pubblico, e dalla quale è opportuno prendere le mosse, è quella relativa al rapporto tra tracciamento dei contatti e tutela della riservatezza, o controllo dei dati personali: rapporto armonico o necessariamente conflittuale?

Credo sia anzitutto necessario distinguere tra tracciamento “manuale” e tracciamento “digitale”, due ipotesi ben diverse per i problemi che implicano, eppure spesso sovrapposte in maniera confusoria nelle pratiche discorsive.

Il primo è il metodo tradizionalmente seguito per prevenire e contenere la diffusione delle malattie infettive e si basa su una serie di procedure collaudate, le quali vanno dall’intervista del caso indice, all’identificazione dei contatti stretti, alla classificazione del rischio, alla comunicazione con i soggetti coinvolti e alla prescrizione di misure di sorveglianza sanitaria, sino eventualmente all’effettuazione di test diagnostici in caso di insorgenza di sintomi (si vedano in proposito le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (WHO, Contact tracing in the context of COVID-19, (Interim Guidance), 10 maggio 2020; e la recente Circolare del  Ministero della Salute del 25 maggio 2020 in tema di ricerca e gestione di contatti di casi Covid-19; più in generale v. S. Negri, Communicable disease control, in G.L. Burci – B. Toebes, a cura di, Research Handbook on GlobalHealth Law, Cheltenham, 2018, 265)).

Il secondo è il sistema perfezionato in anni più recenti soprattutto in alcuni paesi dell’Asia orientale, come Cina, Sud-Corea, Taiwan e Singapore, e che si avvale dei big dataal fine di ricostruire i contatti stretti di un soggetto diagnosticato con una patologia trasmissibile come il Covid-19 ed eventualmente monitorare il loro stato di salute, controllare il rispetto delle misure di auto-isolamento, informare il pubblico in maniera anonima circa i luoghi frequentati e gli spostamenti dei soggetti positivi (per una prima introduzione v. G. Resta, La protezione dei dati personali nel diritto dell’emergenza COVID-19, in Giustizia Civile.com,Editoriale del 5 maggio 2020; L. Ferretti – C. Wymant et al., Quantifying SARS-CoV-2 transmission suggests epidemic control with digital contact tracing,in Science 10.1126/science.abb6936 (2020).

Se la questione del bilanciamento è riferita al tracciamento manuale, la risposta è più semplice. Benché sia indubbia una compressione del diritto alla protezione dei dati personali, nessuno dubiterebbe che una siffatta limitazione sia non soltanto legittima ma socialmente desiderabile. Il diritto alla protezione dei dati personali non è stato mai concepito in Europa come una sorta di diritto dominicale sulla propria sfera privata – come alcuni movimenti libertari e i fautori delle tesi di impronta giuseconomicistica più radicali vorrebbero suggerire – ma ha sempre ricevuto una configurazione a geometria variabile in funzione della natura dei dati coinvolti e delle finalità del trattamento. Quando ci si trovi in presenza di un trattamento mirato al perseguimento di finalità di sostanziale interesse pubblico, quale l’individuazione dei soggetti a rischio e il contrasto a una pandemia, la compressione della sfera individuale deve ritenersi in linea di principio fondata su un’idonea base giustificativa (ai sensi degli artt. 6 e 9 GDPR) e dunque legittima. In tal senso basti richiamare il chiaro dettato del considerando 46 GDPR, che attesta la liceità del trattamento mirato a “tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione”; nonché il considerando 112, che ammette a dirittura il trasferimento di dati all’estero ai sensi dell’art. 49 GDPR “in caso di ricerca di contatti per malattie contagiose”, come ha ben evidenziato l’EDPB nelle linee guida sul contact tracing e in quelle sulla ricerca scientifica nel contesto pandemico (Guidance 4/2020 on the use of location data and contact tracing tools in the context of the COVID-19 outbreak, 21-4-2020;Guidance n. 3/2020 on the processing of health data for the purpose of scientific research in the context of the Covid-19 outbreak). Ed ancora è in quest’ottica che si è orientato sin da principio il “diritto dell’emergenza Covid-19” e in particolare l’art. 14 del d.l. 14/2020, ora art. 17-bis del d.l. 18/2020 di recente convertito in legge, che ha ammesso entro ampi margini la comunicazione dei dati personali per finalità di contrasto alla pandemia (per i dettagli v.G. Resta, La protezione dei dati personali nel diritto dell’emergenza COVID-19, cit.; D. Poletti, Il trattamento dei dati inerenti alla salute nell’epoca della pandemia: cronaca dell’emergenza, in Persona e mercato, n. 2/2020, p. 31). Non potrebbe essere diversamente, perché il tipo di interferenze con la sfera personale delle quali discorriamo sono non soltanto limitate sul piano temporale e di contenuto, ma anche necessarie per il perseguimento dello scopo legittimo della tutela della salute. Dunque, siamo perfettamente all’interno del parametro di proporzionalità, la vera chiave di volta del sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali.

