Il fattore tecnologico e le sue conseguenze

0

L’incidenza del “fattore tecnologico” sul costituzionalismo abbraccia una quantità di fenomeni, dalle comunicazioni digitali alle biotecnologie, destinati a modificare profondamente l’identità, l’autorappresentazione e la convivenza umana, con modalità a noi spesso tuttora ignote e a ritmi inusualmente accelerati.

I costituzionalisti italiani hanno cominciato ad occuparsene in riferimento all’interpretazione di singoli diritti costituzionalmente garantiti, fino a prospettare in qualche caso l’opportunità di adeguare i disposti che li riconoscano ad innovazioni tecnologiche intervenute. E’ una prospettiva che attiene al diritto costituzionale come scienza pratica, basata sulla conformazione di casi, o più latamente di situazioni giuridiche, alla luce di princìpi, istituti e  regole stabilite o desunte dal testo. Il suo campo di elezione è l’interpretazione, cui occorre ricorrere anche  quando si finisca col dimostrare l’insuscettibilità di quei princìpi, istituti e regole di contenere casi  o situazioni, con la conseguente prospettazione di mirate revisioni del testo.

Se il fattore tecnologico giustifica e giustificherà ancor più in futuro un largo impiego di tale prospettiva, molto più di rado le sue conseguenze sono state esaminate per  quel che possono significare per il costituzionalismo democratico, e con esso per il senso del lavoro dei costituzionalisti. Non parlo dei raccontini che illustrano l’ultima meraviglia tecnologica per ridicolizzare il vecchio mondo della sovranità degli Stati e delle Costituzioni. Parlo di tentativi che ci orientino sul serio in questa ricerca. La Relazione di Pasquale Costanzo ne è un esempio, riferito alle comunicazioni digitali.

Nell’invitare a un’approccio critico e riflessivo alle conseguenze del fenomeno sull’assetto dei rapporti fra diritti e poteri, pubblici e privati, Costanzo  ragiona, più che di estinzione, “di una ridefinizione della sovranità statale di fronte alla tecnologia globale di Rete” che veda lo Stato “come lo strumento per tutelare i diritti, secondo la visione propria del costituzionalismo” (21). La  prospettiva si fonda da un lato sull’incontestabile rilievo delle grandi trasformazioni che il costituzionalismo stesso ha conosciuto nel corso della sua storia, in particolare con “l’aggiornamento impresso dalla sovrapposizione del fattore democratico” (22), dall’altro sulla sua virtuale capacità di sganciarsi dalla sovranità statuale e di operare in funzione ‘correttiva’ non solo degli Stati ma anche su una globalizzazione basata sul Washington consensus (23).  Si tratterebbe in definitiva di “arrestare la divaricazione progressiva tra controllo politico e avanzamento tecnologico” e di “ribaltare il processo per cui gli svolgimenti della governance globale stanno affievolendo le strutture del government tradizionale” (27), in vista di un “costituzionalismo tecnologico” che sul piano istituzionale costringa i parlamenti a votare sull’impiego e lo sviluppo delle tecnologie in un dibattito continuo col ceto degli scienziati e sul piano dei diritti ponga le premesse di una nuova cittadinanza tecnologica in un quadro di “princìpi orientati alla razionalità globale” (28).

Nell’ambito di un Convegno intitolato  “Globalizzazione e costituzionalismo”, si trattava di ricercare l’elemento che qualifica la globalizzazione della nostra epoca da quelle a più riprese sviluppatesi nella storia, da ultimo con l’impero commerciale inglese di un secolo fa. E le ipotesi avanzate da Costanzo presuppongono, a mio avviso giustamente, che tale elemento consista nelle profonde trasformazioni delle dimensioni spaziali e insieme temporali della convivenza innescate  dalle innovazioni tecnologiche.

