Il global take-down al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea

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Il 19 luglio 2017 il Consiglio di Stato francese, su sollecitazione del Rapporteur Publique, ha sollevato una questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea in merito all’applicazione del diritto alla de-indicizzazione, più comunemente noto come diritto all’oblio, così come delineato nella sentenza della stessa Corte europea del 13 maggio 2014 nel caso C-131/12 Google vs. Costeja Gonzáles.

Il caso nasce da un ricorso presentato da Google Inc. per l’annullamento di un provvedimento con cui la CNIL (Commission nationale de l’informatique et des libertés), il Garante francese per la protezione dei dati personali, ha emesso nei confronti della multinazionale americana una sanzione pecuniaria di 100 milioni di euro per non aver ottemperato all’ordine di rimuovere da tutti i nomi a dominio del motore di ricerca di Google i risultati relativi a notizie “da dimenticare” riguardanti un cittadino francese.

Nelle more dell’istruttoria avanti alla CNIL, Google aveva proposto, come soluzione alternativa al cd. de-listing globale, l’opzione di utilizzare la tecnica del geo-blocking, ovverosia bloccare l’accesso ai risultati incriminati attraverso l’individuazione dell’indirizzo IP di chi esegue la ricerca, ma la proposta veniva rigettata dal Garante francese in quanto giudicata insufficiente a salvaguardare pienamente il diritto all’oblio del soggetto interessato.

Nel ricorso avanti al Conseil d’état Google ha ribadito la sua posizione nettamente contraria al principio del global take-down, sostenendo che l’ordine della CNIL violerebbe i principi di cortesia e di non interferenza riconosciuti dal diritto internazionale e rappresenterebbe un intervento sproporzionato rispetto alle libertà di espressione, di informazione, di comunicazione e di stampa garantite dall’art.11 della Dichiarazione (francese) dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, dall’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Nel giudizio avanti il Conseil d’état si sono costituite anche alcune associazioni a tutela dei diritti civili, tra cui Wikimedia Foundation, Microsoft, Fondation pour la liberté de la presse, Reporters Committee for Freedom of the Press ed Internet Freedom Foundation, chiedendo l’annullamento del provvedimento della CNIL per violazione della libertà di espressione.

Le questioni pregiudiziali sollevate, per la precisione, sono tre.

Con la prima il Conseil d’état chiede alla CJEU di valutare se il diritto alla de-indicizzazione debba essere interpretato nel senso che il gestore di un motore di ricerca, a cui viene sottoposta una richiesta di take-down per violazione del diritto all’oblio, sia tenuto ad effettuare la cancellazione dei link oggetto di contestazione su tutti i nomi di dominio del motore, a prescindere dal luogo in cui viene lanciata la ricerca e dunque anche al di fuori dell’ambito territoriale (europeo) di applicazione della direttiva privacy 95/46/CE.

In caso di risposta negativa, il Consiglio chiede se il diritto alla de-indicizzazione debba essere interpretato nel senso che il gestore di un motore la ricerca a cui viene inoltrata una richiesta di cancellazione sia tenuto ad eliminare i link oggetto di contestazione solo sul nome a dominio corrispondente allo Stato nazionale in cui la domanda viene presentata o sui nomi di dominio di tutti gli Sati membri dell’Unione europea.

Chiede infine alla Corte di giudicare se il gestore di un motore di ricerca sia tenuto, a prescindere dal nome di dominio utilizzato dall’utente che esegue la ricerca, a rimuovere i risultati mediante la tecnica del geo-blocking, ovverosia impedendo l’accesso ai link oggetto di contestazione attraverso la localizzazione dell’indirizzo IP dell’utente che esegue la ricerca e se questa tecnica debba essere basata sulla provenienza nazionale oppure europea dell’IP.

Peter Fleischer, il global privacy counsel di Google, ha così commentato la remissione della questione pregiudiziale alla CJEU: “Since 2014, we’ve worked hard to implement the ‘right to be forgotten’ ruling thoughtfully and comprehensively in Europe. For the last 18 months, we’ve been defending the idea that each country should be able to balance freedom of expression and privacy in the way that it chooses, not in the way that another country chooses. We’re doing this because we want to ensure that people have access to content that is legal in their country. We look forward to making our case at the European Court of Justice”.

 Che Google abbia seriamente collaborato per rendere pienamente efficace la decisione del 2014 della Corte europea emerge chiaramente dal suo transparency report, aggiornato in tempo reale, da cui risulta che la policy di default adottata dal colosso di Mountain View è quella di eliminare gli URL incriminati da tutti i domini europei di Google Search nonché di utilizzare la geolocalizzazione per limitare l’accesso a tali URL da parte degli utenti del Paese della persona che richiede la rimozione.