 

  1. Il tracciamento digitale: non soltanto un problema di ‘privacy’

Se invece il discorso si sposta sul tracciamento digitale, e non semplicemente sull’uso dell’automazione per rendere più rapido ed efficiente il processo tradizionale di intervista e identificazione dei contatti stretti da parte del personale sanitario (come nel caso del software Go.Data appositamente creato dall’Organizzazione mondiale della sanità, v. WHO,Digital tools for Covid-19 contact tracing,2 giugno 2020), la valutazione deve essere necessariamente più articolata.

È ben vero che le finalità del trattamento sono sempre quelle del contrasto alla pandemia e della tutela della salute e come tali esse non possono che ritenersi pienamente legittime sul piano degli obiettivi perseguiti. Ciò che muta, tuttavia, è la natura dello strumento utilizzato, il quale non soltanto implica una più ampia ed intensa interferenza con la sfera personale, sollevando le ben note questioni in tema di garanzia delle libertà individuali, ma soprattutto altera sul piano sistemico la natura stessa del contact tracing, che da relazione interpersonale fondata sul dialogo e la comprensione reciproca tra medico (intervistatore) e paziente si trasforma in un fenomeno governato parzialmente o esclusivamente – a seconda del tipo di architettura prescelta – dall’interazione asimmetrica tra uomo e macchina. Ne risultano sensibilmente modificati i termini generali del problema, che non possono essere ridotti esclusivamente alla questione del bilanciamento tra privacy e salute pubblica, ma debbono essere compresi alla luce del più ampio dibattito circa la crescente incidenza delle tecnologie sul modo in cui si assumono le decisioni pubbliche e sul modo in cui definiscono le relazioni intersoggettive (sia sufficiente sul punto un riferimento al pensiero di Stefano Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna, 1997; nonché volendo G. Resta, Governare l’innovazione tecnologica: decisioni algoritmiche, diritti digitali e principio di uguaglianza, in Pol. Dir., 2019, 199). Come tale, il passaggio da un sistema di tracciamento analogico ad uno incentrato sul tracciamento digitale di prossimità richiede di essere discusso con attenzione, guardandosi da preconcette posizioni ideologiche circa l’alternativa tra Stato e mercato o a favore o contro le tecnologie, bensì in maniera pragmatica, misurando con attenzione costi (non soltanto economici) e benefici attesi di una scelta che non è socialmente neutra (in termini generali v. l’argomentazione di B. Deffains – T. Perroud, L’arbitrage entre les bénéfices et les coûts semble avoir été omis ou n’a pas été rendu public, in Le Monde, 15 maggio 2020).

 

  1. Lusinghe (e false promesse) della tecnologia

Iniziamo col ricordare i principali benefici di un sistema di tracciamento digitale (quale che sia la sua architettura), in presenza di una patologia, che come è stato dimostrato da diversi studi scientifici, è trasmessa in ampia misura da parte di soggetti asintomatici: a) esso promette di supplire ai vuoti di memoria del soggetto interessato, che potrebbe non ricordare tutte le persone con le quali è entrato in contatto nel periodo epidemiologicamente rilevante; b) può portare ad emersione i contatti sconosciuti, con i quali la persona ha intrattenuto un rapporto a rischio, nel senso del superamento della soglia spaziale e temporale ritenuta sicura; c) abbatte i tempi di comunicazione con i contatti a rischio, supplendo peraltro al possibile divario linguistico (cosa che è particolarmente importante in contesti etnicamente e linguisticamente non omogenei), e dunque riduce il rischio di trasmissione del virus da parte degli asintomatici; d) può facilitare il follow up dei soggetti coinvolti da parte delle autorità sanitarie; e) è un sistema che, a regime, presenta minori oneri organizzativi – in termini finanziari e di risorse impiegate – rispetto alle tecniche tradizionali e segnatamente paper-based.

