Il Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione sulle competenze dell’AGCM, AGCOM e delle singole Autorità di settore

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 9616 del 2010, proposto da:

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Wind Telecomunicazioni Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Piero Fattori, Antonio Lirosi, Alessandro Costantino, con domicilio eletto presso Partners Gianni, Origoni, Grippo & in Roma, via delle Quattro Fontane, 20;

sul ricorso numero di registro generale 9768 del 2010, proposto da:
Wind Telecomunicazioni S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Piero Fattori, Antonio Lirosi, Alessandro Costantino, con domicilio eletto presso Partners Gianni,Origoni,Grippo & in Roma, via delle Quattro Fontane 20;

contro

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Vittorio Di Trapani;

per la riforma

quanto al ricorso n. 9616 del 2010:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma- Sezione I, n. 14856/2010, resa tra le parti, concernente SANZIONE AMMINISTRATIVA PECUNIARIA PER PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA

quanto al ricorso n. 9768 del 2010:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma- Sezione I n. 14856/2010, resa tra le parti, concernente SANZIONE AMMINISTRATIVA PECUNIARIA PER PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Wind Telecomunicazioni Spa e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 novembre 2011 il Cons. Roberto Garofoli e uditi per le parti l’avvocato dello Stato De Stefano e l’avvocato Lirosi;

FATTO

Con sentenza n. 14856 del 2010, il T.A.R. Lazio ha accolto in parte il ricorso con cui la WIND TELECOMUNICAZIONI S.p.a. (d’ora in avanti WIND) ha impugnato il provvedimento n. 20302 del 16 settembre 2009, con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti AGCM o Autorità) ha qualificato come pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 20, comma 2, 24 e 25, lett. d), d. lgs. 206/2005, come modificato dal d. lgs 146/2007 (Codice del consumo), la procedura predisposta ed utilizzata dalla stessa WIND per consentire ai consumatori di conseguire la restituzione del credito residuo in caso di recesso, vietandone l’ulteriore diffusione e comminando una sanzione amministrativa pecuniaria pari ad € 95.000.

Come ricostruito in fatto dal giudice di primo grado, il 20 aprile 2009 l’Autorità, nell’avviare il procedimento (PS2911) a carico della WIND, rilevava che:

a) il mancato riconoscimento del credito residuo sulle schede Sim dopo la loro disattivazione (ossia a seguito dell’esercizio del diritto di recesso), anche ove i consumatori avessero rispettato la procedura prevista dalla società per la richiesta di rimborso,

b) l’imposizione di una procedura di rimborso del credito onerosa (costo di € 6) e farraginosa (invio di una raccomandata),

c) la mancanza di adeguata informativa al cliente sui tempi entro i quali la richiesta di rimborso sarebbe stata evasa dalla società,

potessero essere considerate pratiche commerciali ingannevoli (a e c), ed aggressive (b) alla luce degli artt. 20, 21, 22, 24 e 25, lett. d), del Codice del consumo, in quanto contrarie alla diligenza professionale ed idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione all’esercizio del diritto di recesso.

La stessa Autorità richiamava, al riguardo, l’art. 1, comma 1, l. 2 aprile 2007, n. 40 (conversione del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7), nonché le delibere dell’AGCom nn. 416/07/Cons e 353/08/Cons, che garantiscono il diritto dei consumatori a conservare la disponibilità del credito residuo, vietando la previsione di termini temporali massimi di utilizzo del traffico o del servizio acquistato, ed imponendo agli operatori una serie di attività necessarie per far effettivamente conseguire all’utente la relativa utilità, e ciò anche al fine di garantire la possibilità di trasferire il servizio di telefonia mobile in modalità prepagata ad altro operatore senza decurtazioni economiche ingiustificate.

Nel corso del procedimento, la società provvedeva a ridurre a cinque giorni lavorativi i tempi di evasione delle richieste di trasferimento del credito “Sim to Sim” e da trenta a venti giorni i tempi di evasione delle richieste di restituzione del credito.

L’AGCM, formulata richiesta di parere all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ex art. 27, comma 6, del Codice del consumo (che tuttavia non lo rendeva nel prescritto termine di trenta giorni), con il provvedimento impugnato in primo grado:

• ha ritenuto che la società, in violazione del dovere di diligenza professionale, pur consapevole della novità connessa alla facoltà dell’utente di salvaguardare il credito telefonico maturato con il precedente operatore, non avesse tenuto (quanto meno dal giugno 2008 all’aprile 2009) condotte idonee a consentire all’utente stesso un agevole riconoscimento del credito, attesi gli effetti defatiganti della procedura predisposta, che avrebbe indotto i consumatori ad accelerare la fruizione del credito ancora in godimento presso l’operatore di provenienza, anziché ad esercitare una facoltà prevista da un’apposita previsione normativa, ovvero il recupero del credito dopo la migrazione;

• ha in specie qualificato come pratica commerciale scorretta ed aggressiva ai sensi degli artt. 20, comma 2, 24 e 25, lett. d), del Codice del consumo, la mancata predisposizione ad opera della società di un’agile ed informale procedura di richiesta di rimborso del credito residuo, considerandola contraria alla diligenza professionale;

• ha irrogato alla società la sanzione di € 95.000.