La sessione dedicata al tema, che  ha visto radunati autori di saggi significativi[1], ha approfondito in varie direzioni molti spunti presenti nella Relazione che qui non ho potuto riprendere. Enrico Albanesi, Oreste Pollicino e Franco Pizzetti si sono soffermati sulla questione della regolazione della rete. Albanesi ha ricordato che nella prossima Conferenza mondiale sulle telecomunicazioni internazionali dell’ITU, Agenzia specializzata delle Nazioni Unite, si discuterà la riforma del trattato del 1988 che regola le comunicazioni in rete. Vi ha visto un esempio dei conflitti economici e di principio fra le grandi società che gestiscono i servizi, contrari ad ogni modifica dell’assetto normativo vigente in nome dell’assoluta libertà di accesso e dei rischi di censure che ogni ulteriore regolazione comporterebbe, e gli operatori della rete e gestori delle infrastrutture, i quali mirano a sancire una condivisione di costi e profitti, come pure i conflitti fra le democrazie occidentali, favorevoli allo status quo, e gli Stati che vorrebbero fare dell’ITU un ente di regolazione dei contenuti. Al riguardo Albanesi ha comunque auspicato che la rete possa introdurre elementi di democratizzazione negli Stati autoritari. Pollicino ha aggiunto altri aspetti della questione della regolazione, quali la proposta di Regolamento della Commissione europea che estende ai residenti, e non ai soli cittadini europei, la disciplina del trattamento dei dati personali, e l’enforcement jurisdiction, distinta dalla perspective jurisdiction per il fatto di  radicare la giurisdizione del giudice nazionale sul fatto di fondarsi sull’effetto, anziché sulla fonte, della regolazione nell’ambito del territorio nazionale. Egli ha citato al riguardo la posizione della Corte Suprema americana e il caso Google c. Vivi Down del Tribunale di Milano dell’ottobre 2010, con cui i rappresentanti della Google in Italia sono stati condannati per aver violato le disposizioni della normativa sul trattamento dei dati personali del 1996 col fine di trarre profitto dalla pubblicazione (protratta per alcuni mesi) sul video di un filmato di alcuni studenti di una scuola che offendeva la dignità di un loro compagno disabile.   Sulla sentenza si è soffermato anche Pizzetti, che dopo aver ricordato alcuni elementi che dimostrano la complessità del caso, fra cui la circostanza che l’adempimento della richiesta della polizia postale italiana alla Google di rimuovere  il filmato ha avuto seguito in Irlanda, ha posto l’interrogativo circa l’individuazione della responsabilità penale in capo a Google, che è strumento di comunicazione e non autore del reato. Quanto poi alla questione della regolazione della rete e alle possibili soluzioni della Conferenza di Dubai, egli ha osservato che chi gestisce i dati sulla rete non può distinguere il valore della comunicazione, cioè quanto costa e quanta pubblicità può dare, mentre è certa l’esiguità dei guadagni dei gestori delle infrastrutture. D’altra parte la questione della regolazione chiama in causa il ruolo degli Stati per almeno due aspetti fondamentali. In replica ad Albanesi, Pizzetti ha posto l’accento sulla possibilità degli Stati autoritari di sfruttare la rete a propri fini, e si è per altro verso chiesto se l’approccio libertario alla regolazione non finisca col favorire le grandi società, non solo dal punto di vista economico, ma anche per quanto riguarda i contenuti. Egli ha paventato il rischio di un’agenda della opinione pubblica sovranazionale  orientata da queste società, che danneggerebbe irreversibilmente le chances di formazione di un diritto costituzionale sovranazionale.