D’altra parte, per valutare i costi sociali del sistema in oggetto dovrebbe essere ben chiara l’architettura tecnologica prescelta, ed in primo luogo – ma non soltanto – lo spettro di informazioni oggetto di trattamento, le modalità della loro raccolta, la durata della loro conservazione, le possibilità di impiego diretto e secondario.

Ad esempio, rientra a tutti gli effetti nella nozione di ‘tracciamento digitale’ il sistema adottato in Sud-Corea a partire dal 2015, quando a seguito dell’esperienza maturata con l’epidemia MERS, si è provveduto a modificare l’Act on Infectious Diseases Prevention and Control. Si è quindi prevista, con i nuovi artt. 34 bis e 76 bis,la possibilità diaccedere – e poi divulgare in forma anonima per segnalare al pubblico gli spostamenti dei casi indice e i luoghi a maggior rischio di contagio – a una corposa mole di dati, quali i metadati di comunicazione, e in particolare i dati che permettono la geolocalizzazione dell’individuo, i dati relativi alle transazioni finanziarie, le immagini registrate dalle videocamere di sorveglianza, i dati desunti dalle cartelle cliniche.

Oppure può venire in considerazione uno strumento meno invasivo, quale quello, oggetto della nostra attenzione, del tracciamento di prossimità attraverso una app dedicata che funziona tramite la tecnologia Bluetooth e che conservi i dati sui contatti “qualificati” in modalità anonima e crittografata sul terminale locale (come nel caso di Immuni) oppure su una piattaforma pubblica (come nel caso della app francese StopCovid). Certamente si tratta di un’ipotesi meno problematica della prima, in quanto implica il trattamento di una porzione ben circoscritta di dati personali e non implica alcuna diffusione di tali dati neanche in forma aggregata (come invece si è visto trattando del caso sudcoreano).

Tuttavia, non soltanto essa non è priva sul piano empirico di limiti strutturali, e in primo la circostanza che il mero dato fenomenologico della “prossimità” non è un indice esatto della reale esposizione al rischio, poiché tale probabilità varia anche in funzione di altri parametri non registrati dal tracciamento di prossimità, come l’essere il contatto avvenuto in un luogo aperto o al chiuso, con o senza dispositivi di protezione, con o senza barriere fisiche tra i soggetti, etc. (sul punto WHO, Digital tools for Covid-19 contact tracing, 2 giugno 2020). Soprattutto, una sua valutazione definitiva non può prescindere dall’analisi di tutti gli elementi di contesto, ed in particolare dalla risposta a una serie di domande, che fermano l’attenzione su alcuni nodi cruciali dell’architettura in senso lato istituzionale dello strumento in oggetto: quale utilizzo si intende fare dei dati di contatto? Si immagina una valutazione algoritmica del rischio e l’invio di un alert automatizzato; o uno screening preventivo operato dalle autorità sanitarie? Con quali effetti, nel primo caso: un obbligo ‘automatico’ di quarantena sino all’effettuazione del test diagnostico? La quantità dei test disponibili è sufficiente per coprire il flusso atteso di segnali d’allarme inviati automaticamente dalla macchina? E quali sono le oggettive probabilità che lo strumento tecnologico si riveli davvero effettivo sul piano del contenimento della pandemia?

Tutte queste domande ruotano intorno a un problema di fondo: poiché ogni forma di raccolta, conservazione e trattamento dei dati personali è fonte di una compressione della libertà di autodeterminazione informativa degli individui, e poiché questa compressione è massima per intensità ed effetti quando si avvale delle tecnologie informatiche (in generale v. H. Cho – S. Ippolito et al., Contact Tracing Mobile Apps for COVID-19: Privacy Considerations and Related Trade-offs, https://arxiv.org/abs/2003.11511), ogni proposta di trattamento automatizzato dei dati necessita di una preventiva valutazione in termini di proporzionalità dell’ingerenza. Di più, introducendo un elemento di ‘spersonalizzazione’ nel processo di individuazione dei contatti, esso solleva il problema centrale di quali effetti possano essere ricondotti, e quale influenza empiricamente essa possa avere, al matching realizzato dall’algoritmo e al relativo segnale di allerta inviato dalla macchina.  Il tracciamento ‘digitale’ può quindi certamente perseguire scopi legittimi, al pari del tracciamento manuale, e può probabilmente risultare utile nel contrasto alla pandemia. Ciò non significa, tuttavia, che il decisore pubblico che ne proponga l’adozione debba andare esente dalla previa dimostrazione che l’ingerenza in discorso rappresenta uno strumento strettamente indispensabile per perseguire gli scopi legittimi di tutela della salute pubblica, sia assistito da garanzie adeguate e non ci siano alternative meno invasive per conseguire i medesimi obiettivi.

