Apple, Amazon, ReDigi: la rivendita di contenuti digitali on line tra diritto brevettuale e diritto d’autore

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Il contesto

La diffusione di e-marketplace per contenuti digitali dedicati a contenuti musicali, audiovisivi o a programmi per elaboratore (solo per citare alcuni esempi molto noti, si pensi a iTunes, Nokia Music, App Store, Google Play, etc.), che consentono agli utenti di scaricare via internet i contenuti su device di vario tipo (PC, tablet, smartphones, etc.) sta determinando la nascita di nuovi modelli di business per il riutilizzo di contenuti digitali. Alcune società statunitensi (come ReDigi e Amazon) sono, infatti, attive nella promozione di un mercato secondario di contenuti digitali (i.e. di un mercato on line in cui sono messi nuovamente in vendita contenuti digitali già scaricati da un e-marketplace tradizionale). È evidente che lo sviluppo di un mercato secondario di contenuti digitali può avere un impatto diretto sul business degli e-marketplace del mercato primario come iTunes, che potrebbero vedersi sottratte importanti quote di mercato (di qui anche l’interessamento a questo settore della stessa Apple la quale, piuttosto che subire la concorrenza dei nuovi operatori del mercato secondario dei contenuti digitali, sembra interessata a gestire essa stessa la rivendita dei contenuti già distribuiti su iTunes).

Si prenderanno di seguito in considerazione alcuni brevetti depositati negli USA presso l’USPTO (U.S. Patent & Trademark Office) per la rivendita di contenuti digitali on line e si farà riferimento al contenzioso sorto negli USA tra Capitol Records e ReDigi. Si svilupperanno alcune riflessioni sui profili brevettuali della rivendita dei contenuti digitali on line e sulla compatibilità di questo modello di business con il sistema di diritto d’autore.

I brevetti statunitensi sui sistemi di rivendita dei contenuti digitali

Apple ha depositato il 7 Marzo 2013 presso l’USPTO una domanda di brevetto per la “Gestione dell’accesso a contenuti digitali” (Patent Application n. 20130060616). In particolare il metodo prevede l’associazione di credenziali personali di un certo titolare a contenuti digitali (e-book, file musicali, file video, software, etc.) e la determinazione, tramite queste credenziali, dell’accesso al contenuto da parte del titolare. Se il sistema di memorizzazione registra che il titolare è autorizzato ad accedere al contenuto, e che tuttavia il titolare richiede di rinunciare all’accesso al contenuto a favore di un nuovo titolare, allora il sistema inibisce ulteriori accessi da parte del primo titolare e consente solo l’accesso da parte del nuovo titolare. Alla richiesta di rinuncia all’accesso al contenuto corrisponde l’attribuzione al titolare di una remunerazione, che può essere rappresentata anche da crediti o da sconti per l’acquisto di altri contenuti memorizzati nel sistema. Il contenuto digitale può essere trasferito dal vecchio al nuovo titolare o direttamente (mediante invio del contenuto) o indirettamente (senza alcun trasferimento, ad esempio perché il contenuto è caricato su una memoria gestita dall’intermediario). Nella soluzione di Apple ciò che conta non è tanto il trasferimento del contenuto ma l’aggiornamento delle credenziali (se il contenuto è trasferito ma le credenziali non sono aggiornate il contenuto non è accessibile). Elementi accessori del metodo possono essere: i) l’associazione al contenuto digitale d’informazioni sulla durata e/o sul tipo di utilizzo autorizzato del contenuto (e quindi, ad esempio, dopo certo tempo il contenuto non potrebbe essere più usato dal titolare e l’utilizzo non potrebbe essere ceduto dal precedente titolare a un nuovo titolare); ii) la fornitura da parte dell’editore del contenuto digitale delle informazioni relative alla durata e/o al tipo dell’utilizzo del contenuto (ad es. l’editore potrebbe prevedere restrizioni alla circolazione per classi di soggetti o ancora potrebbe stabilire il costo al di sotto del quale non può avvenire la rivendita). Nel brevetto di Apple pertanto l’e-marketplace secondario diventa un intermediario per la rivendita lecita di contenuti venduti sull’e-marketplace primario e riceve una sorta di notifica della cessione tra i privati, che gestisce per modificare le credenziali di accesso al contenuto (c.d. Content Access Metadata) e consentire la transazione senza che i privati si scambino copie elettroniche del contenuto. Per il servizio d’intermediazione offerto l’e-marketplace trattiene una percentuale sulla transazione e/o guadagna sul fatto che il compenso della transazione può essere utilizzato solo per acquistare altri contenuti sullo stesso e-marketplace.