Nel definire il ricorso di primo grado, il T.A.R. Lazio:

1. ha disatteso la censura con cui WIND, nel dedurre l’incompetenza di AGCM ad esercitare il potere di accertamento della liceità di pratiche commerciali nella materia, ha sostenuto che la stessa appartenga in via sostanzialmente esclusiva all’AGCom, attesa la sussistenza della disciplina speciale dettata dal Codice delle comunicazioni elettroniche;

2. ha respinto le censure volte a contestare le valutazioni di scorrettezza ed aggressività della procedura predisposta da WIND per la richiesta di rimborso del credito residuo;

3. ha, invece, in parte accolto le censure con cui in primo grado è stata dedotta l’erronea quantificazione della sanzione.

Avverso la sentenza insorgono, con due distinti appelli, l’AGCM quanto al capo recante parziale accoglimento delle censure relative alla quantificazione della sanzione e WIND relativamente ai capi con cui sono stati disattese le doglianze riguardanti l’assunta incompetenza dell’AGCM, l’erronea valutazione di aggressività della condotta tenuta da WIND, l’insussistenza dell’elemento soggettivo della colpevolezza.

Alla camera di consiglio dell’8 novembre 2011, la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Gli appelli vanno preliminarmente riuniti attesa l’identità della sentenza gravata.

2. E’ necessario prendere le mosse dall’appello proposto da WIND, con cui si deduce l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha disatteso le censure riguardanti:

• l’assunta incompetenza dell’AGCM ad esercitare il potere di accertamento della liceità di pratiche commerciali nella materia;

• l’erronea valutazione di aggressività della condotta tenuta da WIND;

• l’insussistenza dell’elemento soggettivo della colpevolezza..

3. In particolare, quanto al primo motivo dell’appello proposto da WIND, il Collegio, in linea con quanto già disposto dalla Sezione con ordinanze nn. 5522, 5523 e 5526 del 2011, alle cui motivazioni rinvia, ritiene che, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., sussistano circostanze tali da rendere opportuna la rimessione del ricorso all’Adunanza Plenaria.

3.1. Giova considerare che un delicato problema di delimitazione delle competenze rispettivamente proprie delle singole Autorità di settore, da un lato, e dell’Autorità trasversale della concorrenza e del mercato, dall’altro, si è registrato a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 2 agosto 2007, n. 146, di attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, che, sostituendo gli artt. da 18 a 27, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), ha individuato l’AGCM quale autorità competente per l’applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette.

La nuova disciplina riguarda le pratiche commerciali tra professionisti e consumatori, intese come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori“; impone ai professionisti obblighi di completezza e non ingannevolezza nelle informazioni fornite ai consumatori e di piena correttezza delle condotte poste in essere nei loro confronti.

L’art. 27, comma 1, del Codice del consumo (come sostituito dall’art. 1, comma 1, del richiamato d.lgs. n. 146 del 2007), dedicato alla tutela amministrativa e giurisdizionale, individua l’Autorità garante della concorrenza e del mercato quale autorità competente all’applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette; dispone, in specie, che “l’Autorità garante della concorrenza e del mercato […] esercita le attribuzioni disciplinate dal presente articolo […], vale a dire: inibisce la continuazione delle pratiche commerciali scorrette e ne elimina gli effetti; dispone la sospensione provvisoria delle pratiche commerciali scorrette, anche richiedendo informazioni; dispone che il professionista provi l’esattezza dei dati di fatto connessi alla pratica commerciale; vieta la diffusione o la continuazione della pratica commerciale scorretta, anche con opportuni mezzi di pubblicità; dispone l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive”.

Si è posta la questione – ormai ripetutamente esaminata dalla giurisprudenza amministrativa – relativa ai rapporti tra la disciplina generale di cui al Codice del consumo e le discipline di settore che possono incidere su aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette.

In specie, il problema si è posto con riguardo:

• al settore dei servizi finanziari, in relazione al quale è venuta in rilievo la necessità di definire gli ambiti di competenza rispettivamente propri dell’AGCM e della CONSOB (in tema, Cons. St., sez. I, parere 3 dicembre 2008, n. 3999);

• al settore del credito, con conseguente necessità di delimitare le competenze dell’AGCM e della Banca d’Italia (al riguardo, Cons. St., sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763);

• al settore delle comunicazioni, ponendosi l’esigenza di regolare i rapporti tra le competenze riconosciute all’AGCM e quelle proprie dell’AGcom (su cui, Con. St., sez. VI, ord. nn. 5522, 5523 e 5526 del 2011, con le quali la questione è stata rimessa al vaglio dell’Adunanza plenaria).