Detto altrimenti, mentre è certamente necessario dotarsi di un sistema efficace di tracciamento dei contatti, non possiamo essere certi che lo sviluppo di una applicazione per telefonia mobile – quale che sia la sua architettura: sia essa centralizzata (alla francese), decentralizzata (come Immuni) o mista (come nel modello di Singapore, su cui v. M. Findlay – N. Remolina, Regulating Personal Data Usage in Covid-19 Control Conditions, SMU Centre for AI & Data Governance Research Paper No. 2020/04) – rappresenti uno strumentoindispensabileper l’efficace contenimento della pandemia.

Come è ben noto, perché la app di tracciamento possa conseguire gli obiettivi per i quali è stata concepita, devono darsi due condizioni principali: 1) deve essere garantita la capacità di accedere con rapidità ai test diagnostici da parte dei soggetti identificati come contatti a rischio; 2) la app deve raggiungere una soglia di diffusione presso il pubblico che i primi studi hanno stimato intorno al 60% della popolazione (ma successivamente tale soglia è stata rivista al ribasso).

Ebbene, secondo alcuni calcoli effettuati in relazione alle app ad architettura decentralizzata, come Immuni, se si dovessero sottoporre a test tutti i soggetti ‘allertati’ dalla app in quanto potenziali contatti a rischio, il servizio sanitario dovrebbe essere in grado di effettuare e analizzare circa 400.000 tamponi al giorno, il che sembra andare al di là delle sue attuali possibilità (sul punto v. R. Luna, Gialli, rossi, verdi e adesso anche arancioni: la app Immuni spiegata bene, in Repubblica, 29 aprile 2020) e forse non è neanche raccomandabile sul piano dell’efficiente uso delle risorse, atteso che il tracciamento di prossimità, come si è osservato in precedenza, presenta il difetto di produrre un numero non marginale di falsi positivi, non potendo dare informazioni attendibili circa il contesto situazionale del contatto. D’altronde, se l’accesso al test non fosse disponibile per tutti, o lo fosse soltanto in caso di insorgenza di sintomi, conformemente alle indicazioni ministeriali, è ragionevole ipotizzare che, di fronte al timore di un isolamento fiduciario imposto soltanto in ragione dell’alert ricevuto ma senza poter conoscere le condizioni esterne del contatto (stante l’assoluto anonimato del caso indice), o persino temendo eventuali azioni di responsabilità da parte di potenziali soggetti contagiati (il possibile effetto della notifica di rischio in ordine alla valutazione della ‘colpa’ del soggetto agente ex art. 2043 c.c. è un tema sin qui ignorato dalla letteratura, ma che dovrebbe essere indagato con grande attenzione), molte persone siano indotte a non servirsi affatto della app medesima.

In altri termini, uno dei problemi principali che una app ad architettura decentralizzata può dare è che, mettendo sostanzialmente fuori gioco lo screening preventivo delle autorità sanitarie circa la reale esposizione a rischio e affidando l’individuazione dei contatti qualificati a un calcolo standardizzato effettuato dalla macchina sulla base di parametri di prossimità spazio-temporale prefissati ex ante (e necessariamente decontestualizzati),possono prodursi numerosi casi di falsi positivi e ciò potrebbe portare gli utenti, per le ragioni indicate poco sopra, a non contattare il proprio medico di medicina generale o a non servirsi affatto dell’applicazione. Né si potrebbe, ad avviso di chi scrive, incrinare il requisito della volontarietà e non obbligatorietà dell’applicazione, non soltanto sul piano dell’installazione, ma neanche su quello degli effetti, in quanto questo è un presupposto giuridico non rinunziabile di conformità dell’applicazione stessa al quadro del diritto europeo, come chiarito dalla Commissione, dall’European Data Protection Board, nonché dallo stesso art. 6 del d.l. 28/2020 (non mi convincono, sia detto per inciso, le posizioni volte a parificare l’adozione delle app di tracciamento all’ipotesi dei vaccini obbligatori, se non altro perché l’efficacia scientifica delle prime non è, a differenza dei secondi, ancora suffragata da alcun dato oggettivo).