Amazon ha depositato il 5 Maggio 2009 presso l’USPTO una domanda di brevetto per un “Mercato secondario di contenuti digitali” (domanda che è stata accolta e ha portato alla concessione in data 29 Gennaio 2013 del brevetto US 8,364,595). In particolare il brevetto Amazon è relativo a un sistema di gestione di e-marketplace che facilita il mercato secondario di contenuti digitali. Detto sistema include dei mezzi per memorizzare contenuti digitali a nome di un certo utente e mezzi per trasferire contenuti digitali “usati” e i diritti di utilizzo di tali contenuti tramite l’e-marketplace. I mezzi di memorizzazione sono accessibili tramite una serie di device (PC, tablet, smartphone, etc.) via network di comunicazione. I mezzi per trasferire i contenuti sono configurati in modo tale da tener conto dei limiti legali al trasferimento e/o dei limiti derivanti dalla giurisdizione cui i contenuti sono soggetti. Il trasferimento dei contenuti digitali può avvenire in diverse forme, come il downloading (trasferimento del contenuto da una memoria a un’altra e conseguente memorizzazione del contenuto sulla nuova memoria), lo streaming (trasferimento del contenuto da una memoria a un’altra con eliminazione del contenuto dalla memoria di partenza al termine del procedimento) e il moving (trasferimento del contenuto da una memoria a un’altra con successiva rimozione del contenuto dalla memoria di partenza). I mezzi per il trasferimento dell’e-marketplace sono configurati: i) per consentire che il contenuto digitale rimanga una risorsa scarsa e quindi, ad esempio, potrà consentire un certo numero di download del contenuto prima di inibire l’accesso al titolare iniziale; ii) per gestire forme particolari di trasferimento, ad esempio quello che riguardi un’intera collezione di brani musicali o tutte le puntate di una serie televisiva. A fronte del trasferimento del contenuto digitale può essere pattuito tra le parti un compenso, che può essere amministrato dal gestore dell’e-marketplace sotto forma di credits o points da utilizzare nello stesso e-marketplace (dedotta una commissione per il servizio fornito dal gestore).

I casi citati sono solo quelli che si riferiscono a società molto note sul mercato ma all’interrogazione del database dello USPTO emerge che i brevetti per la rivendita di contenuti digitali sono abbastanza di diffusi. Di seguito un’esemplificazione dei brevetti più interessanti:

Secondary marketplace for digital media content (US 8,359,246), che descrive un e-marketplace per la rivendita di contenuti audiovisivi digitali ospitati nelle memorie dei device degli utenti che prendono parte all’e-marketplace.

Systems and methods for reselling electronic merchandise (US 7,640,186), che descrive un metodo per ottimizzare la rivendita di contenuti digitali mediante verifica della titolarità e dell’integrità del contenuto da parte del gestore del mercato virtuale.

Method for reselling content (US 7,996,039), che descrive un metodo per la rivendita di contenuti digitali mediante registrazione delle informazioni in un database di second-hand contents.

Intellectual property trading exchange (US 7,987,142), che descrive un mercato computerizzato per il trading di diritti di proprietà intellettuale.

Technique for license management and online software license enforcement (US 7,890,430), che descrive un metodo per la gestione di licenze software mediante memorizzazione di master copies del software su un server gestito dall’intermediario e associazione a ogni copia del software di un watermarking (i.e. l’inclusione nel contenuto di informazioni a fini di autenticazione).

La tecnologia ReDigi e il contenzioso Capitol Records LLC vs. ReDigi Inc.

Tra gli operatori attivi nel mercato della rivendita on line di contenuti digitali occupa un posto di primo piano ReDigi (www.redigi.com), una società statunitense che offre un mercato on line di file musicali “usati” (al momento tratti esclusivamente da iTunes), unito a un servizio di memorizzazione sul cloud che consente anche la verifica della legittima provenienza dei contenuti (file musicali estratti da un CD, ad esempio, non potrebbero essere caricati sui server di ReDigi). ReDigi non acquista alcun diritto sui contenuti caricati dai suoi utenti sul cloud. Gli scambi avvengono direttamente tra gli utenti. Più in dettaglio il servizio offerto da ReDigi si basa sui seguenti elementi: i) un Media Manager, che consente agli utenti di identificare quali file sono caricabili sul cloud e di gestire e tracciare tutte le operazioni svolte sul sito; ii) un Verification Engine, che analizza la library musicale sul cloud per verificare che siano presenti solo contenuti che possono essere rivenduti; iii) una Cloud Storage, la memoria che assicura l’automatica rimozione del contenuto dalla memoria dell’utente che lo carica e che consente sia il trasferimento del contenuto sia lo streaming on line del contenuto stesso; iv) un Marketplace, che gestisce le transazioni on line e al verificarsi della transazione “trasferisce” il contenuto e la relativa licenza dal venditore al compratore, senza per questo effettuare alcuna copia del contenuto (i.e. il contenuto resta sul cloud ma l’accesso è consentito al compratore e vietato al venditore).

Anche ReDigi sta cercando di brevettare la sua tecnologia per la gestione di contenuti digitali usati. In particolare ReDigi ha depositato presso l’USPTO domanda di brevetto dal titolo “Methods and Apparatus for Sharing, Transferring and Removing Previously Owned Digital Media” (US 20130031643). La domanda di brevetto ReDigi descrive un sistema per la gestione di contenuti digitali nel quale un primo utente e un secondo utente sono messi in comunicazione tramite un market digitale e i contenuti memorizzati sono accessibili in modalità alternata ed esclusiva in un primo periodo di tempo da un primo utente e in un secondo periodo di tempo da un secondo utente (rivendicazione indipendente). Sono inoltre descritte caratteristiche accessorie (rivendicazioni dipendenti) mediante le quali si precisa che: i) i contenuti digitali possono essere canzoni, video, film, e-book, articoli, fotografie, etc.; ii) il passaggio dal primo periodo di tempo al secondo periodo di tempo può corrispondere al trasferimento di proprietà del contenuto; iii) i contenuti digitali immessi dal sistema possono derivare anche da estrazione dei contenuti da supporti fisici (CD, DVD, etc.) e/o da conversione in formato digitale di contenuti in formato analogico (dischi in vinile, libri, etc.); iv) l’eliminazione della copia analogica una volta che sia creata la copia digitale; v) il trasferimento dei supporti fisici che incorporano il contenuto in conseguenza del trasferimento.