Appare opportuno osservare che la questione non attiene certo alla sola risoluzione dei potenziali conflitti di competenze tra differenti Autorità, ma ancor prima alla ricostruzione dei rapporti tra la normativa generale in tema di pratiche commerciali scorrette e le regolamentazioni di settore.

3.2. Ebbene, nell’esaminare la specifica questione di competenza dedotta nella presente vicenda processuale e riguardante la definizione dei rapporti tra AGCM e AGcom, il Collegio ritiene utile, in una prospettiva più ampia, dare atto di quanto già emerso in sede giurisprudenziale sul tema dei criteri di definizione del più generale problema di delimitazione delle competenze rispettivamente riconosciute, in materia di pratiche commerciali scorrette, all’Autorità “trasversale” della concorrenza e del mercato e alle singole Autorità di settore.

3.3. E’ necessario ricostruire sinteticamente i riferimenti normativi di base da cui non è dato prescindere nell’esame della questione.

3.3.1. L’art. 3 della direttiva 29/2005/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, dopo aver delineato, al paragrafo 1, il proprio campo generale di applicazione (pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori, come stabilite all’articolo 5, poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto), chiarisce, al paragrafo 4, che le altre norme comunitarie che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali prevalgono e si applicano a tali aspetti specifici solo a condizione di un contrasto con le disposizioni della direttiva stessa.

Dispone, in particolare, il citato art. 3, paragrafo 4, della direttiva 29/2005/CE, che “in caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici”.

Inoltre, al considerando 10 della richiamata direttiva 29/2005/CE si precisa che la stessa “si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore. Essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore“.

Si consideri, al riguardo, che la Commissione –in sede di relazione alla proposta di direttiva- ha sostenuto che “la direttiva quadro si applicherà laddove la legislazione di settore non contenga norme specifiche che disciplinino le pratiche commerciali sleali. Le norme specifiche, laddove esistenti, prevarranno sulla direttiva quadro“.

La Commissione ha ulteriormente chiarito che “laddove una direttiva settoriale disciplini soltanto determinati aspetti delle pratiche commerciali, ad esempio il contenuto delle informazioni da fornire, la direttiva quadro si applicherà in relazione ad altri elementi come, ad esempio, nel caso di presentazione ingannevole delle informazioni prescritte dalla legislazione di settore” (pt. 44-45 della Relazione).

Nell’ordinamento interno, il citato art. 3, paragrafo 4, della direttiva 29/2005/CE è stato trasposto nell’art. 19, comma 3, d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), ai sensi del quale “in caso di contrasto le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”.

Due le indicazioni desumibili, quindi, dai richiamati riferimenti normativi sovranazionali e nazionali:

• da un lato, il riferimento al criterio della specialità in forza del quale le disposizioni dettate dal codice del consumo in tema di accertamento e repressione delle pratiche commerciali sleali recedono allorché sussistano nelle discipline di settore norme contrastanti volte a disciplinare aspetti specifici”;

• dall’altro, e al contempo, l’attitudine della disciplina generale dettata a tutela del consumatore a trovare applicazione, anche allorché le discipline di settore intervengano a regolamentare aspetti specifici, con riguardo ad altri elementi.

3.3.2. Si consideri, d’altra parte, che, in tutte le ipotesi in cui in giurisprudenza è venuta in rilievo la necessità di delimitare gli spazi di competenza riconosciuti, in tema di pratiche commerciali scorrette, all’Autorità trasversale della concorrenza e del mercato, da un lato, e alle singole Autorità di settore, dall’altro, si è dovuto risolvere, prima ancora del problema di competenza, il profilo dei rapporti tra discipline che delineano distinte fattispecie di illecito amministrativo: in specie, quella generale sulla correttezza delle pratiche commerciali dettata dal Codice del consumo e quelle speciali che, per i singoli settori, prevedono a carico degli operatori specifici obblighi di informazione, correttezza e trasparenza.

Si è dovuto, quindi, verificare se gli illeciti amministrativi rispettivamente delineati dalla disciplina generale dettata dal Codice del consumo laddove prevede la repressione delle pratiche commerciali scorrette e dalle discipline di settore per l’inosservanza degli specifici obblighi di correttezza e trasparenza dalle stesse poste a carico degli “operatori di settore” debbano concorrere o meno: utilizzando una terminologia propria del sistema penale e, più in generale, punitivo, ci si è chiesti se si sia al cospetto di un concorso effettivo di illeciti o di un concorso apparente di norme.

Al riguardo, può venire in rilievo l’art. 9, 24 novembre 1981, n. 689, a tenore del quale “quando uno stesso fatto è punito da [..] una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale“; disposizione almeno in parte analoga, come è noto, a quella dettata dall’art. 15 c.p. per l’ipotesi di concorso di norme penali (“Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”).