Il dibattito si è poi spostato dalla regolazione della rete in quanto tale alle trasformazioni che grazie alla rete si sono già prodotte e si stanno producendo in ambiti cruciali della convivenza e delle istituzioni. In particolare, Astrid Zei ha attirato l’attenzione sulle frequenti ipotesi di norme private

transnazionali di settore affidate ad esperti, consistenti in standard che acquistano un’autorevolezza in ragione del loro carattere persuasivo, e a cui si conferisce poi in sede nazionale valore giuridico con legge, con una presunzione di conformità di certi comportamenti a standard di fatto elaborati da privati. A parte i controlli giurisdizionali, il problema è quello di creare regole sull’organizzazione della standardizzazione in linea con i princìpi democratici: in alcuni casi, come quello  della direttiva europea sugli imballaggi, la presunzione di democraticità è raggiunta attraverso la proceduralizzazione dei processi decisionali (partecipazione alle decisioni dei sindacati e dei datori di lavoro del settore). Giuseppe Di Gaspare ha preso le mosse dalla crasi spazio-temporale nei processi della comunicazione per soffermarsi sulla creazione nei mercati finanziari di nuove realtà o eventi che acquistano con la telematica un valore simbolico riconosciuto. Con i prodotti finanziari derivati, la comunicazione non ha più a che vedere con la realtà, ma con un virtuale che acquista valore perché sta nella rete, come gli algoritmi che determinano i criteri di andamento della domanda e dell’offerta. Ci sfuggono le modalità giuridiche della strutturazione dei mercati finanziari, che sono tutt’altro che deregolamentati. Da un altro punto di vista, anche Sergio Niger ha notato il carattere performativo di eventi che caratterizza la rete, ponendola a raffronto con  strumenti di comunicazione come la radio e la televisione cui viene frequentemente associata, ma che dalla rete si differenziano per il fatto di informare su eventi reali. Pertanto, sarebbe la rete a determinare una radicale discontinuità col passato.  Fulvio Costantino ha a sua volta fatto notare che la rete tende a unificare le amministrazioni degli enti territoriali al di là delle ripartizioni costituzionalmente previste, e a privilegiare conseguentemente il momento dell’efficienza a scapito delle garanzie. Peraltro la trasparenza dei comportamenti e degli atti amministrativi realizzabile grazie alla rete si può intendere diversamente se in essa si incorporano forme di controllo, partecipazione e collaborazione dei cittadini, e si adottano misure per contrastare il digital divide.  Emanuele Rossi si è chiesto quanto la rete, di fronte all’erosione della classica distinzione delle forme della democrazia  in rappresentativa e diretta, possa consentire nuove modalità di esercizio dei diritti politici, a partire dalla partecipazione alla vita interna dei partiti.

Infine il dibattito ha visto emergere voci decisamente più critiche in ordine alle conseguenze del fattore tecnologico sulla convivenza e sulla democrazia. Paola Marsocci  ha evidenziato i pericoli connessi con la creazione di realtà puramente artificiali, più che virtuali, attraverso la rete, e il connesso auspicio di una regolamentazione dal punto di vista del costituzonalismo democratico. Secondo Adriana Ciancio, i miti della digitalizzazione e della convergenza non aumentano gli spazi del pluralismo delle formazioni sociali, ed anzi Internet è veicolo di messaggi di odio sociale e negazionistici. E Carlo Amirante, dopo aver invitato a distinguere l’homo oeconomicus e l’homo politicus dall’homo tecnologicus, ha ricordato che il diritto costituzionale ha a che fare col dover essere e non con l’essere.

Se pensiamo al quadro tracciato dieci anni fa da Lawrence Lessig, secondo cui la digitalizzazione, abbattendo i costi di distribuzione e di produzione, avrebbe fatto cadere le barriere alla creatività[2],  il dibattito ha fatto registrare un orientamento mediamente più pessimistico. Ma soprattutto è emersa la comune consapevolezza della discrasia fra la notevole portata delle  innovazioni tecnologiche sulla convivenza, e dunque anche sul nostro lavoro di costituzionalisti, e la possibilità di  coglierne i contorni effettivi. Giuoca sicuramente il fatto che i ritmi di quelle innovazioni sfuggono a quanti non siano depositari di saperi estremamente specialistici. Ma  da noi il cammino degli apprendimenti che si richiederebbero al riguardo mi pare ostacolato da fattori ulteriori. Mi riferisco ad alcuni strati profondi della cultura, anche giuridica. Quanto ha contato, nel lungo periodo, il divorzio tra filosofia e scienza sancito un secolo fa con l’ostracismo di Croce e Gentile nei confronti di Enriques e di altri scienziati al Congresso di Filosofia di Bologna del 1911, e proseguito con una conforme organizzazione degli studi scolastici dal Ministro Gentile[3]? E’ significativo che, in uno studio sulla cultura giuridica del Novecento, da un lato si osservi che i giuristi rimasero impermeabili alla svalutazione crociana del diritto[4], e dall’altro che alla fine degli anni Sessanta furono investiti in pieno dal rinnovamento della cultura dopo l’isolamento idealistico e storicistico in cui era stata tenuta da Croce e Gentile[5].