Il modello di business di ReDigi ha subito un forte attacco da parte dell’industria musicale, nel caso di specie da Capital Records, che ha accordi per la distribuzione di file musicali via internet con e-marketplace come iTunes e Amazon Music e che vede un pericolo nel sorgere di nuovi e-marketplace che possano ridurre le quote di mercato dei propri licenziatari. Capital Records ha quindi citato in giudizio ReDigi presso la United States District Court for the Southern District of New York (“DC NY”) non per accertare la presunta illiceità del brevetto ReDigi bensì la contrarietà alla disciplina del diritto d’autore del modello di business di ReDigi. In particolare Capitol Records sostiene che:

i) il modello di business di ReDigi si basa su multiple violazione di copyright. In particolare ReDigi consente la realizzazione di copie non autorizzate dei file musicali, una prima volta quando i file sono uploadati dalla memoria del computer dell’utente sul cloud server gestito da ReDigi, una seconda volta quanto i file sono “trasferiti” a un nuovo utente a seguito di transazione avvenuta sull’e-marketplace;

ii) ReDigi offre inoltre un servizio accessibile a tutti gli utenti per lo streaming di brevi clip dei file musicali in vendita, compiendo una comunicazione al pubblico non autorizzata dai titolari dei diritti, cui è associata la possibilità di creare una copia di tali clip, il che ancora una volta costituisce una riproduzione non autorizzata;

iii) ReDigi associa ai file musicali presenti nel suo e-marketplace delle locandine che sono a loro volta protette da copyright e lo fa in mancanza di autorizzazione;

iv) il Verification Engine (i.e. il software per la verifica della legittima immissione dei file nel sistema) non è in grado di compiere una verifica efficace perché il file può essere stato scaricato legittimamente e tuttavia la sua rivendita potrebbe essere esclusa dalle condizioni di vendita dell’operatore del mercato primario (si fa l’esempio di Amazon Music, che vieta la rivendita della musica scaricata dal suo sito);

v) il Music Manager di ReDigi non è in grado di assicurare l’eliminazione del file dalla memoria di archiviazione dell’utente, perché non si può escludere che il file sia conservato dall’utente su altri device che non sono raggiungibili dal software di ReDigi;

ReDigi ha risposto alle accuse di Capitol Records sostenendo che:

a)  il Verification Engine è pensato per riconosce solo i file lecitamente scaricati da iTunes, con esclusione pertanto di file estratti da CD, DVD o scaricati da altre fonti e questo perché le condizioni generali del servizio iTunes non vietano il modello di business di ReDigi;

b) il Music Manager di ReDigi, dopo che è stato effettuato un upload sul cloud, è in grado di ricercare lo stesso file su qualsiasi device dell’utente che entri in contatto con il Music Manager e, in caso sia rilevata ancora una copia del file, l’account sul cloud dell’utente è sospeso;

c) se un utente effettua un download dal cloud del file che ha caricato, questo file è automaticamente cancellato dal sistema, tuttavia l’utente non ha necessità di effettuare questo download per continuare ad ascoltare il file messo in vendita su ReDigi perché può farlo in streaming sul cloud tramite una connessione protetta e a lui riservata (questo non crea alcuna copia se non transitoria in una memoria RAM);

d) la memorizzazione di contenuti sul cloud non può essere considerata una copia non autorizzata perché consiste solo nel trasferimento tecnico di un contenuto da una memoria a un’altra (ordinariamente la memorizzazione sul cloud ha la funzione essenziale di consentire il risparmio di memoria da parte dei singoli utenti) e il “trasferimento” dei file non prevede la creazione di nessun copia, perché il file resta sempre sul cloud di ReDigi ma cambia solo l’account cui è consentito l’accesso al file;

e) i videoclip disponibili sul sito di ReDigi, così come le locandine, sono dei meri link a risorse messe a disposizione da terze parti in base a regolari contratti di licenza e gli utenti non possono fare alcuna copia di questi videoclip.