Sempre che ricorra, quindi, il presupposto della “identità del fatto” (cui il citato art. 9, l. n. 689 del 1981, ha testualmente riguardo, così distinguendosi, almeno sul piano letterale, dall’art. 15 c.p. che richiede, invece, l’identità di “materia”), il problema della natura del concorso (effettivo o apparente) va normalmente risolto facendo applicazione del criterio della specialità, sicché deve concludersi per l’apparenza del concorso e per l’unicità dell’illecito contestabile allorché sussista una relazione di specialità tra le due fattispecie astratte di illecito amministrativo nel quale il fatto concreto posto in essere appaia prima facie riconducibile; relazione di specialità ricorrente allorché sia dato scorgere un rapporto di continenza strutturale fra le due norme che prevedono i distinti illeciti amministrativi, una delle due presentando tutti gli elementi propri dell’altra con in più un elemento specializzante, di volta in volta per specificazione o per aggiunta.

Quanto al citato presupposto della “identità del fatto”, è utile richiamare il diffuso orientamento giurisprudenziale secondo cui lo stesso va inteso in astratto e non in concreto, sicché per risolvere il problema della natura (effettiva o apparente) del concorso “vanno confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso” (Corte cost., 3 aprile 1987, n. 97; di recente, Cass., Sez. un., 28 ottobre 2010, n. 1963).

Merita, peraltro, considerare che il citato art. 9, l. n. 689 del 1981, presuppone che la legittimazione ad accertare e reprimere entrambi gli illeciti previsti dalle due disposizioni del cui concorso (apparente o effettivo) si discute appartenga alla stessa autorità, il che non è nei casi di cui ci si sta in questa sede occupando; che è quanto non necessariamente esclude, tuttavia, che dell’articolata elaborazione interpretativa cui il citato art. 9 ha dato adito si possa, almeno in parte, tener conto nel definire i problemi ermeneutici specifici posti dalla peculiare disciplina relativa alle pratiche commerciali scorrette, in specie quella dettata dal richiamato art. 19, comma 3, d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (contra, Cons. stato, sez. I, 3 dicembre 2008, n. 3999 ).

3.4. Tanto osservato quanto ai riferimenti normativi di base, prima ancora di procedere all’esame dei rapporti tra disciplina generale a tutela del consumatore e normativa del settore delle comunicazioni elettroniche e all’analisi, quindi, della vicenda oggetto del presente contenzioso, giova ancora dare atto di alcune prese di posizione assunte dal Consiglio di Stato nell’esaminare il generale problema di delimitazione delle competenze tra Autorità.

In particolare, è utile tener conto di quanto sostenuto da Cons. Stato, sez. I, 3 dicembre 2008, n. 3999, con riguardo alla questione dei rapporti tra la disciplina generale di cui al Codice del consumo e la disciplina del settore dei servizi finanziari.

3.4.1. Ebbene, nel richiamato parere del 2008, il Consiglio di Stato -ritenuta la necessità di fare applicazione, nella soluzione del problema, del principio di specialità, inteso come principio generale immanente all’obiettivo della razionalità dell’ordinamento e da sempre considerato prioritario per risolvere in sede applicativa i casi contraddittori e di duplicazione di fattispecie, sostanziali come procedurali, tra cui quelle riguardanti l’intervento pubblico (in toto iure genus per speciem derogatur)- ha sostenuto che lo stesso principio va disancorato “dal riferimento prevalentemente soggettivo (cioè al tipo di operatore interessato o di soggetto tutelato)” e calibrato piuttosto “sull’oggetto dell’intervento e sull’interesse generale perseguito attraverso l’intervento stesso” (richiama, al riguardo, Cons. St., sez. VI, 16 ottobre 2002, n. 5640, intervenuto a risolvere il diverso problema dell’individuazione dell’Autorità -Antitrust o Banca d’Italia- competente ad accertare e sanzionare illeciti di tipo concorrenziale, per violazione quindi della normativa antitrust, allorché l’illecito anticompetitivo da accertare coinvolga aziende di credito o sortisca effetti su mercati bancari).

Ad avviso di Cons. Stato, sez. I, 3 dicembre 2008, n. 3999, nel fare applicazione della specialità – e sempre che la stessa non incontri “limiti intrinseci” (riscontrabili nei casi di ‘specialità reciproca’, sussidiarietà o ‘reciproco assorbimento’) o “estrinseci” (ricorrenti quando il conflitto è espressamente risolto da una norma di legge) – occorre avere riguardo “al tipo di comportamento e soprattutto alla situazione contestuale verso cui l’intervento correttivo o sanzionatorio è diretto; più che al tipo di operatore coinvolto si deve aver riguardo alla materia su cui i due possibili interventi vanno ad incidere, vale a dire – laddove esista un contesto distinto i cui operatori agiscono secondo regole e pratiche di sistema – al settore su cui l’intervento va ad essere dispiegato”.

Pare quindi che, alla stregua della ricostruzione svolta nel precedente richiamato, nell’applicare il criterio della specialità, la comparazione debba riguardare – almeno quando esista “un contesto distinto i cui operatori agiscono secondo regole e pratiche di sistema”- non già le singole fattispecie di illecito previste dalla normativa generale e da quella di settore (e nelle quali il fatto contestato all’operatore appare prima facie riconducibile)- ma i “settori su cui l’intervento correttivo o sanzionatorio va ad essere dispiegato”.

