Il referendum svizzero sul canone radiotelevisivo: una conferma della centralità del servizio pubblico

Il 4 marzo 2018, i cittadini svizzeri hanno respinto con il 71,6% una richiesta referendaria che mirava all’abolizione del canone radiotelevisivo nazionale[1].In particolare, il quesito referendario mirava a modificare l’art. 93 della Costituzione federale[2], introducendo i commi 3-6, secondo i quali:

«3. La Confederazione mette periodicamente all’asta concessioni per la radio e la televisione.

  1. La Confederazione non sovvenziona alcuna emittente radiofonica o televisiva. Può remunerare la diffusione di comunicazioni ufficiali urgenti.
  2. La Confederazione o terzi da essa incaricati non possono riscuotere canoni.
  3. In tempo di pace la Confederazione non gestisce emittenti radiofoniche e televisive proprie».

Si prevedeva altresì che, alla data dell’entrata in vigore delle nuove norme, le concessioni con partecipazione al canone sarebbero state revocate senza indennizzo.

Agli svizzeri, in sintesi, si offriva un’opzione netta: il passaggio a un sistema dei media audiovisivi interamente fondato sul principio di concorrenza, senza possibilità per la Confederazione di sovvenzionare o di gestire emittenti radiotelevisive, se non in ipotesi del tutto marginali. Un’alternativa radicale, che avrebbe inciso in maniera profonda sul sistema mediatico e, di riflesso, sui processi di formazione dell’opinione pubblica in una democrazia caratterizzata dal pluralismo linguistico e dal ricorso sistematico a istituti di democrazia diretta.

Il risultato può sorprendere, anche per la onerosità dell’imposta su cui i cittadini elvetici erano chiamati a pronunciarsi; il canone in Svizzera ammonta a 451 franchi svizzeri annui, pari a circa 380 euro, anche se in prossimità della consultazione si è prevista per il 2019 una riduzione a 365 franchi.

Resta che i cittadini svizzeri, dopo un dibattito piuttosto approfondito e una notevole affluenza alle urne – ha votato circa il 54% degli aventi diritto – hanno a grande maggioranza ritenuto opportuno mantenere il ruolo primario della radiotelevisione pubblica nel sistema dei media audiovisivi.

Le ragioni di tale risultato vanno evidentemente ricercate nella radicalità del quesito – si tratta del primo caso in Europa in cui si chiede al corpo elettorale di decidere della permanenza stessa di una televisione pubblica nel sistema dei media – e nel peculiare contesto svizzero, ove le emittenti pubbliche hanno avuto un ruolo significativo nel preservare l’identità nazionale e il multilinguismo. Sarebbe, dunque, privo di senso trarre da tale consultazione referendaria valutazioni generali sullo stato di salute dei media pubblici in Europa; merita, comunque, di essere sottolineata la smentita di quella narrazione, diffusa in molti Paesi, secondo cui essi non sarebbero altro che “relitti del passato”, sopravvissuti nell’era digitale soprattutto in ragione della volontà dell’establishment politico di non perdere il controllo di un formidabile strumento di formazione del consenso.

Come si è accennato, l’oggetto del referendum era chiaro: era in gioco la sopravvivenza del servizio pubblico radiotelevisivo, considerato inter alia tra i più autorevoli e apprezzati nel panorama europeo.

Esso è esercitato dagli anni ‘30 dalla Società svizzera di radiotelevisione (SSR), un’associazione di diritto privato senza scopo di lucro che dispone di sette reti televisive e di diciassette reti radiofoniche che coprono le quattro regioni linguistiche e culturali svizzere e che è finanziata per circa il 75% dal canone.