Con decisione del 30.3.2013 la DC NY ha accolto le richieste di Capital Records, argomentando essenzialmente sulla violazione di reproduction, distribution e performance right e sull’applicabilità della first sale doctrine al modello di business di ReDigi. In sintesi secondo la DC NY:

A) è necessario distinguere l’opera protetta dal supporto su cui questa è memorizzata (nel caso di specie il file contenente la musica in formato digitale). Il trasferimento via internet per sua natura non può essere il trasferimento di un’entità fisica (i.e. il file originario) ma è la creazione di una nuova entità fisica presso il destinatario (i.e. il file creato nell’hard disk del destinatario). Su questo non influisce il fatto che il file originario sia cancellato una volta che è creato il file a disposizione del destinatario. Il trasferimento via internet implica quindi sempre un atto di riproduzione che deve essere autorizzato dai titolari dei diritti. Non è poi in discussione il fatto che l’electronic file transfer operato da ReDigi costituisca anche una distribuzione dell’opera protetta;

B) il modello di business di ReDigi non può ritenersi lecito né alla luce della dottrina del fair use (perché gli atti di riproduzione e trasferimento dei file musicali non possono considerarsi atti privi di significato economico compiuti tra privati per scopi personali) né alla luce della first sale doctrine, secondo cui è lecita la rivendita non autorizzata di esemplari di opere protette ottenute legittimamente, perché tale dottrina si applica solo al diritto di distribuzione (mentre ReDigi viola anche il diritto di riproduzione) e inoltre si applica solo al caso in cui la distribuzione si riferisca a una copia legittimamente ottenuta (mentre ReDigi agevola la distribuzione di riproduzioni non autorizzate di opere).

Ci si può limitare ad osservare che la ricostruzione della DC NY non sembra del tutto esente da critiche, perché l’impianto generale della decisione sembra poggiare sull’assunto secondo cui non è possibile un trasferimento di contenuti in formato digitale che non importi una riproduzione (i.e. quando si trasferisce un file via internet c’è sempre l’eliminazione di una copia dall’hard disk di un primo utente e la creazione di una nuova copia nell’hard disk di un nuovo utente e non si può equiparare questa fattispecie al trasferimento della copia unica di una registrazione analogica). Da questo ragionamento la DC NY trae le seguenti conseguenze: i) lo scambio di file, sia che avvenga direttamente tra utenti (come su una rete peer-to-peer) sia che avvenga per il tramite di un trasferimento sul cloud (come nel caso di ReDigi), implica sempre (anche) una riproduzione che necessita di autorizzazione da parte dei titolari dei titolari dei diritti; ii) se viene in questione non solo una distribuzione (bensì anche una riproduzione) non può essere invocata la first sale doctrine, perché questa limita solo l’esclusiva sul diritto di distribuzione; iii) la first sale doctrine si riferisce solo alla circolazione di una particolare registrazione di un’opera protetta e non ad eventuali copie digitali create a partire da quella particolare registrazione (come avverrebbe nel caso di trasferimento del file via internet). Come vedremo di seguito, la Corte di Giustizia UE non ha sinora adottato un orientamento così restrittivo con riferimento al principio dell’esaurimento comunitario, quanto meno con riferimento alla rivendita del software via internet.

I brevetti per business methods negli USA e nell’UE

I brevetti (o domande di brevetto) citati precedentemente si caratterizzano: i) per essere molto simili tra di loro (il problema principale che tendono a risolvere è evitare che la copia “usata” sia contemporaneamente nella disponibilità del venditore e dell’acquirente), ii) per presentare una scarsa altezza inventiva (non descrivono alcun pregiudizio tecnico che un esperto del ramo troverebbe insuperabile) e iii) per sottendere in una certa misura lo sforzo di creare una situazione di monopolio su particolari soluzioni (più o meno tecniche) per implementare il business della rivendita di contenuti digitali “usati”. Per molti aspetti pertanto i brevetti analizzati sembrano più o meno velatamente un tentativo per ottenere dei brevetti su business methods. Si segnala a riguardo una certa differenza di approccio tra gli USA e l’UE quanto alla brevettabilità dei business methods. Negli USA il Title 35 of the United States Code Section 101 disciplina le Inventions patentable e prevede che “Whoever invents or discovers any new and useful process, machine, manufacture, or composition of matter, or any new and useful improvement thereof, may obtain a patent therefor, subject to the conditions and requirements of this title.”. Per quanto l’UE (rectius i paesi aderenti alla Convenzione sul Brevetto Europeo) l’art. 52 CBE prevede che:  “(1)  I brevetti europei sono concessi per le invenzioni in ogni campo tecnologico, a condizione che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale. (2)  Non sono considerate invenzioni ai sensi del paragrafo 1 in particolare: a) le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici; b) le creazioni estetiche; c) i piani, principi e metodi per attività intellettuali, per giochi o per attività commerciali, come pure i programmi informatici; d) le presentazioni di informazioni. (3) Il paragrafo 2 esclude la brevettabilità degli oggetti o delle attività che vi sono enumerati soltanto nella misura in cui la domanda di brevetto europeo o il brevetto europeo concerna uno solo di tali oggetti o attività, considerati come tali.” (nell’ordinamento italiano una previsione sostanzialmente equivalente è prevista all’art. 45 CPI).