Ed invero, la stessa prima Sezione, nel precedente richiamato, conclude osservando che “è la caratteristica distinta del settore finanziario a identificare … le ragioni della specialità. Non pare infatti dubitabile che il settore finanziario rappresenti, per le sue caratteristiche, le sue pratiche, la sua ragione e le sue stesse norme un contesto di sistema, distinto rispetto al mercato in generale, come è facilmente riscontrabile in termini giuridici con il suo ordinamento di settore, specifico a quello del mercato in generale, di cui le disposizioni sopra richiamate sono indice. La conclusione nel caso in esame pare dunque essere – conformemente a quanto prospetta l’AGCM – che la normativa di ordine speciale del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 prevale, anche ai fini della identificazione dell’Autorità competente ad intervenire, sulla normativa di ordine generale di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206”.

Solo con l’intento di fornire una conferma dell’illustrato esito interpretativo raggiunto mettendo in comparazione -nell’applicare il criterio di specialità- i “settori su cui l’intervento correttivo o sanzionatorio va ad essere dispiegato”, la prima Sezione del Consiglio di Stato sostiene che il risultato non muta pur facendo applicazione del “criterio dei tipi di soggetto, attivo e beneficiario, dell’intervento”. “L’AGCM agisce infatti rivolta alla tutela della concorrenza nel mercato in generale e al contrasto delle pratiche commerciali sleali o scorrette, anch’esse riferite alla concorrenzialità dello stesso mercato generale: perciò il beneficiario tipico dei suoi interventi è il “consumatore”. La CONSOB agisce invece per la tutela degli investitori e della efficienza, trasparenza e sviluppo del mercato mobiliare: perciò il beneficiario tipico ne è l’”investitore. Sicché, per la materia che qui interessa (le pratiche commerciali scorrette, nell’allocazione di prodotti finanziari, tra i professionisti che operano nei servizi finanziari e i consumatori), all’elemento oggettivo della specialità (che si risolve a favore della CONSOB) costituito dall’ambito di riferimento (il mercato mobiliare rispetto al mercato generale) si aggiunge quello soggettivo dalla coerente tipologia sociale ed economica del beneficiario. L’investitore, come il risparmiatore (che è un investitore non professionale), del resto si presenta, conformemente alla tendenza del diritto comunitario, in sostanza come una specie del genere consumatore, in quanto destinatario finale di un prodotto standardizzato seppur finanziario: un consumatore di servizi finanziari”.

Per vero, lo stesso Consiglio di Stato, nel richiamato parere, nell’occuparsi dei limiti c.d. intrinseci che si frappongono all’operatività del principio di specialità, precisa che se, con riferimento al settore dei servizi finanziari, “il principio di specialità opera anche perché esiste una compiuta ed organica disciplina della materia”, “una più attenta considerazione” si impone, invece, “qualora, come avviene altrove, il settore che può apparire speciale si limiti a regolare soltanto alcuni specifici aspetti dell’attività circa la quale vi è bisogno di intervento”.

3.5. Orbene, in disparte quanto si chiarirà oltre in merito alla condivisibilità o meno del più ampio indirizzo seguito nel richiamato parere laddove, con specifico riferimento al settore dei servizi finanziari, riferisce il criterio di specialità ai settori normativi, piuttosto che alle singole fattispecie illecite, ritiene il Collegio che meriti condivisione il passaggio da ultimo richiamato volto a rimarcare la necessità di un approccio caso per caso, attento alla effettiva contestazione mossa, allorché la disciplina di settore “si limiti a regolare soltanto alcuni specifici aspetti dell’attività circa la quale vi è bisogno di intervento”.

Si tratta, invero, di un approccio ad avviso del Collegio coerente con i dati normativi sopra indicati, in specie con l’art. 19, comma 3, d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), ai sensi del quale “in caso di contrasto le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”.

Disposizione per effetto della quale, salvo che per gli specifici aspetti delle pratiche commerciali scorrette disciplinati in modo contrastante dalle normative di settore, va garantita l’operatività della generale disciplina a tutela del consumatore con l’applicazione, quindi, delle comuni fattispecie di illecito (pratiche scorrette, ingannevoli o aggressive) disciplinate dagli articoli da 18 a 27 del Codice del consumo, non relative a settori specifici ma al rapporto tra consumatore e professionista in quanto tali, in riferimento alla “diligenza professionale” di quest’ultimo, di cui all’art. 18, comma 1, lett. h), la cui inosservanza è inibita e sanzionata dalla Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ai sensi dell’art. 27, commi 8 e 9.

Salvo che non possa concludersi per la reale completezza ed esaustività della normativa di settore nell’individuare le fattispecie sanzionatorie e nel delineare le conseguenti misure inibitorie e repressive, la stessa è destinata quindi a trovare applicazione soltanto in caso di verificato contrasto con quella generale e sempre che rechi la disciplina di aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, regolando una fattispecie omogenea a quella individuata dalla normativa generale ma da quella distinta per un elemento specializzante, di aggiunta o di specificazione della fattispecie stessa.