La SSR opera sulla base della legge federale sulla radiotelevisione del 24 marzo 2006 e della concessione del Consiglio federale. Essa è organizzata come holding nazionale, dotata di quattro società regionali che trasmettono nelle quattro lingue ufficiali della Confederazione. I principali organi sociali sono l’Assemblea dei delegati, composta da membri nominati dalle società regionali, e il Consiglio di amministrazione, ove siedono i presidenti delle società regionali, tre componenti designati dall’Assemblea stessa e due nominati dal Consiglio federale. La gestione aziendale è affidata al direttore generale, nominato dall’Assemblea dei delegati. Nel complesso, le norme costituzionali, la legislazione e il modello di governance adottato hanno garantito un alto grado di indipendenza dal potere politico e di autonomia gestionale, specie nella scelta della programmazione.

L’approvazione della richiesta referendaria avrebbe inciso in modo drastico anche sul sistema dei media locali: avrebbe ridotto sensibilmente le entrate delle radio locali e delle televisioni regionali che adempiono un mandato di servizio pubblico, finanziate anch’esse in larga parte con i proventi del canone, le quali provvedono a garantire a tutte le regioni della Confederazione un’offerta equivalente, in particolare per quanto concerne l’informazione locale[3].

Nel complesso, era probabile che l’abolizione del canone avrebbe messo in crisi il sistema dell’audiovisivo in un paese di piccole dimensioni e con quattro lingue nazionali, ove gli aiuti di Stato sembrano indispensabili a garantire la presenza di media con una programmazione di alta qualità in ogni regione linguistica e, soprattutto, a promuovere la libera formazione delle opinioni e lo sviluppo culturale in modo indipendente da interessi economici, specie stranieri, in un contesto privo di un mercato pubblicitario interno abbastanza vasto.

In questo senso, gli oppositori alla riforma – e in particolare il Consiglio federale[4] – sottolineavano come il successo di tale iniziativa avrebbe indebolito drasticamente l’offerta delle emittenti con un mandato di servizio pubblico, non consentendo loro di adempiere la tradizionale funzione di coesione sociale e di scambio tra le regioni, le comunità linguistiche, le culture, le religioni e i gruppi sociali. Ed è probabile che, senza aiuti statali, si sarebbe drasticamente impoverito il panorama dei media nazionali e regionali e non vi sarebbe più stata una adeguata copertura nelle aree periferiche o in quelle delle lingue minoritarie.

Inoltre, si sottolineava da più parti come, in un’età nella quale la produzione audiovisiva – specie attraverso i nuovi media – spinge a una omologazione dei contenuti, il servizio pubblico potesse costituire un baluardo per la diffusione della cultura “popolare” nazionale, anche come finanziatore di film realizzati nel territorio svizzero.

Tra gli argomenti di discussione ve n’era uno strettamente connesso con il sistema costituzionale svizzero e in particolare con il largo utilizzo degli istituti di democrazia diretta.

Gli oppositori ritenevano che solo i media pubblici potessero garantire l’esistenza di un’informazione indipendente, pluralistica ed equivalente in tutte le regioni, essenziale per la formazione di una opinione pubblica consapevole, specie nei dibattiti che precedono le consultazioni referendarie.

Al contrario, dalle posizioni dei sostenitori del referendum e in particolare dell’Unione Democratica di Centro, il partito della destra “populista” elvetica, emergeva una generale diffidenza per il giornalismo professionale, finanziato direttamente o indirettamente dallo Stato, e la rivendicazione di un rapporto senza filtri con l’opinione pubblica[5].

In questo senso, l’esito elettorale può essere letto come la conferma in capo alla SSR di quel compito di collante della società, per gli svizzeri evidentemente ancora essenziale per mantenere un sistema fondato sulla democrazia diretta nell’era digitale[6].

Il risultato della consultazione può essere altresì considerato una risposta del corpo elettorale svizzero in controtendenza rispetto a un discorso pubblico che vede con sempre più sospetto l’intermediazione di soggetti professionali nel mercato delle idee e che invece tende a esaltare il legame diretto tra leader e massa, che si sviluppa principalmente attraverso la rete e, in particolare, i social media.

Proprio in questa prospettiva, si può forse trarre dalla vicenda svizzera qualche considerazione più generale sullo stato di salute del modello “duale” pubblico/privato che caratterizza la gran parte degli ordinamenti europei e sulla perdurante esigenza di un servizio pubblico nel mondo dei media audiovisivi.