Sembra quindi evidente che la previsione dello United States Code sia molto più generica della corrispondente norma della CBE (e soprattutto non preveda un divieto esplicito di brevettabilità per i business methods) e che negli USA un ruolo rilevante sia stato assunto dall’elaborazione giurisprudenziale. Per molto tempo l’USPTO ha escluso che i business methods fossero brevettabili, in quanto metodi puramente astratti, e tuttavia a partire dagli Anni ’90 il fiorire di numerose domande di brevetto per metodi relativi a transazioni via internet, in cui risultava spesso arduo distinguere il confine tra il metodo astratto e la tecnologia per implementare quel metodo, ha portato l’USPTO a rivedere questo orientamento e a concedere alcuni brevetti (si veda il precedente State Street Bank v. Signature Financial del 23.7.1998 e la Section 2106, Patentable Subject Matter – Computer-Related del Manual of Patent Examining Procedure). Il nuovo orientamento dello USPTO è stato poi confermato da successive pronunce giudiziali (State Street Bank vs. Signature Financial Group nel 1998 e AT&T Corp. vs. Excel Communications Inc. nel 1999), che hanno affermato come non si possa escludere la brevettabilità dei business methods (in presenza dei requisiti di novità e non ovvietà), in quanto anche tali metodi possono rientrare nella nozione di new and useful process della Section 101. Una volta ammessa la brevettabilità dei business methods gli orientamenti dello USPTO hanno poi oscillato nel determinare a quali condizioni ammettere tali brevetti e qui l’andamento non è stato sempre costante, essendo stato riconosciuto talvolta che requisito essenziale fosse l’implementazione tecnica del metodo (“the method must apply, involve, use or advance the technological arts”) mentre in altri casi si è ritenuto che uniche caratteristiche necessarie fossero l’attitudine del metodo a produrre “concrete, useful and tangible results”.  La giurisprudenza più recente della US Supreme Court (eBay Inc. vs. MercExchange LLC del 2006) è tornata a mettere in discussione la “potential vagueness and suspect validity” dei brevetti sui business methods e sottolineato l’esigenza che (anche) tali brevetti siano riportati scrupolosamente a qualche settore della tecnica e comportino attività che siano indice sintomatico di appartenenza all’ambito delle tecnica quali: i) comportare la trasformazione un qualche elemento/informazione da uno stato originario a uno stato diverso dall’originario; ii) attuare il metodo tramite apparecchi tecnici ideati specificamente per la produzione del risultato dell’invenzione.

L’approccio del Board of Appeal dell’EPO con riferimento alla brevettabilità dei business methods pare invece diverso e più restrittivo. In particolare dalla “giurisprudenza” EPO emerge un’analisi molto attenta della distinzione tra cosa sia un metodo commerciale in sé (e quindi non brevettabile) e cosa sia invece un metodo commerciale dotato di carattere tecnico. Nel caso T931/95 (relativo a un procedimento automatizzato per la gestione di piani pensionistici) si è precisato che non è tanto rilevante il fatto che ci sia un procedimento tecnico per la gestione automatizzata di informazioni ma ciò che conta è il tipo di operazioni che sono gestite in forma automatizzata (nel caso di specie si è esclusa la brevettabilità perché le operazioni automatizzate erano mera gestione amministrativa, attuariale e finanziaria dei dati). Lo stesso orientamento è stato utilizzato in T854/90 (nel caso di specie si è esclusa la brevettabilità di un sistema di cash dispenser funzionante tramite smart-card perché il sistema non consisteva in altro che nelle istruzioni per il funzionamento tecnico della macchina e per il resto il sistema era un mero metodo commerciale). In pronunce più recenti (T258/03) il BoA ha fatto qualche apertura alla brevettabilità dei metodi commerciali in presenza di soluzioni di carattere tecnico e tuttavia ha precisato che il carattere tecnico della soluzione deve consistere nel superare un problema tecnico e non nell’aggirare un problema tecnico senza risolverlo.

E quindi alla luce di quanto esposto si può ritenere, pur con un certo grado di approssimazione, che alla concessione di brevetti per la rivendita dei contenuti digitali negli USA non necessariamente dovrebbe corrispondere la possibilità di validazione de medesimi brevetti nell’UE (i brevetti statunitensi hanno, infatti, efficacia territoriale limitata e per essere efficaci nell’UE dovrebbero essere validati tramite una procedura PCT o EPO o attraverso le diverse procedure nazionali degli Stati membri dell’UE).