Diversamente, deve trovare applicazione la normativa generale, secondo la logica della complementarietà delle discipline.

Si tratta, del resto, di impostazione che, oltre ad apparire coerente con i riferimenti normativi richiamati, appare idonea ad evitare vuoti di tutela del consumatore, potendosi altrimenti lasciare senza sanzione comportamenti pure rivolti a suo danno, prevenendosi, altresì, il rischio che la normativa generale di tutela del consumatore quale parte negoziale debole venga limitata, se non vanificata, con plurime norme settoriali speciali.

Volendo trarre prime conclusioni, può sostenersi che la disciplina europea e quella nazionale di attuazione affidano principalmente al criterio di specialità la delimitazione degli spazi di competenza riconosciuti, in tema di pratiche commerciali scorrette, all’Autorità trasversale della concorrenza e del mercato, da un lato, e alle singole Autorità di settore, dall’altro, nonché, quindi, la soluzione dei problemi di concorso tra fattispecie di illecito amministrativo contemplate dalla disciplina generale a tutela del consumatore e quelle di settore.

In specie, i citati artt. 3, paragrafo 4, della direttiva 29/2005/CE, e 19, comma 3, d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), dispongono che la disciplina generale recede solo a fronte di norme di settore che regolamentino “aspetti specifici delle pratiche commerciali” e nei limiti in cui vengano in rilievo tali “aspetti specifici”, dovendo per tutti gli altri profili riespandersi l’operatività delle comuni fattispecie di illecito (pratiche scorrette, ingannevoli o aggressive), nel nostro ordinamento previste e disciplinate dagli artt. da 18 a 27 del Codice del consumo.

Due, ad avviso del Collegio, le esigenze sottese a tale regolamentazione -europea e nazionale – dei criteri di riparto delle competenze e di risoluzione di eventuali ipotesi di concorso di norme:

• da un lato, quella di evitare che, a fronte dello stesso fatto, già sanzionato dalla disciplina di settore con la previsione di una fattispecie speciale, possano essere addebitati all’operatore più illeciti e comminate più sanzioni;

• dall’altro, quello di limitare il carattere recessivo della generale disciplina a tutela del consumatore alle sole ipotesi in cui le regolamentazioni di settore prevedano fattispecie corrispondenti a quelle delineate dalla disciplina generale, ancorché rispetto a queste speciali (per specificazione o per aggiunta), sì da stemperare il rischio che la definizione dei problemi di concorso tra discipline possa risolversi in una complessiva deminutio della tutela approntata in favore del consumatore ed una inaccettabile impunità di comportamenti pregiudizievoli, punibili alla stregua degli artt. da 18 a 27 del Codice del consumo, ma non sussumibili, tuttavia, in alcuna delle ipotesi di illecito di settore.

Ebbene, ad avviso del Collegio le esposte esigenze suggeriscono un’applicazione del criterio normativo della specialità non dissimile da quella prevalsa negli ultimi anni nella giurisprudenza penale in sede di interpretazione dell’art. 15 c.p. (Cass. Sez. un., 20 dicembre 2005, n. 47164; Cass. pen., Sez. un., 21 gennaio 2011, n. 1963; Cass.pen., Sez. un., 19 gennaio 2011, n. 1235), volta cioè a porre a raffronto le fattispecie astratte di illecito amministrativo rispettivamente delineate dalla disciplina generale a tutela del consumatore e da quelle di settore, concludendo per l’applicazione di quest’ultima solo se la stessa possa dirsi speciale rispetto a quella contemplata dalla normativa generale.

Allorché non sia dato riscontrare tale relazione di specialità appare al Collegio problematico escludere l’applicazione della disciplina generale: ne risulterebbero compromesse le esposte esigenze, in specie quella relativa alla pienezza ed effettività della tutela del consumatore.

Esigenza, quest’ultima, che, ad avviso del Collegio, deve indurre a considerare con problematicità l’approccio interpretativo secondo cui il criterio di specialità va applicato ponendo a raffronto non le singole fattispecie, ma i “settori su cui l’intervento correttivo o sanzionatorio va ad essere dispiegato”: evidente, invero, il rischio sotteso a tale impostazione, ossia quello che si finisca per ritenere speciale l’intera disciplina di settore, con conseguente esclusione di qualsiasi margine di operatività della disciplina generale dettata a tutela del consumatore, ancorché, in ipotesi, solo nelle fattispecie sanzionatorie da quest’ultima delineate (e non in quelle contemplate dalla regolamentazione di settore) sia riconducibile il fatto che in concreto si intenda contestare all’operatore.

Problematicità che si ripropone, peraltro, anche con riguardo all’approccio volto ad applicare il criterio della specialità avendo riguardo “ai tipi di soggetto, attivo e beneficiario, dell’intervento” ovvero, ancora, all’oggettività giuridica presidiata rispettivamente dalla disciplina generale a tutela del consumatore e da quella di settore; criterio, quest’ultimo, che peraltro prospetta un ulteriore profilo di criticità, insito nell’incertezza che non di rado si registra nell’individuare l’effettivo bene o interesse protetto dalle discipline di settore.