Si dirà che l’incertezza provocata dalle trasformazioni tecnologiche non ha tanto a che vedere con il carattere reversibile, dinamico e aperto al cambiamento delle imprese scientifiche, quanto con più radicali dubbi sull’esistenza, sulla nostra collocazione nel mondo.   Ma si può per contro ipotizzare che, in un ambiente già poco allenato a cogliere le implicazioni delle trasformazioni scientifiche del Novecento sulla convivenza e sulla scienza giuridica, abbia  potuto far presa a maggior ragione il filone di pensiero, da Severino e Irti fino  a Heidegger e prima ancora a Nietzsche, che nel dominio della tecnica individua la chiave di lettura del nostro tempo.

E’ in particolare Natalino Irti a farsi interprete di questo passaggio quando scrive che “il diritto, vissuto per lunghi secoli entro i confini degli Stati, si trova stupito e smarrito” di fronte a una “tecno-economia” che “presenta un carattere, che è inatteso e nuovissimo nella storia dell’uomo. Potrebbe chiamarsi la spazialità, il suo espandersi e dilagare senza alcun termine, la sua s-confinatezza. La rete telematica, priva di luoghi e di ancoraggi geografici, ne è il simbolo più sicuro e compiuto. Mentre la potenza politico-giuridica si tiene ancora entro la confinatezza, e parla e agisce nel linguaggio della territorialità, la tecno-economia distende sul globo il proprio spazio”[6]. In altre e meno meditate versioni di quella linea di pensiero, l’epoca perde l’innocente predicato di  “contemporanea”,  e assume quello di “postmoderna”, termine carico di polemica col passato, e che rinuncia a designare presente e futuro: e la rinuncia non coinvolge tanto la idea di un progresso unilineare della storia umana, quanto le possibilità e speranze di apprendimento legate alle imprese scientifiche. Né stupisce che, nelle formulazioni più divulgative e più fortunate, il discorso postmoderno presenti una leggerezza d’impianto e contenuti alla fine coincidenti con gli ignari autori dei raccontini sulla fine dello Stato e del diritto costituzionale, inesorabilmente avvinti l’uno all’altro.  Neanche questa coincidenza, del resto,  è del tutto nuova, se mezzo secolo fa Umberto Eco criticava tanto gli apologeti dei mass-media, per l’assunto di una moltiplicazione di per sé buona dei prodotti dell’industria, quanto gli “apocalittico-aristocratici”, per i quali l’accumulazione di informazioni  mediatiche non poteva in nessun caso risolversi in formazione, manifestando così “una concezione alquanto pessimistica della natura umana”[7].

Non a caso Costanzo utilizza la vecchia formula di Eco per dire che l’attenzione di apocalittici e integrati si è scatenata sull’ipotesi per cui l’evoluzione biologica dall’homo sapiens all’homo technologicus andrebbe di pari passo con quella delle tecnoscienze.  Ipotesi che a me pare temeraria, più che coraggiosa. Se così fosse, tutto sarebbe più facile, almeno per i “nativi digitali”. Invece non sembra che sia così, perché a loro volta, e per fortuna, costoro debbono confrontarsi con apprendimenti che si sono tradotti in regole e istituti che non è facile cambiare nonostante il fattore tecnologico.  Penso alle modalità di esercizio del voto, o alla divisione territoriale del mondo in Stati.