La liceità dei brevetti per la rivendita di contenuti digitali

Tra i possibili profili di analisi legati ai brevetti per la rivendita di contenuti digitali “usati ”si può porre anche quello dell’eventuale illiceità dei brevetti perché contrari alla normativa in tema di diritto d’autore. Si ricorda che la liceità è uno dei requisiti di validità del brevetto e tuttavia si deve segnalare che nel settore brevettuale il concetto di liceità diverge profondamente dalla corrispondente nozione in ambito contrattuale. In campo brevettuale per illiceità non s’intende la contrarietà a una qualsiasi norma imperativa bensì la contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume. In particolare l’art. 50 co. 1 CPI prevede che “Non possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni la cui attuazione è contraria all’ordine pubblico o al buon costume”. L’art. 50 co. 2 CPI precisa poi che “L’attuazione di un’invenzione non può essere considerata contraria all’ordine pubblico o al buon costume per il solo fatto di essere vietata da una disposizione di legge o amministrativa”. Una norma sostanzialmente corrispondente è prevista all’art. 53 CBE, che tuttavia utilizza il concetto di “sfruttamento economico” al posto di quello di “attuazione dell’invenzione”, marcando in modo ancora più evidente che il contrasto con l’ordine pubblico o il buon costume non deve riferirsi all’invenzione in sé ma alla sua concreta realizzazione. E qui il principio alla base della disciplina è che il divieto è riferito non all’oggetto del brevetto ma alla sua attuazione, perché l’interesse tutelato dall’ordinamento non è tanto quello di escludere dall’ambito della brevettabilità tecnologie illecite bensì quello di evitare che siano attuate invenzioni illecite. Nel trovare un equilibrio normativo per quest’assetto d’interessi il legislatore nazionale ha stabilito che l’illiceità del brevetto deve riferirsi sempre all’attuazione della tecnologia (si possono quindi brevettare armi o veleni, non per questo è consentito il loro utilizzo in senso contrario alla legge) e tuttavia l’illiceità del brevetto rilevante per la legge è solo una illiceità qualificata e riferita a fattispecie macroscopiche come la contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume (per intendersi si ritiene che rientrino in quest’ambito tecniche di clonazione di essere umani o per l’utilizzazione di embrioni umani a fini industriali o per modifiche genetiche ad animali con induzione di sofferenza negli animali senza utilità medica). Fuori dall’ambito dell’illiceità del brevetto restano tutti i casi i cui l’attuazione del brevetto sia contraria a norme imperative: in questi casi il brevetto in sé sarà valido ma la sua attuazione non potrà essere comunque contraria a norme imperative.  L’attuazione del brevetto (e non il brevetto) potrà costituire una condotta illecita per l’ordinamento e quindi punita secondo le regole ordinarie in tema di illecito. Venendo al caso dei brevetti per la rivendita di contenuti digitali “usati” ove, per i motivi che saranno meglio illustrati di seguito, non dovesse emergere alcun contrasto tra brevetto e ordine pubblico o buon costume, resterebbe sempre da chiarire se l’attuazione della rivendita di contenuti digitali “usati” costituisca un illecito perché in contrasto con le norme a tutela del diritto d’autore.

Per rendere più chiaro quanto sostenuto si prenda in considerazione l’elaborazione giurisprudenziale in tema di “ordine pubblico” e “buon costume” a fini del giudizio di brevettabilità. Si ritiene comunemente che i concetti di ordine pubblico e buon costume riassumano la necessità di garanzia dell’integrità fisica e morale dell’individuo come parte della società. In particolare l’ordine pubblico si riferisce alla tutela d’interessi come sicurezza, incolumità, sanità e tranquillità sociale mentre il buon costume richiama la tutela di interessi come la correttezza, l’etica (professionale), la buona fede, la diligenza nell’esercizio delle attività economiche e nei rapporti tra privati. Secondo la giurisprudenza del Board of Appeal dell’EPO “the concept of ordre public as covering the protection of public security and the physical integrity of individuals as part of society. It also encompassed the protection of the environment” mentre “the concept of morality was related to the belief that some behaviour was right and acceptable whereas other behaviour was wrong, this belief being founded on the totality of the accepted norms which were deeply rooted in a particular culture” (T 19/90, T 315/03, T 356/93, con una casistica che si riferisce alla creazione di organismi animali con alta probabilità di sviluppo di determinate malattie o a organismi vegetali con particolari resistenze all’azione di pesticidi). Sulla base di quanto esposto si ricava che le fattispecie di illiceità di brevetti sono fattispecie molto rare e per ipotesi residuali, molte delle quali associate al settore delle c.d. biotecnologie e ben difficilmente una tecnica per la rivendita di contenuti digitali “usati” potrebbe essere ricondotta a queste fattispecie.

La liceità del modello di business per la rivendita di contenuti digitali secondo la disciplina del diritto d’autore

Anche se sembra difficile sostenere che i brevetti sulla rivendita di contenuti digitali “usati” siano illeciti, resta sempre da analizzare la liceità della condotta di operatori che tentino di attuare sistemi e metodi per tale rivendita. In questo senso il tema si lega a quello della distribuzione on line di contenuti digitali secondo la disciplina di diritto d’autore. E a questo riguardo si ricorda che, ponendosi nell’ottica dell’ordinamento nazionale, è controverso se inquadrare la distribuzione on line (mediante download) di opere tutelate dal diritto d’autore nell’ambito della messa a disposizione del pubblico dell’opera (art. 16 l.a.) oppure nell’ambito della distribuzione dell’opera (art. 17 l.a.). La conseguenza più evidente dell’inquadramento nell’una o nell’altra fattispecie è che l’art. 16 co. 2 l.a. non prevede l’applicabilità agli atti di messa a disposizione del pubblico del principio dell’esaurimento (“Il diritto di cui al comma 1 (ndr, l’esclusiva sugli atti di comunicazione al pubblico) non si esaurisce con alcun atto di comunicazione al pubblico, ivi compresi gli atti di messa a disposizione del pubblico”) e l’art. 17 co. 3 l.a. precisa che ciò vale anche se sia prevista la realizzazione di copie dell’opera (“Quanto disposto dal comma 2 (ndr, l’esaurimento comunitario) non si applica alla messa a disposizione del pubblico di opere in modo che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente, anche nel caso in cui sia consentita la realizzazione di copie dell’opera.”). L’art. 17 co. 2 l.a. prevede invece (a determinate condizioni) l’esaurimento comunitario per gli atti di distribuzione di copie di opere protette (“Il diritto di distribuzione dell’originale o di copie dell’opera non si esaurisce nella Comunità europea, se non nel caso in cui la prima vendita o il primo atto di trasferimento della proprietà nella Comunità sia effettuato dal titolare del diritto o con il suo consenso.”). Senza riprendere in questa sede le diverse tesi che sono state presentate sull’inquadramento della distribuzione on line di contenuti digitali, si riportano di seguito alcuni spunti per il confronto tra il modello di business di servizi come ReDigi e i più recenti orientamenti della Corte di Giustizia in tema di rivendita di licenze software usate (Procedimento C-128/11  – UsedSoft GmbH vs. Oracle International Corp.).