Si consideri, del resto, che proprio con l’intento di stemperare i rischi di oscillazioni che si annidano nella identificazione del bene giuridico presidiato con la incriminazione delle fattispecie, la più recente e prevalente giurisprudenza penale esclude che, nel definire la natura apparente o effettiva del concorso di norme penali, abbia rilievo la diversità o l’identità delle oggettività giuridiche protette dalle disposizione in concorso, affidando quindi al solo riscontro della sussistenza di una relazione strutturale di specialità tra le fattispecie che vengono in considerazione la soluzione del problema di concorso: tanto in omaggio ad un’esigenza di certezza e determinatezza che, ad avviso del Collegio, viene in rilievo anche nel settore qui in esame (cfr., per la giurisprudenza penale, Cass. Sez. un., 20 dicembre 2005, n. 47164; Cass. pen., Sez. un., 21 gennaio 2011, n. 1963; Cass. pen., Sez. un., 19 gennaio 2011, n. 1235).

Un’ultima considerazione prima di passare all’esame dei rapporti tra disciplina generale a tutela del consumatore e disciplina del settore delle comunicazioni, oltre che, quindi, al vaglio del caso sottoposto al Collegio.

Non è superfluo osservare che un’applicazione rigorosa del criterio normativo di specialità- volta come rilevato ad escludere l’operatività della disciplina generale dettata a tutela del consumatore solo allorché la regolamentazione di settore contempli fattispecie di illecito idonee a sovrapporsi a quella prevista dalla stessa disciplina generale, con in più uno o taluni elementi specializzanti, di volta in volta per specificazione o per aggiunta- pare imporsi se si considera che i poteri di intervento riconosciuti alle Autorità di settore a fronte del riscontro amministrativo degli illeciti speciali risultano spesso di minore portata, quantitativa e qualitativa, rispetto a quelli di cui è munita l’Autorità trasversale: il riferimento è ai poteri di imporre l’eliminazione degli effetti delle pratiche commerciali scorrette (restituito in integrum); al potere di disporre la pubblicazione della delibera di divieto o della continuazione della pratica commerciali scorrette; al potere di ottenere dal professionista l’assunzione dell’impegno di porre fine all’infrazione.

5. Tanto chiarito in generale, va ora esaminata la specifica fattispecie posta all’esame del Collegio.

Merita richiamare i commi 1, 3 e 4 dell’articolo 1 del già citato decreto legge n. 7 del 2007 (come modificato dalla legge di conversione n. 40 del 2007), con i quali si stabilisce il principio della conservazione del credito residuo in capo all’utente che si trasferisca presso altro operatore, sulla cui attuazione vigila l’Agcom, essendo in particolare previsto che: “E’ vietata la previsione di termini temporali massimi di utilizzo del traffico e del servizio acquistato” (comma 1); “I contratti per adesione stipulati con operatori di telefonia e di reti televisive e di comunicazione elettronica, …devono prevedere la facoltà del contraente di recedere dal contratto o di trasferire le utenze presso altro operatore senza vincoli temporali o ritardi non giustificati e senza spese non giustificate da costi dell’operatore e non possono imporre un obbligo di preavviso superiore a trenta giorni. Le clausole difformi sono nulle…” (comma 3); “La violazione delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 è sanzionata dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni applicando l’art. 98 del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259…” (comma 4).

5.1. Ebbene, la disciplina di settore nulla di “specifico” dispone riguardo ai comportamenti nella specie sanzionati, poiché, in concreto, la WIND non è stata considerata responsabile della inosservanza dell’obbligo della conservazione del credito residuo in capo all’utente, cui essa ha adempiuto, ma del fatto di avere imposto a tale fine, e senza alternative, una procedura di richiesta ritenuta inutilmente defatigante e perciò, come visto, giudicata non idonea “a consentire all’utente un agevole riconoscimento del credito”, inducendolo “a non esercitare il recupero del credito residuo…” e ponendo così “un ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato”, con l’effetto di indurre “il consumatore medio ad assumere decisioni di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”: fattispecie concreta, quindi, in ipotesi sussumibile nella fattispecie di illecito delineata dalla disciplina generale dettata dal Codice del consumo e citata a fondamento del provvedimento sanzionatorio, non anche in quelle previste dalla regolamentazione di settore.

Né gli aspetti contestati sono presi in considerazione dalle delibere dell’Agcom n. 416 del 2 agosto 2007 e n. 353 del 25 giugno 2008, recanti la diffida agli operatori del settore ad ottemperare all’obbligo del riconoscimento del credito residuo e della sua portabilità presso altro operatore, entro il termine rispettivamente fissato (di 45 giorni con la prima delibera e, a seguito di una pronuncia del T.a.r. per il Lazio, di 10 mesi con la seconda).