E ciò conduce al secondo punto. Spero davvero di errare, ma nutro il timore che non ci si avvicinerà alla soglia critica attesa. Le esperienze di Singapore e dell’Australia – pur esaltate in una prima fase da molta letteratura – restituiscono un tasso di utilizzazione della app che si aggira tra il 20% e il 25% (G. Greenleaf – K. Kemp, Australia’s Covid Safe Experiment, Phase III: Legislation for Trust in Contact-Tracing, https://www.austlii.edu.au/au/journals/UNSWLRS/2020/24.pdf, p. 7; M. Zastrow, Coronavirus contact-tracing apps: can they slow the spread of COVID-19?, in Nature, 19 may 2020). In Australia peraltro, dove la app CovidSafe è stata lanciata dal Governo il 20 aprile 2020 come strumento essenziale per ritornare alla normalità, risulta che ad oggi soltanto 1 persona sia stata identificata come contatto a rischio tramite la suddetta applicazione (J. Taylor, How did the Covidsafe app go from being vital to almost irrelevant?, in The Guardian, 23 may 2020). Un dato analogo emerge dalle prime rilevazioni sondaggistiche, purtroppo ancora limitate al contesto nordamericano, circa la propensione degli individui all’utilizzazione dei dispositivi di tracciamento di prossimità (B. Zhang et al., Americans’ Perceptions of Privacy and Surveillance in the Covid-19 Pandemic, May 20, 2020, https://osf.io/9wz3y/). Non voglio qui addentrarmi nell’analisi della letteratura scientifica che spiega quali possono essere sono i fattori dissuasivi sul piano psicologico ed ideologico rispetto all’installazione e all’uso della app (per una prima introduzione G. Bell, We need mass surveillance to fight covid-19—but it doesn’t have to be creepy, https://www.technologyreview.com/2020/04/12/999186/covid-19-contact-tracing-surveillance-data-privacy-anonymity/).

Mi limito a ricordare che, anche ipotizzando una convinta adesione dei cittadini al modello del tracciamento di prossimità, una fascia importante della popolazione, come quella dei bambini, degli anziani, degli homeless, dei migranti irregolari e dei soggetti economicamente più fragili, rischia di essere a priori esclusa dallo schermo di protezione delle app di tracciamento perché attualmente non in grado, per ragioni d’età, di competenze o di disponibilità economiche, di accedere ad uno smartphone in grado di supportarne il funzionamento. E l’impossibilità pratica di avvalersi di un siffatto strumento, per ipotesi generalizzato nella popolazione, rischia sempre di dar vita a ulteriori fenomeni di discriminazione e esclusione sociale, come espressamente segnalato dall’Organizzazione mondiale della sanità (WHO, Digital tools for Covid-19 contact tracing, 2 giugno 2020, p. 4). Mi pare, dunque, che la app può risultare uno strumento utile, ma sarebbe assolutamente erroneo e controproducente presentarla come una scelta obbligata e indispensabile, invocando persino sottili forme di stigmatizzazione sociale verso chi non intenda farne uso, anche perché, molto semplicemente, non abbiamo ancora dati empiriciscientificamente suffragati che possano corroborare una siffatta tesi (WHO, Digital tools for Covid-19 contact tracing, 2 giugno 2020, p. 4; M. Zastrow, Coronavirus contact-tracing apps: can they slow the spread of COVID-19?, in Nature, 19 may 2020).

Ciò significa, sul piano della comunicazione pubblica, abbandonare i toni enfatici della ineluttibilità tecnologica e invece provare a spiegare, con pacatezza e con il beneficio del dubbio, che il ricorso ad uno strumento di questo tipo, circondato da tutte le cautele descritte nel dl 28/2020, può offrire un contributo modesto ma non irrilevante alla gestione delle procedure di tracciamento e al contrasto alla pandemia. In particolare, mi piacerebbe pensare a una comunicazione pubblica che presenti l’installazione della app come una sorta di destinazione solidaristica dei dati personali, modellata sull’archetipo del dono di organi e tessuti per trapianto. La cifra della solidarietà e non quella della efficienza, in altri termini, dovrebbe connotare, quale ideale marchio di qualità, qualsiasi app di tracciamento.