Già nel 1928 Carl Schmitt aveva ipotizzato

“che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa, ma una prova del fatto che Stato e pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di opinioni private”[8].

Non è necessario seguire Schmitt nella sua polemica contro il principio di segretezza del voto, visto come il primo passo di quella trasformazione del citoyen in un uomo privato, che fuori della sfera del privato…manifesta un’opinione privata e dà il suo voto”, e di cui la comparsa di quelle “ingegnose invenzioni” avrebbe segnato il compimento. La sua ipotesi ci interessa perché consente di notare che, nonostante sia da tempo tecnicamente possibile far votare gli elettori dalle postazioni elettroniche site nelle loro abitazioni, una simile possibilità non è sfruttata. Finora è stata utilizzata in Estonia per le elezioni politiche del 2011, nelle quali solo il 24,3% degli elettori ha scelto di ricorrere al voto per via digitale, mentre il 22 ottobre scorso gli islandesi, con una maggioranza  dell’oltre 60%, ha approvato con un referendum via web una bozza di Costituzione, il cui testo definitivo sarà approvato allo stesso modo.  Come mai il voto digitale ha fatto una prima comparsa in piccoli Stati, nonostante sia da tempo a disposizione?  Non si tratta di arretratezza culturale. E’ perché mancano sufficienti garanzie dalle manipolazioni[9], con rischi seri per i princìpi di segretezza e libertà del voto. E fino a quando qualcuno non proverà di aver trovato tali garanzie, per votare continueremo a dover prendere il certificato elettorale, andare al seggio e depositare la scheda nell’urna, come facevano i nostri nonni, in alcuni Paesi i nostri antenati.

Lo stesso si può dire per la divisione del mondo su base territoriale, e quindi in Stati. All’indomani della II guerra mondiale la comunità internazionale la confermò anche per reagire alla teoria nazista del diritto internazionale, che aveva immaginato una divisione del mondo in popoli, ossia una divisione etnica[10]. E dolorose vicende successive ammoniscono che il pericolo è sempre in agguato. Naturalmente anche la divisione per Stati ha i suoi costi, compresa la rivendicazione, anche nell’Europa del nostro tempo, di una legittimazione di collettività politiche di minima dimensione ad ergersi in Stati per ragioni non proprio commendevoli. Ma gli apprendimenti del passato consigliano alla comunità internazionale di attenersi a questo criterio, anziché rischiare di passare da Leviathan a Behemoth. Così, per quanto siano continuamente aggirate, non soltanto dalla comunicazione elettronica, le frontiere restano in piedi come l’ultimo bastione dell’ordine westfaliano, senza contare che il loro significato cambia completamente a seconda della condizione umana: sempre più insignificanti per molti, ma sempre più fonte di speranza, o di disperazione, per i migranti e per i rifugiati.

Sono solo due esempi per dire che anche i nativi digitali  impareranno a capire che il mondo virtuale va combinato col reale secondo variabili impredicibili. A conferma della tesi di René-Jean Dupuy, che respinge le profezie di un trionfo dei mercati globali sugli Stati osservando che l’avvento di un modello di società si è sempre combinato col precedente senza sopprimerlo, in una tensione dialettica che diversamente da quella hegeliana rimane aperta, grazie alla libertà e all’imprevedibilità degli esseri umani[11].  Nella stessa direzione, Andrew Gamble accomuna gli scritti sulla “fine”, che pure oscillano dal più sfrenato ottimismo al più cupo pessimismo, per la convinzione che il nostro destino sia già definito da forze che si trovano fuori di noi, e poi nega con buoni argomenti che la sfera politica tenderà a scomparire[12].

La domanda su cosa passa, e cosa rimane, del diritto costituzionale che abbiamo conosciuto andrebbe ambientata in questa prospettiva, e poi declinata in modo da non perdere di vista la possibilità di leggere con le lenti dei princìpi le trasformazioni tecnologiche e i poderosi mutamenti delle forme statuali di convivenza.