La questione del global take-down è l’ultima in ordine di tempo di una serie di problematiche scaturite dalla sentenza Google vs. Costeja Gonzáles, a cui il Gruppo di lavoro Articolo 29 e le DPA nazionali hanno tentato di dare risposta elaborando ed applicando delle linee guida finalizzate a tracciare il perimetro entro cui regolamentare un diritto all’oblio enunciato in via di principio dalla CJEU ma tutt’affatto delineato de jure condito.

Il global take-down, tuttavia, rispetto ad altre questioni interpretative, apre scenari nuovi e decisamente più impattanti in termini giuridici, specie alla luce del nuovo Regolamento europeo sulla data protection che entrerà in vigore a maggio del prossimo anno.

Se, infatti, oggi la questione può essere sollevata – come in effetti è avvenuto – con riferimento ad un eccesso di competenza territoriale della direttiva privacy, il tema si porrà in termini assai diversi con il GDPR, il cui art.3, comma 2, sancisce il principio di extraterritorialità del diritto alla protezione dei dati personali, prevedendo l’applicabilità del Regolamento per i trattamenti di dati di interessati che si trovano in Europa anche qualora il titolare o il responsabile non siano  stabiliti nell’Unione.

Non solo.

Il nuovo Regolamento è profondamente innovativo anche in termini di bilanciamento di diritti.

Infatti, a differenza della direttiva 95/46/CE, l’art.17, comma 3, prevede espressamente che il diritto alla cancellazione (definito nel titolo della norma anche come diritto all’oblio, ma curiosamente indicato tra parentesi e virgolettato, quasi a suggellarne ufficialmente il carattere di diritto atipico) non si applichi qualora il trattamento sia necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione nonché, tra gli altri, per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca storica, di ricerca scientifica o statistici.

In un ipotetico bilanciamento effettuato nel prossimo futuro avremo, pertanto, su di un piatto della bilancia un diritto all’oblio, considerato in Europa un diritto fondamentale della persona tutelabile erga omnes a livello universale, e sull’altro una serie di diritti altrettanto fondamentali, o, per contro, interessi pubblici prettamente nazionali che, di fatto, verrebbero anch’essi applicati, in esito e per gli effetti del bilanciamento, oltre i confini europei.

Il principio di extraterritorialità previsto per la data protection finirebbe, dunque, per essere imposto anche con riferimento agli altri diritti ed interessi in gioco e si giungerebbe al paradosso per cui, per garantire la tutela del diritto all’oblio di un cittadino europeo, si andrebbero potenzialmente a ledere i diritti fondamentali (in particolare la libertà di espressione ed informazione) dei cittadini del resto del mondo.

Ora, anche senza voler ipotizzare scenari apocalittici in cui il de-listing globale potrebbe essere strumentalizzato da un qualsiasi Stato antidemocratico per imporre le sue leggi a tutti gli altri Paesi della terra, è comunque evidente come l’argomento sublimi l’annoso dilemma della contrapposizione tra la moderna globalizzazione generata da Internet ed il concetto illuministico di territorialità del diritto.

Un’anticipazione di quanto potrebbe accadere nel prossimo futuro lo possiamo concretamente testare con riferimento ad una recentissima pronuncia della Corte Suprema canadese che, in un caso di copyright infringement, ha ordinato a Google Inc. di rimuovere, in via cautelare, i contenuti giudicati illeciti da tutti i nomi a dominio del suo motore di ricerca.

Non potendo più perseguire vie legali in Canada, trattandosi di un ultimo grado di giudizio, lo scorso 24 luglio Google ha presentato un’ingiunzione alla Corte del Distretto del Nord California in cui sostiene che l’ordine canadese di rimozione globale di determinati risultati dal suo motore di ricerca violi la legge statunitense, in particolare il Primo Emendamento e pertanto ritiene di non dover ottemperare alla sentenza canadese.

Ecco servito il primo conflitto internazionale di giurisdizione in tema di global take-down!

 Il prof. Krishnamurthy, assistant director della Cyberlaw Clinic della Harvard Law School, in un’intervista a Wired, criticando la mossa di Google, ha sottolineato che: “The First Amendment is a shield, not a sword”.

Il problema è che, anche ammettendo che il Primo Emendamento sia solo uno scudo, lo scudo rischierebbe di essere del tutto inutile nell’ipotesi in cui la libertà di espressione degli americani venisse calibrata sulla scorta del diritto di un Paese terzo.

Ed il problema non è solo degli americani.

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