Così come non rilevano gli articoli 70 e seguenti del Codice delle comunicazioni elettroniche, non recanti la disciplina del trasferimento del credito residuo, ma la definizione del contenuto necessario dei contratti con cui i consumatori si abbonano a servizi di connessione o accesso alla rete telefonica e la previsione del diritto di recesso dei consumatori.

La fattispecie di riferimento per il caso in esame non appare perciò tra quelle individuate come speciali dalla normativa sulle comunicazioni elettroniche rispetto ad una fattispecie omogenea definita dalla normativa generale sulla tutela del consumatore, non trattandosi della fattispecie relativa all’obbligo di riconoscere il credito residuo, ma di quella relativa alla pratica prescritta al consumatore per fruire di tale riconoscimento.

Non pare, quindi, prospettarsi quel contrasto (attuale o potenziale) tra la normativa generale e la normativa speciale in presenza del quale soltanto l’art. 3, comma 4, della direttiva 2005/29/CE e l’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, dispongono debba applicarsi la disciplina di settore.

Si consideri, al riguardo, che l’art. 70 del Codice delle comunicazioni elettroniche, dopo aver dettato nei primi cinque commi prescrizioni puntuali in materia contrattuale volte a definire il contenuto minimo essenziale dei contratti e a disciplinare il diritto di recesso, dispone, al comma 6, che “Rimane ferma l’applicazione delle norme e delle disposizioni in materia di tutela dei consumatori”.

Si tratta, ad avviso del Collegio, di previsione normativa che, confermando quanto in generale esposto in merito ai rapporti tra disciplina generale a tutela del consumatore e discipline di settore, conferma l’assunto in forza del quale, al di fuori dell’ambito specifico di operatività della fattispecie contemplate dalla regolamentazione settoriale delle comunicazioni –in specie quelle sul contenuto essenziale dei contratti e sul diritto di recesso disposte nel medesimo articolo 70- si riespande l’ambito di operatività delle disposizioni del Codice del consumo.

E’ vero, del resto, che la stessa previsione contenuta al citato art. 70, co. 6, può essere interpretata come volta a disporre un rinvio dinamico alla legislazione anche sopravvenuta in materia di tutela dei consumatori, con conseguente competenza dell’AGCOM.

Senonché, anche a condividere quest’impostazione, è necessario che la disciplina sopravvenuta introduca una fattispecie astratta di pratica commerciale scorretta nella quale il fatto concreto contestato al professionista sia riconducibile e che si ponga in relazione strutturale di specialità con quelle delineate dalla disciplina generale a tutela del consumatore; il che non appare affatto scontato nel caso in esame.

Può infine prospettarsi un’ulteriore lettura del citato art. 70, co. 6, del Codice delle comunicazioni elettroniche, in forza della quale, allorché il fatto concreto non sia riconducibile in alcuna della fattispecie contemplate dalla regolamentazione settoriale delle comunicazioni, essendo, invece, sanzionabile in applicazione delle disposizione dettate dal Codice del consumo, debba essere l’AGCOM a farne applicazione.

Si tratta di opzione interpretativa, quest’ultima, in astratto meritevole di considerazione laddove -senza sacrificare l’intensità della tutela che l’ordinamento complessivamente considerato assicura al consumatore- appare idonea a garantire una concentrazione “soggettiva” delle competenze in capo all’Autorità preposta alla regolazione del settore.

E tuttavia, nel valutare la concreta praticabilità dell’indirizzo interpretativo espresso -implicante l’applicazione, ad opera dell’Autorità di settore, di fattispecie sanzionatore che la disciplina generale a tutela del consumatore prevede affidandone l’applicazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato- è necessario considerare che, come sopra osservato, quella stessa disciplina generale riconosce all’autorità “trasversale” poteri di cui non dispone l’AGcom.

Sicché è necessario chiedersi se quest’ultima, allorché chiamata ad applicare le fattispecie sanzionatorie contemplate dalla disciplina generale a tutela del consumatore, possa anche esercitare i poteri che la stessa disciplina generale riconosce al’Autorità trasversale; occorre anche e soprattutto chiedersi se a tale esito possa pervenirsi in sede interpretativa o se, invece, non sia necessario, a tal fine, un apposito intervento del legislatore.

6. Per la delicatezza delle questioni coinvolte, il Collegio ritiene dunque di deferire la definizione del primo motivo d’appello all’esame della Adunanza Plenaria.

Quanto alle ulteriori censure dedotte (da esaminare nel caso di rigetto dell’illustrato primo motivo), valuterà l’Adunanza Plenaria se deciderle nel loro complesso, ovvero se rimetterne l’esame alla Sezione, ai sensi dell’art. 99 del Codice del processo amministrativo.

7. Per le ragioni che precedono, la Sezione rimette l’atto di appello all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), riuniti gli appelli, ne dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza Plenaria.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 novembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Coraggio, Presidente

Roberto Garofoli, Consigliere, Estensore

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 13/12/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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