Evoluzione di concetto e di contesto per il marketing sportivo

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Il nuovo millennio ha definitivamente sancito il declino del marketing sportivo inteso come forma di sponsorizzazione classica legata unicamente alla brand exposure. (cartellonistica, brand su maglia etc. etc.) a favore di un’evoluzione di concetto e di contesto.

Diversi sono i motivi e gli scenari che hanno inficiato l’efficacia delle sponsorizzazioni classiche:

–       innanzitutto la diminuzione di efficacia della comunicazione istituzionale ossia quel tipo di comunicazione che sfrutta canali (a.e. televisione, radio, quotidiani, cartellonistica) in cui interattività e coinvolgimento del consumatore sono quasi del tutto inibite;

–       l’esigenza da parte delle aziende, in conseguenza dei cambiamenti nello scenario economico e del consolidamento della crisi, di splittare il budget destinato al marketing e all’advertising. Nonostante i canali istituzionali fagocitino ancora, soprattutto in Italia, la maggiore fetta degli investimenti pubblicitari, con una lieve diminuzione (il 4% circa, dati nielsen 2011) i new media registrano un’importante presenza (13% delle risorse destinate alla comunicazione) dato che dimostra come oggi l’esigenza delle aziende sia quella di essere presenti con le dovute declinazioni su più piattaforme possibili;

–       l’esigenza di andare oltre la stitica brand exposure e comunicare contenuti più complessi;

–       la necessità di razionalizzare e tracciare il ritorno del’investimento;

–        the last, but not the least, il “raffreddamento” da parte del tifoso medio degli sport principali o dei club più blasonati.

Le conseguenze di questo cambiamento di scenario hanno comportato:

–       la crescita di interesse e partecipazione da parte del consumatore e di conseguenza delle aziende verso sport considerati minori come il rugby e la scherma dove il ruolo svolto dalla componente valoriale e dall’appeal dei protagonisti ha attirato nuovi investitori. In particolare, nel rugby, l’esordio nel torneo Sei Nazioni e l’ingresso di due team italiani nella Magners Celtic League ne ha ufficialmente sancito l’ascesa; la disciplina, l’impegno, il forte valore simbolico delle sfide e l’immagine pulita dei player rappresentano le principali motivazioni di interesse da parte del pubblico; citando un esperto di “marketing ovale”, Pagano, le tre parole chiave del rugby, gioco di squadra per eccellenza, “fango, sudore, impresa” diventano oggi addirittura metafora per il coaching aziendale;

–       la scelta, con motivazioni non molto diverse, da parte delle aziende di affiancare atleti con disabilità intervenendo in un contesto di forte coinvolgimento emotivo;

–       la volontà di investire in club o grandi eventi che hanno scelto l’innovazione come carattere distintivo dell’offerta di marketing. Per fare due esempi oltre confine: le Olimpiadi di Pechino 2008 ossia le prime “Social Olimpiadi” che hanno usufruito dei social media come mezzo di coinvolgimento e di visibilità per le aziende e uno degli esempi più interessanti di marketing sportivo del 2011 ideato da una squadra americana di hockey che ha messo in commercio una maglia, replica della divisa ufficiale, dotata di microchip che permette di usufruire di sconti e promozioni all’interno dello stadio. L’esperimento è riuscito, oltre a incrementare la fidelizzazione del tifoso (il 70% degli abbonati la indossa ad ogni evento sportivo della squadra) con il 40% di abbonamenti in più rispetto alla precedente stagione, ha consentito anche di acquisire dati e tracciabilità degli investimenti di marketing delle aziende coinvolte.

Parallelamente a queste iniziative, è cresciuto e si è raffinato nel tempo, il ricorso a pratiche e strategie del c.d. Ambush Marketing, letteralmente marketing di imboscata.

I primi tentativi di Ambush Marketing risalgono al lontano 1984, quando Kodak, come risposta alla sponsorizzazione ufficiale delle Olimpiadi da parte del competitor Fuji, scelse di acquistare consistenti spazi durante la diretta dei giochi olimpici, risultando agli occhi dello spettatore uno sponsor a tutti gli effetti senza in realtà sostenere l’onere della sponsorizzazione.

Per fare un esempio più recente, durante l’ultima World Cup, la stessa strategia ossia quella di ideare una campagna a supporto di un evento sportivo a forte coinvolgimento emotivo senza tuttavia esserne sponsor ufficiali, fu intrapresa sia da Nike che da Pepsi con il risultato che sondaggi mirati stabilirono che la percezione dei followers dell’evento fosse che entrambe le aziende fossero partner ufficiali.

Tali strategie però vanno ben ponderate da un punto di vista legale, famoso è l’esempio di un’azienda che mise in palio biglietti per il NCCA Championship, senza esserne sponsor ufficiale; i biglietti furono invalidati con conseguente ritorno di immagine negativo per l’azienda in questione.

In attesa di vedere cosa ci riserveranno, quest’anno, i giochi olimpici di Londra.

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