UsedSoft è una società tedesca specializzata nella commercializzazione di “licenze usate”. Oracle è un importante distributore statunitense di software che ha richiesto in Germania la cessazione della commercializzazione delle “licenze usate” sui propri software. Il sistema Usedsoft si basa su 2 modelli di business: i) il licenziatario Oracle non ha più interesse all’utilizzo del software e vuole liberarsene, monetizzando il valore residuo derivante dalla licenza permanente concessa da Oracle. In questo caso UsedSoft “acquista” la licenza software e la rivende a un terzo. Il terzo scarica il software dal sito di Oracle e il licenziatario cancella il software dal proprio server e dalle proprie stazioni di lavoro; ii) il licenziatario Oracle ha acquistato una licenza per un numero di stazioni di lavoro maggiore di quello di cui ha bisogno (immaginiamo il caso in cui la licenza Oracle consenta l’installazione in 25 stazioni di lavoro per licenza, se il licenziatario ha 30 stazioni di lavoro dovrà acquistare 2 licenze, così ha virtualmente licenza per 20 stazioni di lavoro non utilizzate). In questo caso UsedSoft “acquista” la quota parte di licenza non utilizzata dal licenziatario Oracle e la rivende a terzi. Il terzo scarica il software dal sito di Oracle e il software continua a essere usato contemporaneamente dal licenziatario (per il numero di stazioni di lavoro ancora a sua disposizione) e dal terzo acquirente (per il numero di stazioni di lavoro acquistate in licenza).

La Corte di Giustizia sembra avere in una certa misura legittimato uno dei modelli di business di Usedsoft (il primo che prevede la cessione della licenza e la cancellazione del software dalla memoria del cedente, consentendo il download del software da parte del cessionario dal server di Oracle). I punti fondamentali del ragionamento della Corte sono:

i) se la distribuzione mediante download da un sito internet sia qualificabile come “vendita della copia di un programma”: la “vendita” è un accordo con cui una persona cede ad altri, a fronte del pagamento di un prezzo, i propri diritti di proprietà su un bene materiale o immateriale. Ne consegue che l’operazione commerciale di UsedSoft è giustificata (a termini dell’articolo 4.2 Dir. Soft.) dall’esaurimento del diritto di distribuzione relativo alla copia del programma Oracle, poiché Oracle trasferisce ai suoi clienti il diritto di proprietà sulle copie dei suoi programmi;

ii) se la distribuzione mediante download da un sito internet sia qualificabile come comunicazione al pubblico/messa a disposizione del pubblico ai sensi dell’art. 3 Dir. Infosoc: il download del software non può essere inquadrato tra gli atti di comunicazione al pubblico perché la nozione di comunicazione al pubblico non è richiamata nella Dir. Soft., che include invece tra gli atti riservati al titolare dei diritti “qualsiasi forma di distribuzione al pubblico”. Inoltre la Dir. Infosoc. all’art. 1.2 lett. a fa salve le disposizioni vigenti in tema di tutela giuridica dei programmi per elaboratore. E quindi non si potrebbe interpretare e/o limitare l’applicazione delle previsioni della Dir. Soft. in base alle previsioni della Dir. Infosoc;

iii) se l’esaurimento si applichi solo alla distribuzione di copie incorporate in supporti informatici tangibili o anche al download di contenuti (parità di trattamento): la vendita di un programma per elaboratore su CD-ROM o DVD e la vendita di un programma mediante download sono analoghe. L’interpretazione dell’art. 4.2 Dir. Soft. alla luce del principio della parità di trattamento conferma che l’esaurimento del diritto di distribuzione è efficace a seguito della prima vendita della copia di un programma nell’Unione da parte del titolare del diritto d’autore o con il suo consenso, indipendentemente dalla questione se la vendita riguardi una copia tangibile o intangibile del programma;

iv) se la licenza d’uso che accompagna la distribuzione del programma possa circolare anche solo come una frazione: si è detto che le licenze Oracle prevedono che il programma sia installabile su un numero predefinito di stazioni di lavoro. E che la prassi di UsedSoft è di rivendere licenze anche solo per la quota parte delle stazioni di lavoro che i licenziatari Oracle non utilizzano. Per la Corte questa prassi non è lecita. Si oppone l’esclusiva sul diritto di riproduzione, che non consente la creazione di una nuova copia a favore del terzo cliente di UsedSoft nel caso in cui la copia immessa in commercio sia ancora nella disponibilità del licenziatario originario di Oracle.

