European Democracy Action Plan

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Si veda anche il commento sul Digital Services Act. 

Il 3 dicembre scorso la Commissione europea ha presentato il suo European Democracy Action Plan. Non dovrebbe stupire che con questa proposta Ursula von der Leyen provi ad andare oltre il mantra della Commissione Juncker, vale a dire la realizzazione di un mercato unico digitale.  Superare dunque la dimensione economica per affrontare il cuore pulsante della nuova sfida del costituzionalismo europeo: i rapporti pericolosi tra democrazia, poteri privati digitali e disinformazione.

Si assiste, a ben vedere, ad un passaggio, nell’affrontare le questioni più spinose connesse alla via europea al digitale, da una narrativa legata al mercato ad un’altra, alternativa, fondata sul discorso democratico. Passaggio che rappresenta plasticamente la trasformazione “genetica” che, nel corso di poco più di un biennio, ha caratterizzato il ruolo delle piattaforme digitali. Da attori privati che esercitano il diritto di iniziativa economica a poteri privati che hanno la capacità di impattare sul tasso di democraticità di un sistema giuridico complesso, come è quello europeo.

Come l’Unione ha quindi pensato di fronteggiare tale trasformazione, con particolare riferimento a garanzia di libere e regolari elezioni, tutela del pluralismo dei media e lotta alla disinformazione?

È questa la domanda a cui la Commissione europea cerca di rispondere con il prima richiamato Democracy Action Plan.  Due sembrano le risposte principali, di metoodo, prima che di merito, che emergono leggendo il documento.

Innanzitutto, la trasformazione prima ricordata esige degli strumenti nuovi o, quanto meno, un affinamento degli strumenti esistenti. In altre parole, la stagione della democrazia digitale non può essere affrontata utilizzando le armi, per altro rilevatesi già spuntate ai tempi, adoperate nella fase precedente in cui si è puntato alla realizzazione di  un mercato unico digitale.

La fiducia, quasi cieca, negli strumenti di auto-regolamentazione lascia dunque il posto, nella proposta della Commissione, ad una insistenza sul meccanismo di co-regolamentazione pubblico/privato quale tessuto connettivo privilegiato della nuova stagione di riforme della dimensione digitale europea. Il che si concretizza, per quanto riguarda il tema della lotta alla disinformazione, che non è mai stata cosi nociva ed abbondante come nella stagione pandemica, nell’andare, almeno parzialmente, oltre il totem del genere letterario “codice di condotta”, scritto ed applicato dalle stesse piattaforme, come principale rimedio al male delle fake news.

Un rimedio che si era già rivelato assai poco efficace nella stagione precedente a forte trazione economica del mercato unico digitale. Oggi, affidarsi esclusivamente agli esercizi di autoregolamentazione sarebbe ancor più miope, viste le più di cento sfumature di grigio che caratterizzano il limbo che separa ciò che è sicuramente un contenuto illegale tra quanto è formalmente legittimo. Lasciare che siano le piattaforme ad amministrare questo limbo e quindi ad essere arbitri del bilanciamento tra valori di natura costituzionale come libertà di espressione da una parte e diritto ad essere informati in modo verificabile dall’altra, è quanto meno problematico in qualsiasi democrazia liberale,

La reazione  giuridica alla disinformazione, aggiunge la Commissione, non può che essere europea, onde evitare fughe in avanti dei singoli stati membri sulla via – già percorsa, per esempio, dalla Germania  – di una legislazione che, richiedendo in capo alle piattaforme un obbligo di rimozione di contenuti che di quel grigio prima chiamato si colorano,  rischiano di avere un effetto lesivo sulla libertà di espressione.

È per questa ragione che la terza via tra self regulation and over-regulation va trovata a livello europeo, anche perché, frammentazione, in questo campo, fa rima, da un lato, con cherry picking nella scelta, da parte delle piattaforme, della loro server farm e, dall’altro, con geometria variabile nella tutela dei diritti fondamentali in gioco.

In secondo luogo, la direzione proposta dalla Commissione per costruire le basi di una solida democrazia digitale è  di puntare sulla trasparenza della decisione algoritmica. Il che non vuol dire dover rinunciare, da parte delle piattaforme, al loro diritti di proprietà industriale, ma fare in modo che ci possa essere una maggiore conoscenza dei meccanismi di presentazione, organizzazione classificazione e rimozione dei contenuti (dis)informativi.

D’altronde, già nel 1980, quel visionario di Norberto Bobbio, ammoniva  come compito del diritto, e più in generale della società, fosse quello di riuscire a far fare al potere, sia esso di matrice pubblica o privata, ciò che esso non farebbe mai autonomamente. Vale a dire essere il più possibile trasparente.

È proprio questa l’idea alla base del Democracy Action Plan della Commissione, lavorare sull’opacità attualmente esistente dei meccanismi prima richiamati per fare, dello spazio digitale europeo, utilizzando ancora un’espressione del grande filosofo torinese,  “il regno del potere visibile”

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