 

  1. Quello che il tracciamento digitale non può fare: la complementarietà con le altre misure di salute pubblica

Ciò sposta il discorso su un altro e forse più rilevante piano. Non soltanto dobbiamo guardarci dall’enfatizzare l’efficacia di uno strumento che ancora non ha ricevuto univoci riscontri empirici, ma soprattutto non dobbiamo rischiare di depotenziare – anche su un piano simbolico – gli investimenti in risorse umane e competenze del personale sanitario dedicato alle indagini epidemiologiche, all’identificazione e all’isolamento dei contatti (in generale si vedano in tal senso le meditate considerazioni di G. Giraud, Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19, in https://www.laciviltacattolica.it/quaderno/4075/). L’esperienza sperimentata sul campo dal nostro paese, con gli effetti drammatici che conosciamo, deve indurre ad un’analisi lucida dell’efficacia dell’azione amministrativa sin qui condotta e della diversa capacità organizzativa mostrata da paesi a noi vicini, come la Germania. Mi limito ad osservare – entrando però in un campo che fuoriesce dal raggio di competenza del giurista – che il Decreto del Ministero della Salute del 30 aprile 2020, nello stabilire i criteri per il monitoraggio del rischio sanitario connesso al passaggio dalla fase 1 alla fase 2A, auspica nell’interazione con le Regioni che per le attività di indagine epidemiologica, il tracciamento dei contatti, il monitoraggio dei quarantenati e l’esecuzione dei tamponi siano messe a disposizione almeno 1 persona ogni 10.000. Di contro, già il 25 marzo le autorità tedesche hanno stabilito la soglia di riferimento in 5 contact tracers ogni 20.000 abitanti, dunque più del doppio. Non soltanto. Se si passano ad analizzare i dati rilevanti a livello dei singoli Länder, i quali hanno competenza in materia, il divario con il nostro assetto organizzativo e di risorse umane si rivela altrettanto profondo. Nel Nord-Reno Vestfalia, il più popoloso dei Länder, la quantità di personale applicato al tracciamento, sin dal momento dello scoppio della pandemia, è all’incirca di 5 persone su 25.000 abitanti; nel Baden-Württemberg la quota si innalza a 5 persone ogni 18.000 abitanti; in Baviera, invece, essa scende a circa 5 persone ogni 33.000 abitanti (per questi dati v. A. Nardelli, Germany Has Shared The Details Of Its Coronavirus Contact Tracing Operation. The UK Won’t, in BuzzFeed.News, 9 maggio 2020). L’entità delle risorse umane impiegate in Germania per l’identificazione e l’isolamento dei contatti appare dunque sensibilmente maggiore. Possiamo soltanto auspicare che la drammatica situazione vissuta dal nostro paese in questo frangente e gli enormi costi umani ed economici che ne sono derivati servano a porre in atto una diversa e migliore organizzazione dell’assetto istituzionale per una prossima eventuale epidemia. L’esperienza della Sud Corea dovrebbe essere da questo punto di vista meritevole di considerazione. Colta impreparata di fronte allo scoppio della MERS nel 2015, la Sud Corea ha profondamente rivisto la normativa applicabile al sistema di contrasto e prevenzione delle malattie infettive, accentrando e coordinando in maniera più efficace le competenze gestionali, elevando la capacità di risposta sul piano diagnostico, disciplinando in maniera capillare l’accesso alle informazioni utili per il tracciamento dei contatti e per l’individuazione dei luoghi a maggior rischio di contagio (G. Lee, Legislative and Administrative Responses to Covid-19 Virus, 28 April 2020, https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3587595).

Non è irrilevante in conclusione ricordare, a tal riguardo, che diversi stati stranieri, dal Lussemburgo ad alcuni Stati americani, hanno sin qui evitato di partecipare alla corsa alla app, preferendo destinare le risorse finanziarie al potenziamento del sistema tradizionale di tracciamento. Non sono convinto che questa sia necessariamente una buona scelta, perché le tecnologie digitali possono, se ben congegnate, apportare un significativo contributo all’effettivo miglioramento del generale assetto organizzativo delle strutture sanitarie preposte al contenimento del rischio pandemico. Tuttavia, essa segnala un’esigenza di per sé importante, che è quella di pensare alle tecnologie digitali non già come sostitutive, bensì come complementari rispetto alla componente umana del sistema sanitario. Come si legge nel documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su Digital tools for Covid-19 contact tracingdel 2 giugno 2020, “[d]igital tools for contact tracing can only be effective when integrated into an existing public health system that includes health services personnel, testing services, and manual contact tracing infrastructure” (p. 1).Non a caso di “complementarietà” si parla espressamente nell’art. 6, c. 1, del d.l. 28/2020 e questa idea merita di essere sviluppata e valorizzata come paradigma generale di interazione tra uomo e macchina nell’epoca dell’intelligenza artificiale.

 

 

 

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