In base a questa ricostruzione non sembra che i principi enunciati nel caso Usedsoft siano utilizzabili utilmente a fini di interpretazione della legittimità del modello di business di ReDigi per due ordini di motivi:

A. vi sono innanzitutto alcune diversità tra modelli di business: i) Usedsoft gestisce esclusivamente rivendita di software (e non contenuti digitali qualificabili come opere tutelate dal diritto d’autore); ii) la rivendita del software avviene sotto forma di negoziazione delle licenze (Usedsoft non riproduce e non scambia software); iii) il software di Oracle “rivenduto” da Usedsoft risiede sui server di Oracle e da qui è scaricato dagli utenti che abbiano acquisito licenza, ancorché “usata” (i clienti Usedsoft non devono quindi caricare nulla sul cloud); iv) Usedsoft non sembra aver alcun sistema per garantire la rimozione del software “rivenduto” dalla memoria del venditore (non implementa quindi tecnologie assimilabili al Music Manager di ReDigi); v) Usedsoft non sembra utilizzare alcun sistema per verificare la legittimità della provenienza del software (non implementa quindi tecnologie assimilabili al Verification Engine di ReDigi);

B. vi sono alcuni passaggi dell’argomentazione della Corte di Giustizia che non sembrano estensibili telles quelles alla rivendita di contenuti digitali sul tipo di quella di ReDigi: i) la distribuzione mediante download di software rientrerebbe nella fattispecie di “distribuzione al pubblico” prevista dall’art. 4 Dir. Soft. (soggetta ad esaurimento comunitario) mentre la Dir. Soft. non richiama la nozione di “comunicazione al pubblico” e la Dir. Soft. è lex specialis rispetto alla Dir. Infosoc. (e quindi se oggetto di distribuzione non è un software ma un contenuto digitale di diversa natura il problema di qualificazione dell’atto come “comunicazione al pubblico/messa a disposizione del pubblico” o come “distribuzione” riemergerebbe); ii) il divieto della cessione “parziale” della licenza Oracle a causa dell’esclusiva sul diritto di riproduzione, che non consentirebbe la creazione di una nuova copia a favore del terzo cliente di UsedSoft mentre il titolare originario continua ad avere una sua copia (non è affatto chiaro se il caricamento di un contenuto sul cloud con rimozione dalla memoria dell’utente potrebbe superare questa obiezione relativa al diritto di riproduzione); iii) la qualificazione della distribuzione on line di software come “atto di vendita” cui si applica l’esaurimento comunitario si basa su una nozione di diritto comunitario secondo cui è vendita, a prescindere dalla definizione datane dalle parti, la cessione dei diritti di proprietà su una copia del software per un periodo illimitato e dietro pagamento di un corrispettivo una tantum (non è scontato che queste caratteristiche ricorrano per la rivendita organizzata da ReDigi che si basa sul caricamento sul cloud di un contenuto digitale e sul cambio delle credenziali di accesso al file sul cloud).

E pertanto si può concludere che il quadro normativo e giurisprudenziale nell’Unione Europea non sembra allo stato offrire chiari orientamenti per la valutazione della legittimità del modello di business di operatori di rivendita di contenuti digitali “usati”. Non sono di aiuto in questo senso né le norme in tema di tutela dei brevetti (in particolare in punto di brevettabilità di metodi di business e di illiceità dei brevetti) né le norme in tema di tutela del diritto d’autore (dal momento che è ancora molto dubbio l’inquadramento della distribuzione di contenuti digitali on line tra gli atti di comunicazione al pubblico/messa a disposizione del pubblico o tra gli atti di distribuzione di copie digitali, con qualche apertura favorevole alla natura di atti di distribuzione solo con riferimento al settore della distribuzione del software).

D’altra parte si deve notare come l’orientamento della Corte di Giustizia UE sulla rivendita di software sembra presentare delle differenze rispetto alla giurisprudenza statunitense sul caso ReDigi. In particolare:

1) secondo la Corte di Giustizia, quantomeno nei casi in cui il download via internet si riferisca a software, non ha molto senso la distinzione tra “distribuzione” e “comunicazione al pubblico/messa a disposizione del pubblico” e il principio dell’esaurimento comunitario si applicherebbe a qualsiasi forma di distribuzione (anche on line) del software Secondo i giudici statunitensi del caso ReDigi non vi è dubbio che il download dei file musicali “usati” implichi un atto di distribuzione;

2) secondo la Corte di Giustizia la vendita di un programma per elaboratore su CD-ROM o DVD e la vendita di un programma mediante download sono analoghe (ed entrambe soggette ad esaurimento comunitario). Secondo i giudici statunitensi del caso ReDigi il download dei file musicali “usati” non è protetto dalla first sale doctrine poiché la distribuzione per file transfer non può considerarsi relativa a copie legittimamente ricevute;

3) secondo la Corte di Giustizia l’esclusiva sul diritto di riproduzione impedirebbe la creazione di una nuova copia del software a favore del terzo cliente di UsedSoft solo nel caso in cui la copia immessa in commercio sia ancora nella disponibilità del licenziatario originario di Oracle (c.d. cessione frazionata). Secondo i giudici statunitensi del caso ReDigi ogni atto di trasferimento di una copia digitale (ancorché accompagnato dall’eliminazione della copia nella memoria originaria) implica un atto di riproduzione che deve essere autorizzato dal titolare dei diritti.

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