E’ vero che, quando l’incertezza di riferimenti anche giuridici supera una certa soglia, diventa quasi inevitabile chiederci prima di tutto che cosa potrebbe accadere. Come potrà evolvere, o potrà ancora evolvere, il diritto d’autore al tempo di Internet? La rete assicurerà più eguaglianza o meno eguaglianza? Reggerà  l’Unione europea alle enormi sfide che ha davanti? Ci sarà una risposta alle agenzie di rating che minacciano di togliere la tripla A al fondo salva-Stati? Quale sarà la reazione della Corte costituzionale a questa o a quella sentenza della Corte di Strasburgo o del Lussemburgo, o viceversa?

Sono domande inevitabili, eppure con l’incertezza dobbiamo imparare a convivere. L’importante è non cedere alla tentazione del predittivo come approccio risolutivo, se non esclusivo. Dopotutto  non siamo dei profeti, e abbiamo casomai qualche buona ragione per non buttare via la bussola dei princìpi prima che si dimostri inutilizzabile. Non a caso, dopo aver ricordato le tante trasformazioni con le quali si è intrecciato, Costanzo ragiona di un “fattore del costituzionalismo” nelle trasformazioni in corso, più che di un “fattore tecnologico” rispetto al costituzionalismo. Questo rovesciamento si giustifica grazie alle virtù trasformative che i princìpi di convivenza hanno mostrato di possedere in fasi di grande turbolenza. Non pare opportuno dimenticarlo proprio oggi.


[1] Cfr. G.Camera e O.Pollicino, La legge è uguale per tutti, anche sul Web. Dietro le quinte del caso Google v. Vivi Down, Egea, Milano, 2010; F.Costantino, Autonomia dell’amministrazione e innovazione digitale, Jovene, Napoli, 2012; G. Di Gaspare, Teoria e critica della globalizzazione finanziaria. Dinamiche del potere finanziario e crisi sistemiche, Cedam, Padova, 2011; P.Marsocci, Poteri e pubblicità. Per una teoria giuridica della comunicazione istituzionale, Cedam, Padova, 2002; A.Zei, Tecnica e diritto tra pubblico e privato, Giuffrè, Milano, 2008.

[2] L.Lessig, The Future of Ideas. The Fate of the Commons in a Connected World, Random House, New York, 2001, 7.

[3] Fra i molti, W.Buettemeyer, Per una valutazione della “rinascita” della filosofia della scienza in Italia, in La scienza tra filosofia e storia in Italia nel Novecento. Atti del Congresso Internazionale. Varese, 24-25-26 ottobre 1985, a cura di F.Minazzi e L.Zanzi, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1987, 103 ss.

[4] L.Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1996, 13-14. In senso contrario, v. almeno A.De Gennaro, Crocianesimo e cultura giuridica italiana, Giuffrè, Milano, 1974, 200 ss., e di recente C.Nitsch, Il giudice e la legge. Consolidamento e crisi di un paradigma nella cultura giuridica italiana del primo Novecento, Giuffrè, Milano, 2012, 1 ss.

[5] L.Ferrajoli, La cultura giuridica, cit., 63-64.

[6] N.Irti, Il diritto nell’età della tecnica,  Editoriale Scientifica, Napoli, 2007, 19.

[7] U.Eco, Apocalittici e integrati (1964), Bompiani, Milano, 2008, 42.

[8]C.Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Milano 1984, 322.

[9] V. da ultimo M.Magrini, I tranelli del voto digitale, in Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2012.

[10] F.Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo (1942), Milano, Feltrinelli, 1977, 164.

[11] R.-J.Dupuy, Le dédoublement du monde, in Rev.gen.dr.int.pub., 1996, 319.

[12] A.Gamble, Fine della politica?, il Mulino, Bologna, 2002, 100.

Share this article!
Share.

About Author

Leave A Reply