Il fatto stesso che si sia promosso il referendum mostra come la presenza di un soggetto pubblico finanziato dallo Stato non sia più un postulato; condizioni per la sua legittimazione sono la fiducia dei cittadini e l’individuazione di una giustificazione per la sua peculiare posizione nel sistema dei media audiovisivi e per la sua sottrazione alle regole generali dell’attività di impresa e della concorrenza.

D’altra parte, l’esito così netto a favore del mantenimento del servizio pubblico induce, anche fuori dai confini della Confederazione, a dubitare dell’opportunità di procedere a una sua frettolosa e disinvolta liquidazione e semmai a riflettere sul fondamento costituzionale del servizio pubblico, in un panorama mediatico profondamente trasformato dallo sviluppo delle tecnologie digitali e delle piattaforme proprietarie a pagamento. E il caso svizzero mostra come tale fondamento sia da rinvenire in primis in una concezione della radiotelevisione pubblica quale agorà aperta – luogo ove rappresentare l’identità e il pluralismo culturale di una nazione – e quale “ponte”, luogo di confronto tra le differenti e sempre più polarizzate opzioni ideologiche presenti nelle società. In questa prospettiva, che ha come precondizione l’esistenza di media pubblici autonomi rispetto al potere politico ed economico, il servizio pubblico potrebbe assumere quel ruolo “istituzionale” di garanzia della democrazia dialogica, auspicato ancora di recente da organismi sovranazionali[7].

 

[1] Per un approfondimento, si rinvia al documento “Votazione popolare del 4 marzo 2018 Spiegazioni del Consiglio federale”.

[2] L’attuale testo dell’art. 93 della Costituzione svizzera, rubricato “Radiotelevisione” prevede che:

«1. La legislazione sulla radiotelevisione nonché su altre forme di telediffusione pubblica di produzioni e informazioni compete alla Confederazione.

  1. La radio e la televisione contribuiscono all’istruzione e allo sviluppo culturale, alla libera formazione delle opinioni e all’intrattenimento. Considerano le particolarità del Paese e i bisogni dei Cantoni. Presentano gli avvenimenti in modo corretto e riflettono adeguatamente la pluralità delle opinioni.
  2. L’indipendenza della radio e della televisione nonché l’autonomia nella concezione dei programmi sono garantite.
  3. Devono essere considerati la situazione e i compiti di altri mezzi di comunicazione sociale, soprattutto della stampa.
  4. I ricorsi in materia di programmi possono essere deferiti a un’autorità indipendente di ricorso».

[3] Dagli anni ‘90, una parte dei proventi del canone è distribuita anche a emittenti private con una concessione di servizio pubblico. Attualmente ne beneficiano 13 televisioni regionali e 21 radio locali.

[4] Per la posizione adottata dalla maggioranza del Consiglio federale, si veda la sintesi in https://www.uvek.admin.ch/uvek/it/home/datec/votazioni/iniziativa-no-billag/argumente-des-bundesrates.html.

[5] Ciò è criticamente evidenziato da P. Ruetschi, Se la Svizzera dice addio alla TV pubblica, in La Repubblica, 19 febbraio 2018, 25.

[6] K. Frick-J. Samochowiec-D. Gürtler, Public 4.0, L’avenir de la SSR à l’ère numérique, Zurigo, 2016, 53 ss.

[7] Si veda a ultimo la Raccomandazione CM/Rec(2018)1 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri del 7 marzo 2018 sul pluralismo e la trasparenza della proprietà dei media, ove si coglie una forte preoccupazione sugli effetti della c.d. “filter bubble” che discenderebbe dalle dinamiche dell’informazione in rete e, in questa prospettiva, si attribuisce allo Stato il compito di garantire «the crucial role of independent public service media organisations in fostering public debate, political pluralism and awareness of diverse opinions. States should accordingly guarantee adequate conditions for public service media to continue to play this role in the multimedia landscape, including by providing them with appropriate support for innovation and the development of digital strategies and new services» (punto 2.9 delle linee guida).

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